Dante Alighieri nella raffigurazione di Domenico di Michelino |
Conversazione con Sandra Clerc di Fabio Viganò
Abbiamo rivolto alcune domande interessanti alla dottoressa Clerc dell’Università di Friburgo, già intervistata in merito alla figura di Francesco Ciceri, riguardo le origini della lingua italiana. Soprattutto abbiamo cercato di indagare sulla nascita di questa lingua, bella e unica, e su quali siano stati i passaggi evolutivi che hanno originato l’italiano attualmente scritto e parlato. Siamo partiti da lontano…
"Dottoressa Clerc, come avvenne il passaggio dalla lingua latina alla lingua italiana?"
"Come è facile immaginare, l’evoluzione delle lingue ha tempi lunghi. Le persone non sono andate a letto una sera parlando latino per risvegliarsi il giorno dopo e accorgersi di parlare un idioma diverso! Le trasformazioni linguistiche cominciano a manifestarsi nella lingua parlata. Per esempio, già all’epoca di Cicerone, nel I secolo a.C., il latino parlato e quello scritto avevano preso, a poco a poco, a differenziarsi. Con il tempo, la lingua parlata e quella utilizzata per la scrittura – in particolare nella produzione letteraria – possono distanziarsi al punto da diventare due lingue diverse. Così nasce la necessità di scrivere nella nuova lingua. Questo processo è avvenuto anche per l’italiano. Alcuni studiosi giungono ad affermare che l’italiano non sia altro che il latino parlato oggi. Pur non essendo del tutto d’accordo con questa definizione, che mi pare un po’ azzardata, è innegabile che l’italiano, come tutte le altre lingue che chiamiamo 'romanze' o 'neolatine', si sia evoluto a partire dalla lingua latina e in primo luogo dalla lingua latina parlata (detta anche latino volgare, il latino del volgo, cioè del popolo), e abbia subito nel corso dei secoli varie influenze esterne."
"Si è soliti pensare che l’indovinello veronese rappresenti il punto di svolta, il primo tentativo di 'abbozzare' la lingua italiana. Lei cosa ne pensa?"
"Il cosiddetto Indovinello veronese è un breve testo che risale probabilmente all’VIII o all’inizio del IX secolo d.C., scritto a margine di un documento più antico e scoperto nel secondo decennio del XX secolo. Questa la sua trascrizione:
Se pareba boves, alba pratalia araba
et albo versorio teneba, et negro semen seminaba.
Questa potrebbe invece essere una proposta di traduzione in italiano moderno:
Teneva davanti a sé i buoi, arava prati bianchi
e teneva un bianco aratro, e seminava un seme nero.
Il termine 'indovinello' fa riferimento alla lettura di questi due versi come metafora della scrittura: le mani scorrono sulla pagina bianca, tengono una penna d’oca che sparge inchiostro nero. L’aggettivo 'veronese' si ricollega al luogo del ritrovamento del codice (la Biblioteca capitolare di Verona) e alla probabile origine del copista, cioè di colui che ha redatto l’indovinello. Ancora oggi i critici e gli storici della lingua dibattono sulla natura di questo testo, che presenta sia caratteri riconducibili al latino tardo, sia elementi che sono invece già prettamente 'volgari', termine con il quale si indica generalmente la lingua parlata e scritta in Italia prima della codifica del Bembo, nel Cinquecento. La questione rimane aperta. I primi testi sicuramente scritti in un volgare italiano sono invece i Platici cassinensi, testimonianze giurate che risalgono agli anni 960-963, anche se alcune iscrizioni ritrovate nelle catacombe (di Commodilla, di San Clemente, etc.) sono più antiche e presentano già caratteristiche che non sono più quelle del latino.
Se pareba boves, alba pratalia araba
et albo versorio teneba, et negro semen seminaba.
Questa potrebbe invece essere una proposta di traduzione in italiano moderno:
Teneva davanti a sé i buoi, arava prati bianchi
e teneva un bianco aratro, e seminava un seme nero.
Il termine 'indovinello' fa riferimento alla lettura di questi due versi come metafora della scrittura: le mani scorrono sulla pagina bianca, tengono una penna d’oca che sparge inchiostro nero. L’aggettivo 'veronese' si ricollega al luogo del ritrovamento del codice (la Biblioteca capitolare di Verona) e alla probabile origine del copista, cioè di colui che ha redatto l’indovinello. Ancora oggi i critici e gli storici della lingua dibattono sulla natura di questo testo, che presenta sia caratteri riconducibili al latino tardo, sia elementi che sono invece già prettamente 'volgari', termine con il quale si indica generalmente la lingua parlata e scritta in Italia prima della codifica del Bembo, nel Cinquecento. La questione rimane aperta. I primi testi sicuramente scritti in un volgare italiano sono invece i Platici cassinensi, testimonianze giurate che risalgono agli anni 960-963, anche se alcune iscrizioni ritrovate nelle catacombe (di Commodilla, di San Clemente, etc.) sono più antiche e presentano già caratteristiche che non sono più quelle del latino.
"Quali sono, a Suo avviso, gli autori principali di tale cambiamento linguistico tuttora in atto?"
"La lingua italiana, come tutte le lingue, è in costante evoluzione. Gli effetti, come dicevamo prima, sono visibili in primo luogo nell’espressione orale, e passano soltanto in seguito nello scritto. Banalmente, la lingua che parliamo oggi non è uguale a quella che parlavano i nostri nonni, mentre la scrittura di buon livello di allora non si discosta enormemente da quella che possiamo leggere in un buon libro contemporaneo. La storia dell’italiano scritto è lunga diversi secoli, come abbiamo visto; ricordare gli autori principali sarebbe inevitabilmente fare torto a qualcuno. Ma se proprio vogliamo procedere per sommi capi, potremmo partire dalla Scuola siciliana, la prima ad aver elevato il volgare a lingua letteraria; e poi, naturalmente, Dante, Petrarca e Boccaccio, le 'Tre Corone'; Pietro Bembo, autore della codificazione linguistica che esce vincitrice dai dibattiti sulla lingua nel Cinquecento; poi, avvicinandoci a noi, Manzoni, Leopardi e Montale. Ma questa è, lo ripeto, una rassegna minima."
"Lei considera tuttora il latino come una lingua che possa insegnare qualcosa all’umanità, o è morta e sepolta?"
"A mio modo di vedere, non possiamo guardare al futuro senza tenere almeno un occhio rivolto al passato: la cultura e la civiltà antiche sono alla base della cultura e della civiltà moderne. Se vogliamo un motivo utilitaristico per dare importanza al latino, ricordiamo che, ancora oggi, i giuristi studiano i codici del diritto romano; i termini medici, botanici e di molti altri ambiti scientifici sono in latino. Ma, a ben guardare, gli studi umanistici, nati proprio in Italia nel XIV secolo, sono rivolti da un lato alla riscoperta dei classici latini e greci, dall’altro alla valorizzazione della vita civile; e riconoscono la centralità dell’uomo e la sua dignità. Mi pare che questo sia un insegnamento che l’umanità farebbe bene ad aver caro."
"Carlo Porta e Trilussa segnarono un punto di svolta nel cambiamento linguistico. Può ricordarci come?"
"Immagino si riferisca all’elevazione del dialetto a lingua della letteratura. Naturalmente Porta e Trilussa – il primo per il milanese, il secondo per il romanesco – sono stati importanti in questo senso, perché la loro scelta è ideologicamente connotata, di rifiuto di una lingua italiana imposta. Tuttavia, è bene ricordare che la letteratura dialettale ha una lunghissima tradizione, che da Il contrasto di Cielo d’Alcamo passa alla lingua pavana utilizzata da Ruzzante nelle sue commedie, al napoletano de Lu cunto de li cunti, fino a giungere alle poesie dialettali di oggi."
"L’attualità di Dante Alighieri nella politica di oggigiorno. Vi sono analogie, secondo Lei?"
"Tutti i classici, tutti i maggiori autori, hanno in comune, a mio modo di vedere, una caratteristica fondamentale: parlano ai lettori di tutti i tempi, indipendentemente dall’epoca nella quale scrissero. Dante è sicuramente un classico, uno dei sommi autori non soltanto della letteratura italiana, ma mondiale. Quindi, è certamente possibile collegare al presente le sue parole, che hanno valenza universale."
"Dottoressa Clerc, anche nelle opere teatrali vi è un cambiamento. Nel Cinquecento in particolare... Lei è un’esperta del settore. Può dirci qualcosa a riguardo?"
"Dal punto di vista della lingua, e per quanto riguarda il teatro del Cinquecento, bisogna distinguere tra commedie e tragedie. Le tragedie, genere alto per definizione, utilizzano una lingua italiana di stampo prettamente petrarchesco, cioè della migliore e più prestigiosa tradizione lirica italiana. Le commedie, invece, presentano varietà linguistiche molto più ampie, perché la lingua viene utilizzata anche come elemento comico: il “dottore” che parla un italiano infarcito di formule latine, il contadino che si esprime invece in dialetto, il soldato sbruffone che proviene dalla Toscana sono soltanto alcuni esempi. Le commedie di Ludovico Ariosto, che è stato un drammaturgo molto apprezzato nella sua epoca e organizzava personalmente le rappresentazioni, anche prendendovi parte, non sono scritte nella stessa lingua de La mandragola, il capolavoro comico di Machiavelli. Tanto che il ferrarese riscriverà da cima a fondo i suoi testi teatrali, inizialmente in prosa, per renderli in versi (e in versi sdruccioli), dopo aver ricevuto le critiche di un anonimo autore fiorentino, nel quale in molti hanno riconosciuto proprio l’autore de Il principe. Poi ci sarebbe il discorso riguardante le novità strutturali e sceniche introdotte nel teatro del Rinascimento, ma questo ci porterebbe un po’ distante."
"Grazie, a nome di tutto il pubblico de Il rifugio dei peccatori. Lei è sempre molto disponibile!"
"Grazie a lei!"
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