Articolo di Andrea Carlo Cappi
(nel 50° anniversario, 12 dicembre 2019)
Ventitré anni fa condussi una piccola inchiesta sulla strage di piazza Fontana a Milano e sulla Strategia della Tensione, che portò ad alcuni articoli pubblicati su una rivista. In essi sottolineavo tanto i legami tra il terrorismo di destra e i servizi segreti americani, quanto le numerose analogie "tecniche" con varie operazioni della CIA degli anni Sessanta e Settanta.
Qualcuno avrà capito che per scrivere i miei libri ho alle spalle parecchi anni di studio nel campo dello spionaggio. Ebbene, è interessante notare, come ho indicato nella cronologia apparsa l'anno scorso su questo blog, che tra i primi artefici di questi intrighi italiani figura il nome di Clay Shaw, agente della CIA e unico imputato in un processo collegato all'assassinio del presidente Kennedy.
In particolare nella vicenda di piazza Fontana si riscontrano metodologie analoghe a quelle del caso Kennedy: sosia che ingannano testimoni, testimoni che muoiono in momenti opportuni, capri espiatori eliminati in circostanze poco chiare, prove schiaccianti che appaiono a scoppio ritardato come se fossero state inserite in un secondo tempo, persino magistrati che vengono screditati quando forse si avvicinano troppo alla verità, per poi essere assolti quando ormai è tardi.
Non sto facendo banale complottismo gratuito. Saranno solo coincidenze? O forse sono piuttosto tecniche che provengono dallo stesso "manuale" della CIA? Si tratta in fondo di metodi più che normali presso i servizi segreti: provocare eventi opportuni per poi pilotare i mezzi di comunicazione, in modo da trarre in inganno l'opinione pubblica. "Fake news" come si usa dire oggi, quando la principale sorgente di disinformazione non è più necessariamente la CIA.
Nel 1996, quando mi occupai della vicenda, era in corso una nuova inchiesta che portò quantomeno a delineare la verità, anche se non a punire i colpevoli. A cinquant'anni di distanza dalla strage che diede inizio a una lunga stagione di sangue in Italia, ripropongo l'articolo principale, che penso possa permettere la comprensione della vicenda a chi ne abbia solo sentito parlare. Conoscere il passato è sempre utile per riconoscerne i sintomi nel presente.
Il
1969 è un anno cruciale per l'Italia. Scioperi per il rinnovo
dei contratti coincidono con l'avanzata della sinistra
extraparlamentare. L'esplosione di numerosi ordigni pone le basi
della cosiddetta Strategia della Tensione. Tra gli
attentati più clamorosi, quelli del 25 aprile a Milano alla
Fiera Campionaria e alla Banca Nazionale delle Comunicazioni
nell'atrio della Stazione Centrale, bilancio complessivo una ventina
di feriti. L'ondata successiva arriva nella notte tra l'8 e il 9
agosto, con sette attentati a bordo di treni affollati di turisti,
totalizzando una dozzina di feriti tra viaggiatori e ferrovieri. Ma è
solo l'inizio.
Il
pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969, nell'edificio della
Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano, sono in
atto le ultime contrattazioni prima della chiusura della settimana.
Una bomba è stata collocata in una borsa di pelle nera,
abbandonata sotto il tavolo ottagonale al centro del salone. Alle
16.37, un cratere si apre in mezzo al salone circolare, mentre
nell'aria volano brandelli di carne umana e mortali schegge di legno,
vetro e metallo. L'esplosione delle vetrate verso strada ferisce
anche alcuni passanti, ma niente prepara i primi soccorritori
all'orrore che li aspetta all'interno: tra i cadaveri straziati, i
pochi superstiti, atterriti e mutilati, implorano aiuto. Il bilancio
definitivo sarà di diciassette morti e ottantotto feriti.
In
quello stesso istante, poco lontano da piazza Fontana, nella sede
centrale della Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala,
alcuni impiegati stanno esaminando con sospetto una borsa nera
trovata abbandonata vicino all'ascensore. La borsa, molto pesante,
contiene una comune cassetta metallica portavalori. Il frastuono
dell'esplosione proveniente da piazza Fontana dà la conferma
alla peggiore delle ipotesi. La banca viene evacuata. Per sicurezza,
l'ingegner Teonesto Cerri, perito accorso sul luogo insieme agli
artificieri, disporrà poche ore dopo che la bomba venga
sepolta nel giardino interno della banca e fatta esplodere.
Alle
16.55, mentre a Milano si mobilitano decine e decine di
autoambulanze, a Roma un'esplosione devasta il sottopassaggio che
collega l'edificio della Banca Nazionale del Lavoro di via Bissolati
a una dépendance in via San Basilio, causando il ferimento di
quattordici impiegati.
Sempre a Roma, tra le 17.20 e le 17.30, altre
due bombe esplodono sull'Altare della Patria. Ci saranno alcuni
feriti, ma il valore di quest'ultimo attentato è
prevalentemente simbolico. La prima fase, seminare morte e
distruzione tra Milano e Roma, è completa. Ora scatta la
seconda fase: indicare il capro espiatorio.
Poche
ore dopo, a Milano, il commissario Luigi Calabresi invita il
ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli a seguirlo in questura. Sono
molti gli anarchici fermati a seguito della strage di piazza Fontana:
di loro si è cominciato a sospettare fin dalle bombe di
aprile. Alcuni vengono trasferiti a San Vittore, altri rilasciati, ma
Pinelli non è tra loro.
Trattenuto illegalmente in questura e
sottoposto a un pressante interrogatorio, nella notte tra il 15 e il
16 dicembre cade da una finestra in circostanze mai perfettamente
chiarite.
Considerata al tempo stesso suicidio e ammissione di colpa,
la sua morte viene usata come conferma della pista anarchica e si
inquadra nella fabbricazione del colpevole "ideale".
Il
candidato è Pietro Valpreda, ballerino milanese trentasettenne
e, tempo prima, frequentatore del circolo anarchico di Pinelli.
Trasferitosi a Roma, dove ha fatto parte del gruppo Bakunin prima di
fondarne uno denominato 22 Marzo, Valpreda ha scritto articoli
piuttosto accesi sulla rivista "Terra e libertà" e
si è dedicato alla produzione di lampade liberty. Gira la voce
che si sia vantato di responsabilità in attentati.
Saputo che
la magistratura romana vuole interrogarlo, Valpreda, che si trova a
Milano, si presenta spontaneamente a Palazzo di Giustizia la mattina
del 15 dicembre. A Roma il pubblico ministero Vittorio Occorsio ha
già pronto un mandato di cattura per lui. Valpreda viene
immediatamente trattenuto e trasferito alla questura di Roma. Nei
giorni seguenti, a partire da Giorgio Zicari del "Corriere della
sera", la stampa costruisce su Valpreda l'immagine del mostro.
Cinque anni dopo Zicari ammetterà di lavorare per il SID, il
Servizio Informazioni Difesa la cui sigla apparirà più
volte nelle inchieste sulla strage.
Ma intanto, nel 1969, la
disinformazione fa i suoi effetti. Tutti si convincono della
colpevolezza degli anarchici.
Il
taxista Cornelio Rolandi dichiara alla polizia di avere trasportato
l'attentatore sulla sua 600 multipla. Poco prima dell'attentato un
uomo con una pesante borsa nera è salito sul suo taxi in piazza Beccaria,
chiedendogli di portarlo nella vicinissima piazza Fontana (135
metri). In realtà l'uomo ha fatto aspettare il taxi all'angolo di
via Santa Tecla, è sceso, ha raggiunto la piazza a piedi (234 metri tra
andata e ritorno) ed è risalito senza borsa per farsi lasciare all'imbocco di
via Albricci.
Un tragitto molto improbabile per un attentatore che
voglia passare inosservato. Ma nessuno sospetta che Rolandi sia stato
vittima di una manovra di depistaggio e la sua testimonianza viene
rapidamente strumentalizzata.
Gli
viene mostrata una foto di Valpreda, quasi un invito al
riconoscimento da parte del questore milanese Marcello Guida. Poi il taxista viene condotto a Roma, dove tra varie persone identifica facilmente
l'indiziato. Sette mesi più tardi, il 2 luglio 1970, temendo
per la salute di Rolandi i giudici romani raccolgono una sua
deposizione "a futura memoria". Sorprendente prudenza, dato
che Rolandi non è afflitto da alcun male incurabile. Eppure,
oltre un anno dopo, il 16 luglio 1971, Rolandi verrà trovato
morto nel suo appartamento. Il suo decesso sarà attribuito a
polmonite secca senza febbre.
Un
ulteriore dettaglio emerge il 2 febbraio 1970: tra i frammenti
raccolti dopo che gli artificieri hanno fatto detonare la bomba nel
giardino della Banca Commerciale di piazza della Scala, compare... improvvisamente un pezzetto di vetro colorato mai segnalato nelle
settimane precedenti. Il vetro è analogo a quello usato da
Valpreda per le sue lampade liberty e sembra messo a bella posta per
suggerire che la bomba sia stata confezionata nello stesso
laboratorio.
Su queste basi Valpreda rimarrà in carcere in
attesa di giudizio per tre anni. Solo grazie a una legge varata nel
novembre 1972 e detta appunto "legge Valpreda" potrà
essere messo almeno in libertà provvisoria.
Può
sembrare strana la rapidità con cui nel dicembre 1969 le
autorità presentano i "colpevoli" all'opinione
pubblica. In realtà tutto è stato ben orchestrato.
Le
notizie di cui dispone la polizia sono di prima mano: del circolo 22
Marzo di Valpreda a Roma fa parte un certo Andrea, in realtà
agente di Pubblica Sicurezza Salvatore Ippolito.
Diverso è il
caso di un altro membro del gruppo, Mario Merlino, che al momento
dell'arresto diviene il principale informatore della polizia. In
realtà Merlino è un ex militante di estrema destra,
amico del neofascista Stefano Delle Chiaie. Si tratta di un agente
provocatore che, per entrare nel gruppo, ha dichiarato di avere
abbandonato il fascismo e di essere passato prima al cattolicesimo
(nella persona di don Mario Vanini, casualmente amico anche del
commissario Calabresi) e poi all'anarchia. Grazie a lui, la
magistratura romana punta immediatamente su Valpreda.
Vicino
a Pinelli è invece Antonio Sottosanti, detto "Nino il Fascista" per le sue simpatie politiche precedenti la
conversione all'anarchia. Sottosanti lavorava alla Fiera Campionaria
il 25 aprile delle bombe. E il caso vuole che sia molto somigliante a
Pietro Valpreda, circostanza notata, sulla base di una fotografia,
dallo stesso testimone Rolandi. Questo è il primo di una serie di ipotetici
sosia dell'accusato, che potrebbero avere realizzato un'operazione di
depistaggio servendosi dell'ignaro taxista.
Ma
la costruzione che vuole gli anarchici responsabili della strage non
tiene conto di un imprevisto.
Entro la fine dell'anno Guido Lorenzon,
insegnante veneto, informa la magistratura di Treviso dell'esistenza
di un'organizzazione padovana di estrema destra, diretta dall'avvocato
Franco Freda e dal libraio Giovanni Ventura. Amico di Lorenzon,
Ventura gli ha più volte riferito dettagli relativi a diversi
attentati, da quelli sui treni in agosto a quelli del dodici
dicembre, compresi i problemi relativi al sottopassaggio della banca
a Roma.
Ventura sperava di coinvolgerlo nelle proprie imprese, invece
ha portato Lorenzon a rompere il proprio silenzio. Nei mesi
successivi, Lorenzon è oggetto di forti pressioni da parte di
Freda e Ventura affinché ritratti, ma senza successo.
Inutilmente Ventura si finge di estrema sinistra per nascondere i
suoi legami con Freda e con l'estrema destra. Col procedere delle
indagini, ulteriori confessioni confermano il quadro delineato da
Lorenzon e portano i giudici sulla pista giusta: la "pista nera".
Attraverso
le inchieste promosse a Treviso dal giudice Giancarlo Stiz, a Padova
dal giudice Giovanni Tamburino e, successivamente, a Milano dai
magistrati Gerardo D'Ambrosio ed Emilio Alessandrini, si delineano le
attività dell'organizzazione di estrema destra Ordine Nuovo,
il cui gruppo padovano guidato da Freda e Ventura è attivo in
tutta Italia.
Facciamo un passo indietro nel tempo.
Nel
1966 Freda e Ventura sono responsabili dell'invio di duemila lettere firmate
"Nuclei di Difesa dello Stato" a esponenti dell'esercito,
con l'invito esplicito alla presa di potere da parte dei militari.
Nel 1968, insieme ad Angelo Ventura (fratello di Giovanni),
Massimiliano Fachini, Marco Pozzan e Ruggero Pan, i due maneggiano grandi
quantità di armi ed esplosivi: è in questo periodo che
a Padova comincia la stagione delle bombe.
Il
primo a scoprire la pista nera è il commissario padovano
Pasquale Iuliano, che nel giugno 1969 arresta Fachini (luogotenente
di Freda) e alcuni suoi complici per possesso di armi. Ma il
commissario, accusato di avere usato metodi illeciti per incastrarli,
viene immediatamente sospeso. Inoltre l'unico testimone a suo favore,
l'ex carabiniere Alberto Muraro, portinaio dello stabile in cui vive
uno degli arrestati, viene trovato morto in settembre nel pozzo
dell'ascensore e rapidamente sepolto senza autopsia.
Freda e Ventura
possono continuare ad agire indisturbati: qualcuno veglia su di loro
dall'alto.
Lo
stesso Ventura ammette in interrogatorio di avere collocato
personalmente, nel maggio 1969, una bomba al Palazzo di Giustizia di
Torino e di essere stato al corrente di numerose azioni analoghe in
altre parti d'Italia.
Tali bombe, dotate di innesco con fiammiferi
antivento e contenute in cassette di legno all'interno di scatole di
cartone per libri, sono state ritrovate inesplose.
Il problema
dell'innesco mancato ricorre frequentemente negli attentati del
gruppo. Paradossalmente, l'organizzazione dispone di grandi quantità
di esplosivo, ma non di adeguate capacità tecniche.
La
soluzione si è presentata quando Freda si è rivolto a un ingenuo
elettricista, facendogli credere di essere interessato al lancio di
razzi, presumibilmente per fuochi d'artificio. L'elettricista ha spiegato all'avvocato come fabbricare un meccanismo di innesco, utilizzando i
fiammiferi antivento e le lancette di un orologio.
Erano i primi
giorni dell'agosto 1969: il metodo venne immediatamente collaudato
con discreto successo nelle bombe sui treni.
In
settembre, sempre servendosi della consulenza dell'elettricista,
Freda è passato dall'uso di una cassetta di legno come contenitore per la
bomba a quello di una cassetta metallica, in grado di rendere
l'ordigno più micidiale.
Due falliti attentati antisloveni
preparati a ottobre vedevano appunto l'impiego di scatole metalliche
per munizioni. L'elettricista suggeriva l'impiego di cassette
portavalori e la sua proposta è stata accolta: le bombe del 12 dicembre
saranno contenute in cassette prodotte dalla ditta milanese Juwel.
L'elettricista, benché totalmente estraneo al neofascismo, è
ormai l'inconsapevole consulente tecnico del gruppo. Su suo
consiglio, Freda ordina cinquanta timer alla ditta Elettrocontrolli
di Bologna: sono timer della ditta Junghans-Diehl, cinque dei quali
verranno impiegati per le bombe del 12 dicembre.
Interrogato
sulla destinazione dei cinquanta timer, Freda racconta di essere in
contatto con un'organizzazione araba, attraverso un fantomatico
colonnello Hamid dell'esercito algerino. A lui, nel settembre 1969,
Freda avrebbe consegnato i cinquanta timer, destinati a una serie di
attentati filopalestinesi contro gli israeliani.
Solo
nel settembre 1972, grazie a un articolo su "L'Espresso",
emerge il fatto che già il 15 dicembre 1969 titolari e
commessi della valigeria "Al Duomo" di Padova hanno
segnalato l'acquisto di quattro borse identiche a quella impiegata
per la bomba trovata alla Banca Commerciale di Milano il 12 dicembre.
Si tratta di borse di fabbricazione tedesca, vendute solo in un paio
di negozi in tutta Italia: una pista semplice da seguire eppure
deliberatamente ignorata per tre anni.
L'acquirente viene
identificato in Franco Freda.
Intanto,
il 28 agosto 1972, viene emesso mandato di cattura per Freda e
Ventura, stavolta con l'accusa di strage. Con le prime ammissioni di
Ventura durante l'inchiesta di D'Ambrosio del marzo 1973, lo scenario
si allarga.
Quello che nei primi giorni veniva fatto passare come
l'opera di un gruppuscolo anarchico si configura invece come il
frutto di oscuri legami tra membri di Ordine Nuovo, dell'esercito e
dei servizi segreti (il SID). Gli uomini chiave di queste trame si chiamano
colonnello Amos Spiazzi, Carlo Maria Maggi, Carlo Digilio e Marcello
Soffiati.
Emerge
inoltre una nuova figura: quella del giornalista Guido Giannettini,
uomo del SID e referente di Ordine Nuovo a Padova. Nell'aprile del
1973, su consiglio del capitano Antonio Labruna del SID, Giannettini
lascia l'Italia per Parigi e poi per Madrid, ricomparendo nell'agosto
1974 a Buenos Aires, dove si consegna al consolato italiano.
Non è
l'unico e scegliere la fuga all'estero: nel 1973 il latitante Marco
Pozzan è fuggito a Madrid con l'aiuto del SID. Lo stesso anno
un'offerta analoga viene fatta anche a Giovanni Ventura: il SID gli
procura la chiave della cella per farlo evadere, ma Ventura non
accetta, temendo una trappola.
In
tutto questo tempo, i processi per la strage compiono un'odissea
attraverso tutta l'Italia. Quello contro gli anarchici del 22 Marzo,
trasferito da Roma a Milano nel marzo 1972, viene nuovamente spostato
dalla corte di Cassazione a Catanzaro nell'ottobre dello stesso anno,
temendo che a Milano manchi la necessaria serenità. Nel 1974
tutte le inchieste e i processi su piazza Fontana sono unificati a
Catanzaro.
Ormai l'indagine è diventata una ragnatela di fatti
e personaggi. Sono inquisiti il generale Gian Adelio Maletti, il
generale Vito Miceli e il capitano Antonio Labruna, appartenenti al
SID. L'ex presidente del consiglio Mariano Rumor viene accusato di
reticenza perché risponde alle domande con una lunga serie di
"non ricordo". E intanto, il 30 settembre 1978, Freda
scompare dal soggiorno obbligato di Catanzaro, imitato da Ventura il
16 gennaio 1979. Giusto in tempo per sottrarsi alla sentenza di primo
grado, che li dichiara colpevoli.
Freda
e Ventura vengono ripresi nell'agosto del 1979, rispettivamente in
Costa Rica e in Argentina. Sono passati quasi dieci anni dalla strage.
La storia potrebbe concludersi a questo
punto, se il 20 marzo del 1981 la corte d'appello di Catanzaro,
avanzando dubbi su tutte le prove ritenute valide in primo grado, non
ribaltasse la sentenza, decidendo per l'assoluzione.
La sentenza
viene annullata, ma la corte d'appello di Bari, cui la Cassazione ha
affidato il processo, giunge alla stessa conclusione: assoluzione per
insufficienza di prove.
Freda e Ventura non potranno mai essere
nuovamente processati per la strage di piazza Fontana.
Bisogna
attendere gli anni Novanta prima che la verità torni in
superficie, grazie a un'inchiesta condotta dal giudice milanese Guido
Salvini su La Fenice, un gruppo di Ordine Nuovo guidato da Giancarlo
Rognoni.
La Fenice, con base a Milano, è responsabile
dell'attentato dell'aprile 1973 sul treno Torino-Roma, in cui il
neofascista Nico Azzi è rimasto ferito dal suo stesso ordigno,
ed è sospettata per quello di piazza della Loggia a Brescia
nel maggio 1974. Il gruppo di Rognoni si collega a un altro troncone
di Ordine Nuovo con base a Mestre, che si configura come l'anello
mancante di tutte le precedenti ricostruzioni della strage di piazza
Fontana.
Nel
1994 la pista conduce a Martino Siciliano, che al tempo della sua
militanza in Ordine Nuovo operava con il capo del gruppo di Mestre,
Delfo Zorzi. Malgrado le pressioni dell'ex camerata, in autunno
Siciliano decide di collaborare con la giustizia, riferendo alcune
ammissioni fatte da Zorzi il 31 dicembre 1969 sulla propria
responsabilità nella strage di piazza Fontana.
Dunque sarebbe Zorzi l'uomo che ha portato la bomba a piazza Fontana?
Un altro
pentito, Carlo Digilio, ricorda un dettaglio importante: Zorzi gli ha
rivelato di essersi occupato personalmente della collocazione della
bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, operazione resa
possibile dall'aiuto del "figlio di un direttore di banca".
Questa definizione potrebbe con qualche approssimazione riferirsi a
Mario Merlino, di cui un rapporto del SID di poco posteriore al 12
dicembre 1969 afferma: "conoscerebbe bene il sottopassaggio
della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio e suo padre
sarebbe amico del direttore della Banca Nazionale dell'Agricoltura di
Milano."
Nel
novembre 1994 riappare un'altra figura dal passato: si tratta
dell'elettricista che venticinque anni prima ha insegnato a Freda le
tecniche di innesco e lo ha consigliato sull'acquisto dei timer.
Ormai sessantenne, libera la propria coscienza davanti ai carabinieri
del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), svelando quello che per
paura di ritorsioni ha sempre tenuto per sé e distruggendo con
poche parole la linea di difesa che ha portato all'assoluzione di
Freda e Ventura.
Nello studio di Freda, nel novembre del 1969, l'elettricista ha
tenuto all'avvocato e al libraio una vera e propria lezione sull'uso
dei timer. Dunque i timer erano ancora in possesso di Freda in
novembre, cioè due mesi dopo la presunta consegna al
fantomatico Hamid e poche settimane prima della strage.
Solo dopo il
12 dicembre l'elettricista capiva che Freda e Ventura non stavano
preparando fuochi artificiali e, quando in primavera Freda gli
proponeva una collaborazione continuativa, promettendogli denaro e
protezione dall'alto, l'uomo declinava l'offerta.
Quindi
la "pista nera" era giusta e conduceva al gruppo padovano di Freda e
Ventura, coadiuvato dal quello mestrino di Zorzi.
Ma un'altra serie
di retroscena viene svelata tra il 1994 e il 1996 dai pentiti Digilio
e Siciliano.
All'epoca
della strage, per Ordine Nuovo, Digilio è "Zio Otto",
prezioso esperto dell'uso di armi da fuoco: in questa veste visita un
casolare a Paese, in provincia di Treviso, dove scopre una vasta
riserva di armi ed esplosivi a disposizione dei neofascisti e dove
incontra Delfo Zorzi.
In tale occasione l'uomo che accompagna
Digilio, il professor Lino Franco, dà a Giovanni Ventura
alcuni preziosi consigli, tra cui l'impiego di fiammiferi antivento
per l'innesco: è questo il metodo in seguito adottato con
successo da Freda e Ventura.
Digilio nega il proprio coinvolgimento
nell'eversione e si ritaglia un ruolo di semplice osservatore nella
preparazione degli ordigni nel casolare di Paese. C'è però
anche chi, come Siciliano, ricorda Digilio come l'artefice degli ordigni
antisloveni inesplosi dell'ottobre 1969 e lo sospetta come
confezionatore delle bombe di piazza Fontana e di piazza della
Loggia.
Ma
dal 1967 Digilio è anche "Erodoto", fiduciario nel Veneto per conto della
CIA, ovvero la Central Intelligence Agency, i servizi segreti USA: è un ruolo che ha ereditato dal padre Michelangelo,
insieme al nome in codice.
Per conto della CIA Carlo Digilio osserva
i movimenti dei neofascisti e li riferisce al capitano statunitense
David Carrett, di stanza fino al 1974 presso la base FTASE (Forze
Tattiche Alleate in Sud Europa) di Verona e quindi agente di
un'organizzazione CIA-NATO.
Digilio non è l'unico agente
americano inserito nella struttura neofascista: per la CIA lavorano
anche Marcello Soffiati e Lino Franco, in stretto contatto con una
delle menti del gruppo di Mestre, Carlo Maria Maggi.
E sempre per lo spionaggio americano lavora anche Sergio Minetto, ex
combattente della Repubblica Sociale Italiana, legato a un'organizzazione filonazista tedesca
denominata "Gli elmetti d'acciaio" (Der Stahlelmen). Questa
organizzazione gestisce anche alcune esercitazioni dei Nuclei per la
Difesa dello Stato (gli stessi della lettera spedita da Freda e
Ventura). A tali esercitazioni partecipa in un ruolo direttivo il colonnello Amos
Spiazzi, che viene arrestato nel gennaio 1974 come leader dell'organizzazione
segreta Rosa dei Venti.
Da questo labirinto di nomi, nel quale è
difficile determinare dove finisce la fedeltà all'Alleanza Atlantica e dove comincia la nostalgia per Adolf Hitler, si evince
un unico dato preciso.
La Central Intelligence Agency statunitense,
nell'ambito delle attività della NATO (vale a dire l'alleanza
tra i paesi del Nord Atlantico, Italia inclusa) ha osservato e appoggiato le
attività dei neofascisti dell'area veneta.
L'obiettivo di
partenza era quello di organizzare un'efficace resistenza in
caso di invasione sovietica, il che spiega la nascita di Stay Behind,
più nota agli italiani come "Gladio".
Ma nel 1963 il generale USA Westmoreland stabiliva che il comunismo dovesse essere fermato a ogni
costo: questa direttiva venne interpretata dando origine ai Nuclei
per la Difesa dello Stato e offrendo aiuto a elementi dell'estrema
destra eventualmente in grado di prendere il potere. I fascisti erano sicuramente anticomunisti.
Gli attentati
compiuti dagli uomini di Ordine Nuovo vennero attribuiti alla
sinistra, o quantomeno agli anarchici, creando un clima favorevole a un colpo di stato militare
col pretesto di ristabilire l'ordine. Di fronte alla minaccia di (apparente) terrorismo rosso-anarchico, l'opinione pubblica avrebbe accettato più facilmente l'imposizione di un governo sul modello fascista-militarista: i piromani si sarebbero travestiti da pompieri e si sarebbero presentati come "salvatori della Patria" da un pericolo che in realtà avevano creato loro stessi.
Dal canto loro, gli USA sarebbero stati tranquilli: l'Italia - il paese con il più grande Partito Comunista al di fuori del blocco sovietico ma, in ambito NATO, fondamentale baluardo tra est e ovest - non avrebbe corso il rischio di diventare "rossa". Esattamente come non poteva diventarlo la Spagna, che dal 1939 al 1975 era sotto la dittatura di destra di Francisco Franco.
Il prezzo da pagare per gli italiani sarebbe stato, naturalmente, tornare sotto un regime fascista-militare. Destino toccato invece alla Grecia con il colpo di stato dei "colonnelli" che impose la dittatura tra il 1967 e il 1974, anche questa sotto l'egida della CIA. Analoga sorte per il Cile, con il golpe del 1973 che portò al potere il generale Pinochet, destinato a restare in carica fino al 1990. L'Italia ha rischiato di fare la stessa fine: un colpo di stato "preventivo" dimodoché i nordamericani potessero essere sicuri che il territorio non passasse al "nemico".
Le vittime di piazza Fontana e
delle altre stragi sono gli innocenti caduti in una delle fasi più
oscure della Guerra Fredda, uccisi da un perverso meccanismo che
molti conoscevano e che pochi hanno tentato di fermare.
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