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jueves, 12 de diciembre de 2019

La verità su piazza Fontana



Articolo di Andrea Carlo Cappi
(nel 50° anniversario, 12 dicembre 2019)

Nel 1996 condussi una piccola inchiesta sulla strage di piazza Fontana a Milano e sulla Strategia della Tensione, che portò ad alcuni articoli pubblicati su una rivista. In essi sottolineavo tanto i legami tra il terrorismo di destra e i servizi segreti americani, quanto le numerose analogie "tecniche" con varie operazioni della CIA degli anni Sessanta e Settanta.
Qualcuno avrà capito che per scrivere i miei libri ho alle spalle parecchi anni di studio nel campo dello spionaggio. Ebbene, è interessante notare, come ho indicato nella cronologia apparsa l'anno scorso su questo blog, che tra i primi artefici di questi intrighi italiani figura il nome di Clay Shaw, agente della CIA e unico imputato in un processo collegato all'assassinio del presidente Kennedy.
In particolare nella vicenda di piazza Fontana si riscontrano metodologie analoghe a quelle del caso Kennedy: sosia che ingannano testimoni, testimoni che muoiono in momenti opportuni, capri espiatori eliminati in circostanze poco chiare, prove schiaccianti che appaiono a scoppio ritardato come se fossero state inserite in un secondo tempo, persino magistrati che vengono screditati quando forse si avvicinano troppo alla verità, per poi essere assolti quando ormai è tardi.
Non sto facendo banale complottismo gratuito. Saranno solo coincidenze? O forse sono piuttosto tecniche che provengono dallo stesso "manuale" della CIA? Si tratta in fondo di metodi più che normali presso i servizi segreti: provocare eventi opportuni per poi pilotare i mezzi di comunicazione, in modo da trarre in inganno l'opinione pubblica. Fake news come si usa dire oggi, quando la principale sorgente di disinformazione non è più necessariamente la CIA.
Nel 1996, quando mi occupai della vicenda, era in corso una nuova inchiesta che portò quantomeno a delineare la verità, anche se non a punire i colpevoli. A cinquant'anni di distanza dalla strage che diede inizio a una lunga stagione di sangue in Italia, ripropongo l'articolo principale, che penso possa permettere la comprensione della vicenda a chi ne abbia solo sentito parlare. Conoscere il passato è sempre utile per riconoscerne i sintomi nel presente.

Il 1969 è un anno cruciale per l'Italia. Scioperi per il rinnovo dei contratti coincidono con l'avanzata della sinistra extraparlamentare. L'esplosione di numerosi ordigni pone le basi della cosiddetta Strategia della Tensione. Tra gli attentati più clamorosi, quelli del 25 aprile a Milano alla Fiera Campionaria e alla Banca Nazionale delle Comunicazioni nell'atrio della Stazione Centrale, bilancio complessivo una ventina di feriti. L'ondata successiva arriva nella notte tra l'8 e il 9 agosto, con sette attentati a bordo di treni affollati di turisti, totalizzando una dozzina di feriti tra viaggiatori e ferrovieri. Ma è solo l'inizio.
Il pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969, nell'edificio della Banca Nazionale dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano, sono in atto le ultime contrattazioni prima della chiusura della settimana. Una bomba è stata collocata in una borsa di pelle nera, abbandonata sotto il tavolo ottagonale al centro del salone. Alle 16.37, un cratere si apre in mezzo al salone circolare, mentre nell'aria volano brandelli di carne umana e mortali schegge di legno, vetro e metallo. L'esplosione delle vetrate verso strada ferisce anche alcuni passanti, ma niente prepara i primi soccorritori all'orrore che li aspetta all'interno: tra i cadaveri straziati, i pochi superstiti, atterriti e mutilati, implorano aiuto. Il bilancio definitivo sarà di diciassette morti e ottantotto feriti.
In quello stesso istante, poco lontano da piazza Fontana, nella sede centrale della Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala, alcuni impiegati stanno esaminando con sospetto una borsa nera trovata abbandonata vicino all'ascensore. La borsa, molto pesante, contiene una comune cassetta metallica portavalori. Il frastuono dell'esplosione proveniente da piazza Fontana dà la conferma alla peggiore delle ipotesi. La banca viene evacuata. Per sicurezza, l'ingegner Teonesto Cerri, perito accorso sul luogo insieme agli artificieri, disporrà poche ore dopo che la bomba venga sepolta nel giardino interno della banca e fatta esplodere.
Alle 16.55, mentre a Milano si mobilitano decine e decine di autoambulanze, a Roma un'esplosione devasta il sottopassaggio che collega l'edificio della Banca Nazionale del Lavoro di via Bissolati a una dépendance in via San Basilio, causando il ferimento di quattordici impiegati.
Sempre a Roma, tra le 17.20 e le 17.30, altre due bombe esplodono sull'Altare della Patria. Ci saranno alcuni feriti, ma il valore di quest'ultimo attentato è prevalentemente simbolico. La prima fase, seminare morte e distruzione tra Milano e Roma, è completa. Ora scatta la seconda fase: indicare il capro espiatorio.

Poche ore dopo, a Milano, il commissario Luigi Calabresi invita il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli a seguirlo in questura. Sono molti gli anarchici fermati a seguito della strage di piazza Fontana: di loro si è cominciato a sospettare fin dalle bombe di aprile. Alcuni vengono trasferiti a San Vittore, altri rilasciati, ma Pinelli non è tra loro.
Trattenuto illegalmente in questura e sottoposto a un pressante interrogatorio, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre cade da una finestra in circostanze mai perfettamente chiarite.
Considerata al tempo stesso suicidio e ammissione di colpa, la sua morte viene usata come conferma della pista anarchica e si inquadra nella fabbricazione del colpevole "ideale".
Il candidato è Pietro Valpreda, ballerino milanese trentasettenne e, tempo prima, frequentatore del circolo anarchico di Pinelli. Trasferitosi a Roma, dove ha fatto parte del gruppo Bakunin prima di fondarne uno denominato 22 Marzo, Valpreda ha scritto articoli piuttosto accesi sulla rivista "Terra e libertà" e si è dedicato alla produzione di lampade liberty. Gira la voce che si sia vantato di responsabilità in attentati.
Saputo che la magistratura romana vuole interrogarlo, Valpreda, che si trova a Milano, si presenta spontaneamente a Palazzo di Giustizia la mattina del 15 dicembre. A Roma il pubblico ministero Vittorio Occorsio ha già pronto un mandato di cattura per lui. Valpreda viene immediatamente trattenuto e trasferito alla questura di Roma. Nei giorni seguenti, a partire da Giorgio Zicari del "Corriere della sera", la stampa costruisce su Valpreda l'immagine del mostro. Cinque anni dopo Zicari ammetterà di lavorare per il SID, il Servizio Informazioni Difesa la cui sigla apparirà più volte nelle inchieste sulla strage.
Ma intanto, nel 1969, la disinformazione fa i suoi effetti. Tutti si convincono della colpevolezza degli anarchici.

Il taxista Cornelio Rolandi dichiara alla polizia di avere trasportato l'attentatore sulla sua 600 multipla. Poco prima dell'attentato un uomo con una pesante borsa nera è salito sul suo taxi in piazza Beccaria, chiedendogli di portarlo nella vicinissima piazza Fontana (135 metri). In realtà l'uomo ha fatto aspettare il taxi all'angolo di via Santa Tecla, è sceso, ha raggiunto la piazza a piedi (234 metri tra andata e ritorno) ed è risalito senza borsa per farsi lasciare all'imbocco di via Albricci.
Un tragitto molto improbabile per un attentatore che voglia passare inosservato. Ma nessuno sospetta che Rolandi sia stato vittima di una manovra di depistaggio e la sua testimonianza viene rapidamente strumentalizzata.
Gli viene mostrata una foto di Valpreda, quasi un invito al riconoscimento da parte del questore milanese Marcello Guida. Poi il taxista viene condotto a Roma, dove tra varie persone identifica facilmente l'indiziato. Sette mesi più tardi, il 2 luglio 1970, temendo per la salute di Rolandi i giudici romani raccolgono una sua deposizione "a futura memoria". Sorprendente prudenza, dato che Rolandi non è afflitto da alcun male incurabile. Eppure, oltre un anno dopo, il 16 luglio 1971, Rolandi verrà trovato morto nel suo appartamento. Il suo decesso sarà attribuito a polmonite secca senza febbre.
Un ulteriore dettaglio emerge il 2 febbraio 1970: tra i frammenti raccolti dopo che gli artificieri hanno fatto detonare la bomba nel giardino della Banca Commerciale di piazza della Scala, compare... improvvisamente un pezzetto di vetro colorato mai segnalato nelle settimane precedenti. Il vetro è analogo a quello usato da Valpreda per le sue lampade liberty e sembra messo a bella posta per suggerire che la bomba sia stata confezionata nello stesso laboratorio.
Su queste basi Valpreda rimarrà in carcere in attesa di giudizio per tre anni. Solo grazie a una legge varata nel novembre 1972 e detta appunto "legge Valpreda" potrà essere messo almeno in libertà provvisoria.

Può sembrare strana la rapidità con cui nel dicembre 1969 le autorità presentano i "colpevoli" all'opinione pubblica. In realtà tutto è stato ben orchestrato.
Le notizie di cui dispone la polizia sono di prima mano: del circolo 22 Marzo di Valpreda a Roma fa parte un certo Andrea, in realtà agente di Pubblica Sicurezza Salvatore Ippolito.
Diverso è il caso di un altro membro del gruppo, Mario Merlino, che al momento dell'arresto diviene il principale informatore della polizia. In realtà Merlino è un ex militante di estrema destra, amico del neofascista Stefano Delle Chiaie. Si tratta di un agente provocatore che, per entrare nel gruppo, ha dichiarato di avere abbandonato il fascismo e di essere passato prima al cattolicesimo (nella persona di don Mario Vanini, casualmente amico anche del commissario Calabresi) e poi all'anarchia. Grazie a lui, la magistratura romana punta immediatamente su Valpreda.
Vicino a Pinelli è invece Antonio Sottosanti, detto "Nino il Fascista" per le sue simpatie politiche precedenti la conversione all'anarchia. Sottosanti lavorava alla Fiera Campionaria il 25 aprile delle bombe. E il caso vuole che sia molto somigliante a Pietro Valpreda, circostanza notata, sulla base di una fotografia, dallo stesso testimone Rolandi. Questo è il primo di una serie di ipotetici sosia dell'accusato, che potrebbero avere realizzato un'operazione di depistaggio servendosi dell'ignaro taxista.
Ma la costruzione che vuole gli anarchici responsabili della strage non tiene conto di un imprevisto.

Entro la fine dell'anno Guido Lorenzon, insegnante veneto, informa la magistratura di Treviso dell'esistenza di un'organizzazione padovana di estrema destra, diretta dall'avvocato Franco Freda e dal libraio Giovanni Ventura. Amico di Lorenzon, Ventura gli ha più volte riferito dettagli relativi a diversi attentati, da quelli sui treni in agosto a quelli del dodici dicembre, compresi i problemi relativi al sottopassaggio della banca a Roma.
Ventura sperava di coinvolgerlo nelle proprie imprese, invece ha portato Lorenzon a rompere il proprio silenzio. Nei mesi successivi, Lorenzon è oggetto di forti pressioni da parte di Freda e Ventura affinché ritratti, ma senza successo. Inutilmente Ventura si finge di estrema sinistra per nascondere i suoi legami con Freda e con l'estrema destra. Col procedere delle indagini, ulteriori confessioni confermano il quadro delineato da Lorenzon e portano i giudici sulla pista giusta: la "pista nera".

Attraverso le inchieste promosse a Treviso dal giudice Giancarlo Stiz, a Padova dal giudice Giovanni Tamburino e, successivamente, a Milano dai magistrati Gerardo D'Ambrosio ed Emilio Alessandrini, si delineano le attività dell'organizzazione di estrema destra Ordine Nuovo, il cui gruppo padovano guidato da Freda e Ventura è attivo in tutta Italia.
Facciamo un passo indietro nel tempo.
Nel 1966 Freda e Ventura sono responsabili dell'invio di duemila lettere firmate "Nuclei di Difesa dello Stato" a esponenti dell'esercito, con l'invito esplicito alla presa di potere da parte dei militari.
Nel 1968, insieme ad Angelo Ventura (fratello di Giovanni), Massimiliano Fachini, Marco Pozzan e Ruggero Pan, i due maneggiano grandi quantità di armi ed esplosivi: è in questo periodo che a Padova comincia la stagione delle bombe.

Il primo a scoprire la pista nera è il commissario padovano Pasquale Iuliano, che nel giugno 1969 arresta Fachini (luogotenente di Freda) e alcuni suoi complici per possesso di armi. Ma il commissario, accusato di avere usato metodi illeciti per incastrarli, viene immediatamente sospeso. Inoltre l'unico testimone a suo favore, l'ex carabiniere Alberto Muraro, portinaio dello stabile in cui vive uno degli arrestati, viene trovato morto in settembre nel pozzo dell'ascensore e rapidamente sepolto senza autopsia.
Freda e Ventura possono continuare ad agire indisturbati: qualcuno veglia su di loro dall'alto.
Lo stesso Ventura ammette in interrogatorio di avere collocato personalmente, nel maggio 1969, una bomba al Palazzo di Giustizia di Torino e di essere stato al corrente di numerose azioni analoghe in altre parti d'Italia.
Tali bombe, dotate di innesco con fiammiferi antivento e contenute in cassette di legno all'interno di scatole di cartone per libri, sono state ritrovate inesplose.

Il problema dell'innesco mancato ricorre frequentemente negli attentati del gruppo. Paradossalmente, l'organizzazione dispone di grandi quantità di esplosivo, ma non di adeguate capacità tecniche.
La soluzione si è presentata quando Freda si è rivolto a un ingenuo elettricista, facendogli credere di essere interessato al lancio di razzi, presumibilmente per fuochi d'artificio. L'elettricista ha spiegato all'avvocato come fabbricare un meccanismo di innesco, utilizzando i fiammiferi antivento e le lancette di un orologio.
Erano i primi giorni dell'agosto 1969: il metodo venne immediatamente collaudato con discreto successo nelle bombe sui treni.
In settembre, sempre servendosi della consulenza dell'elettricista, Freda è passato dall'uso di una cassetta di legno come contenitore per la bomba a quello di una cassetta metallica, in grado di rendere l'ordigno più micidiale.
Due falliti attentati antisloveni preparati a ottobre vedevano appunto l'impiego di scatole metalliche per munizioni. L'elettricista suggeriva l'impiego di cassette portavalori e la sua proposta è stata accolta: le bombe del 12 dicembre saranno contenute in cassette prodotte dalla ditta milanese Juwel.
L'elettricista, benché totalmente estraneo al neofascismo, è ormai l'inconsapevole consulente tecnico del gruppo. Su suo consiglio, Freda ordina cinquanta timer alla ditta Elettrocontrolli di Bologna: sono timer della ditta Junghans-Diehl, cinque dei quali verranno impiegati per le bombe del 12 dicembre.

Interrogato sulla destinazione dei cinquanta timer, Freda racconta di essere in contatto con un'organizzazione araba, attraverso un fantomatico colonnello Hamid dell'esercito algerino. A lui, nel settembre 1969, Freda avrebbe consegnato i cinquanta timer, destinati a una serie di attentati filopalestinesi contro gli israeliani.
Solo nel settembre 1972, grazie a un articolo su "L'Espresso", emerge il fatto che già il 15 dicembre 1969 titolari e commessi della valigeria "Al Duomo" di Padova hanno segnalato l'acquisto di quattro borse identiche a quella impiegata per la bomba trovata alla Banca Commerciale di Milano il 12 dicembre. Si tratta di borse di fabbricazione tedesca, vendute solo in un paio di negozi in tutta Italia: una pista semplice da seguire eppure deliberatamente ignorata per tre anni.
L'acquirente viene identificato in Franco Freda.

Intanto, il 28 agosto 1972, viene emesso mandato di cattura per Freda e Ventura, stavolta con l'accusa di strage. Con le prime ammissioni di Ventura durante l'inchiesta di D'Ambrosio del marzo 1973, lo scenario si allarga.
Quello che nei primi giorni veniva fatto passare come l'opera di un gruppuscolo anarchico si configura invece come il frutto di oscuri legami tra membri di Ordine Nuovo, dell'esercito e dei servizi segreti (il SID). Gli uomini chiave di queste trame si chiamano colonnello Amos Spiazzi, Carlo Maria Maggi, Carlo Digilio e Marcello Soffiati.
Emerge inoltre una nuova figura: quella del giornalista Guido Giannettini, uomo del SID e referente di Ordine Nuovo a Padova. Nell'aprile del 1973, su consiglio del capitano Antonio Labruna del SID, Giannettini lascia l'Italia per Parigi e poi per Madrid, ricomparendo nell'agosto 1974 a Buenos Aires, dove si consegna al consolato italiano.
Non è l'unico e scegliere la fuga all'estero: nel 1973 il latitante Marco Pozzan è fuggito a Madrid con l'aiuto del SID. Lo stesso anno un'offerta analoga viene fatta anche a Giovanni Ventura: il SID gli procura la chiave della cella per farlo evadere, ma Ventura non accetta, temendo una trappola.

In tutto questo tempo, i processi per la strage compiono un'odissea attraverso tutta l'Italia. Quello contro gli anarchici del 22 Marzo, trasferito da Roma a Milano nel marzo 1972, viene nuovamente spostato dalla corte di Cassazione a Catanzaro nell'ottobre dello stesso anno, temendo che a Milano manchi la necessaria serenità. Nel 1974 tutte le inchieste e i processi su piazza Fontana sono unificati a Catanzaro.
Ormai l'indagine è diventata una ragnatela di fatti e personaggi. Sono inquisiti il generale Gian Adelio Maletti, il generale Vito Miceli e il capitano Antonio Labruna, appartenenti al SID. L'ex presidente del consiglio Mariano Rumor viene accusato di reticenza perché risponde alle domande con una lunga serie di "non ricordo". E intanto, il 30 settembre 1978, Freda scompare dal soggiorno obbligato di Catanzaro, imitato da Ventura il 16 gennaio 1979. Giusto in tempo per sottrarsi alla sentenza di primo grado, che li dichiara colpevoli.
Freda e Ventura vengono ripresi nell'agosto del 1979, rispettivamente in Costa Rica e in Argentina. Sono passati quasi dieci anni dalla strage.

La storia potrebbe concludersi a questo punto, se il 20 marzo del 1981 la corte d'appello di Catanzaro, avanzando dubbi su tutte le prove ritenute valide in primo grado, non ribaltasse la sentenza, decidendo per l'assoluzione.
La sentenza viene annullata, ma la corte d'appello di Bari, cui la Cassazione ha affidato il processo, giunge alla stessa conclusione: assoluzione per insufficienza di prove.
Freda e Ventura non potranno mai essere nuovamente processati per la strage di piazza Fontana.

Bisogna attendere gli anni Novanta perché la verità torni in superficie, grazie a un'inchiesta condotta dal giudice milanese Guido Salvini su La Fenice, un gruppo di Ordine Nuovo guidato da Giancarlo Rognoni.
La Fenice, con base a Milano, è responsabile dell'attentato dell'aprile 1973 sul treno Torino-Roma, in cui il neofascista Nico Azzi è rimasto ferito dal suo stesso ordigno, ed è sospettata per quello di piazza della Loggia a Brescia nel maggio 1974. Il gruppo di Rognoni si collega a un altro troncone di Ordine Nuovo con base a Mestre, che si configura come l'anello mancante di tutte le precedenti ricostruzioni della strage di piazza Fontana.
Nel 1994 la pista conduce a Martino Siciliano, che al tempo della sua militanza in Ordine Nuovo operava con il capo del gruppo di Mestre, Delfo Zorzi. Malgrado le pressioni dell'ex camerata, in autunno Siciliano decide di collaborare con la giustizia, riferendo alcune ammissioni fatte da Zorzi il 31 dicembre 1969 sulla propria responsabilità nella strage di piazza Fontana.
Dunque sarebbe Zorzi l'uomo che ha portato la bomba a piazza Fontana?
Un altro pentito, Carlo Digilio, ricorda un dettaglio importante: Zorzi gli ha rivelato di essersi occupato personalmente della collocazione della bomba alla Banca Nazionale dell'Agricoltura, operazione resa possibile dall'aiuto del "figlio di un direttore di banca".
Questa definizione potrebbe con qualche approssimazione riferirsi a Mario Merlino, di cui un rapporto del SID di poco posteriore al 12 dicembre 1969 afferma: "conoscerebbe bene il sottopassaggio della Banca Nazionale del Lavoro di via San Basilio e suo padre sarebbe amico del direttore della Banca Nazionale dell'Agricoltura di Milano."
Nel novembre 1994 riappare un'altra figura dal passato: si tratta dell'elettricista che venticinque anni prima ha insegnato a Freda le tecniche di innesco e lo ha consigliato sull'acquisto dei timer. Ormai sessantenne, libera la propria coscienza davanti ai carabinieri del ROS (Raggruppamento Operativo Speciale), svelando quello che per paura di ritorsioni ha sempre tenuto per sé e distruggendo con poche parole la linea di difesa che ha portato all'assoluzione di Freda e Ventura.
Nello studio di Freda, nel novembre del 1969, l'elettricista ha tenuto all'avvocato e al libraio una vera e propria lezione sull'uso dei timer. Dunque i timer erano ancora in possesso di Freda in novembre, cioè due mesi dopo la presunta consegna al fantomatico Hamid e poche settimane prima della strage.
Solo dopo il 12 dicembre l'elettricista capiva che Freda e Ventura non stavano preparando fuochi artificiali e, quando in primavera Freda gli proponeva una collaborazione continuativa, promettendogli denaro e protezione dall'alto, l'uomo declinava l'offerta.

Quindi la "pista nera" era giusta e conduceva al gruppo padovano di Freda e Ventura, coadiuvato dal quello mestrino di Zorzi.
Ma un'altra serie di retroscena viene svelata tra il 1994 e il 1996 dai pentiti Digilio e Siciliano.
All'epoca della strage, per Ordine Nuovo, Digilio è "Zio Otto", prezioso esperto dell'uso di armi da fuoco: in questa veste visita un casolare a Paese, in provincia di Treviso, dove scopre una vasta riserva di armi ed esplosivi a disposizione dei neofascisti e dove incontra Delfo Zorzi.
In tale occasione l'uomo che accompagna Digilio, il professor Lino Franco, dà a Giovanni Ventura alcuni preziosi consigli, tra cui l'impiego di fiammiferi antivento per l'innesco: è questo il metodo in seguito adottato con successo da Freda e Ventura.
Digilio nega il proprio coinvolgimento nell'eversione e si ritaglia un ruolo di semplice osservatore nella preparazione degli ordigni nel casolare di Paese. C'è però anche chi, come Siciliano, ricorda Digilio come l'artefice degli ordigni antisloveni inesplosi dell'ottobre 1969 e lo sospetta come confezionatore delle bombe di piazza Fontana e di piazza della Loggia.

Ma dal 1967 Digilio è anche "Erodoto", fiduciario nel Veneto per conto della CIA, ovvero la Central Intelligence Agency, i servizi segreti USA: è un ruolo che ha ereditato dal padre Michelangelo, insieme al nome in codice.
Per conto della CIA Carlo Digilio osserva i movimenti dei neofascisti e li riferisce al capitano statunitense David Carrett, di stanza fino al 1974 presso la base FTASE (Forze Tattiche Alleate in Sud Europa) di Verona e quindi agente di un'organizzazione CIA-NATO.
Digilio non è l'unico agente americano inserito nella struttura neofascista: per la CIA lavorano anche Marcello Soffiati e Lino Franco, in stretto contatto con una delle menti del gruppo di Mestre, Carlo Maria Maggi.
E sempre per lo spionaggio americano lavora anche Sergio Minetto, ex combattente della Repubblica Sociale Italiana, legato a un'organizzazione filonazista tedesca denominata "Gli elmetti d'acciaio" (Der Stahlelmen). Questa organizzazione gestisce anche alcune esercitazioni dei Nuclei per la Difesa dello Stato (gli stessi della lettera spedita da Freda e Ventura). A tali esercitazioni partecipa in un ruolo direttivo il colonnello Amos Spiazzi, che viene arrestato nel gennaio 1974 come leader dell'organizzazione segreta Rosa dei Venti.
Da questo labirinto di nomi, nel quale è difficile determinare dove finisce la fedeltà all'Alleanza Atlantica e dove comincia la nostalgia per Adolf Hitler, si evince un unico dato preciso.
La Central Intelligence Agency statunitense, nell'ambito delle attività della NATO (vale a dire l'alleanza tra i paesi del Nord Atlantico, Italia inclusa) ha osservato e appoggiato le attività dei neofascisti dell'area veneta.
L'obiettivo di partenza era quello di organizzare un'efficace resistenza in caso di invasione sovietica, il che spiega la nascita di Stay Behind, più nota agli italiani come "Gladio".
Ma nel 1963 il generale USA Westmoreland stabiliva che il comunismo dovesse essere fermato a ogni costo: questa direttiva venne interpretata dando origine ai Nuclei per la Difesa dello Stato e offrendo aiuto a elementi dell'estrema destra eventualmente in grado di prendere il potere. I fascisti erano sicuramente anticomunisti.
Gli attentati compiuti dagli uomini di Ordine Nuovo vennero attribuiti alla sinistra, o quantomeno agli anarchici, creando un clima favorevole a un colpo di stato militare col pretesto di ristabilire l'ordine. Di fronte alla minaccia di (apparente) terrorismo rosso-anarchico, l'opinione pubblica avrebbe accettato più facilmente l'imposizione di un governo sul modello fascista-militarista: i piromani si sarebbero travestiti da pompieri e si sarebbero presentati come "salvatori della Patria" da un pericolo che in realtà avevano creato loro stessi.
Dal canto loro, gli USA sarebbero stati tranquilli: l'Italia - il paese con il più grande Partito Comunista al di fuori del blocco sovietico ma, in ambito NATO, fondamentale baluardo tra est e ovest - non avrebbe corso il rischio di diventare "rossa". Esattamente come non poteva diventarlo la Spagna, che dal 1939 al 1975 era sotto la dittatura di destra di Francisco Franco.
Il prezzo da pagare per gli italiani sarebbe  stato, naturalmente, tornare sotto un regime fascista-militare. Destino toccato invece alla Grecia con il colpo di stato dei "colonnelli" che impose la dittatura tra il 1967 e il 1974, anche questa sotto l'egida della CIA. Analoga sorte per il Cile, con il golpe del 1973 che portò al potere il generale Pinochet, destinato a restare in carica fino al 1990. L'Italia ha rischiato di fare la stessa fine: un colpo di stato "preventivo" dimodoché i nordamericani potessero essere sicuri che il territorio non passasse al "nemico".
Le vittime di piazza Fontana e delle altre stragi sono gli innocenti caduti in una delle fasi più oscure della Guerra Fredda, uccisi da un perverso meccanismo che molti conoscevano e che pochi hanno tentato di fermare.

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