C'erano una volta gli autori seriali di narrativa popolare che scrivevano, romanzi a puntate, cicli, saghe, epopee che appassionavano i lettori: Alexandre Dumas, Jules Verne, Emilio Salgari, Robert E. Howard, Dashiell Hammett... citando giusto solo un po`di nomi a caso. Padri e figli della narrativa chiamata, a seconda dei tempi, "feuilleton" o "pulp", poi trasmigrata nei fumetti e nei tascabili anni '60-'70, che da noi apparvero soprattutto nelle collane da edicola di Mondadori: Il Giallo Mondadori, Urania e Segretissimo.
Quando dico "pulp", come sempre intendo la narrativa popolare sviluppatasi quasi un secolo fa sulle riviste omonime, non l'accezione italiana, diversissima, di metà anni '90. Gli/le artefici del pulp hanno una spinta innata a scrivere parecchio e spesso a prolungare la vita di certi loro personaggi ben oltre la singola storia. Chi scrive pulp spesso non si limita solo a un racconto, ma si immagina un intero universo che può intrattenere il pubblico a lungo.
I libri di intrattenimento scritti da gente capace sono del resto la base o l'ispirazione di uno dei passatempi prediletti di oggi: le serie tv, che non fanno altro che riprendere vecchie regole che risalgono al feuilleton e che sono ancora efficaci.
Diciamo che "la serie" propriamente detta, in tv o altrove, è costituita da singoli episodi autoconclusivi. Vale la tradizione della maggior parte dei telefilm dagli anni '50 ai '70: alla fine di ogni episodio la situazione di base si mantiene o viene ripristinata, e il pubblico può perdersi una puntata senza trovarsi cambiamenti radicali a quella successiva.
Giusto ogni tanto si può assistere alla ricomparsa di un comprimario o di un cattivo, o, sullo schermo, alla sparizione di personaggi tra una stagione e l'altra, per scadenza dei contratti degli interpreti o cambiamenti di format. Ma per il pubblico non c'è da prestare troppa attenzione alla "continuity", ossia a legami di causa-effetto tra gli episodi.
Si definisce "serial", invece, una storia continuativa che va seguita di puntata in puntata (perdersene una può creare problemi), in cui alle sottotrame occasionali che possono risolversi in un singolo episodio se ne aggiungono altre che riguardano a livello personale protagonisti, antagonisti e comprimari. Ogni volta possono cambiare gli equilibri. E il finale può lasciare qualcosa - o tutto - in sospeso per l'episodio o la "stagione" seguente. Come molti di voi sapranno, oggi non solo le serie (più correttamente i "serial") tv ma anche parecchi film lasciano finali aperti per creare aspettative.
Ai vecchi tempi, al cinema, chi non era entrato a metà film e doveva ancora vedere come fosse cominciato, usciva dopo la scritta "Fine". Negli anni '80, ammaestrato da Canale 5 che troncava con la pubblicità i titoli di coda dei film trasmessi (anche sulle note di canzoni da Premio Oscar), prese l'abitudine di accalcarsi all'uscita come se la sala andasse a fuoco. Poi cominciarono le sequenze a sorpresa dopo i titoli di coda e, sparsasi la voce (ci volle qualche decennio) il pubblico imparò a trattenersi in sala con più calma.
E così al cinema tornò il "cliffhanger".
Il nome deriva da una situazione tipica del finale degli episodi dei serial cinematografici della vecchia Hollywood, abbinati alla proiezione del film. Coincidevano con l'era letteraria del pulp e a volte derivavano dai fumetti (Dick Tracy, Flash Gordon, Captain America... i "cinecomics" esistono da molto tempo). Nell'ultima scena i protagonisti restavano sospesi sull'orlo di un precipizio o in altre situazioni di pericolo e, se si voleva sapere come se la cavassero, occorreva tornare al cinema la settimana successiva, pagando di nuovo il biglietto. Fidelizzazione, insomma. Oggi l'espediente viene ripreso in film seriali in cui si vuol dare impulso all'episodio successivo.
La serialità attirava il pubblico ai tempi di Omero e lo attira ancora oggi. Se qualcosa piace, si ha voglia di riviverne l'atmosfera, rivedere luoghi familiari e vecchie conoscenze. Per questo i sequel funzionano e le stagioni dei serial sono seguite. Certo, i capitali in gioco al cinema o in televisione sono tali che ogni tanto qualcuno alla produzione fa conti, stime e proiezioni, per poi decidere di non girare il seguito o la nuova stagione (e tanti saluti all'ultimo cliffhanger, che non sarà mai risolto). Ma per scrivere storie seriali, per lo schermo o altri mezzi meno costosi e più accessibili, bisogna conoscerne e rispettarne le regole. Ne parliamo la prossima volta.
Continua...
(immagine: A. C. Cappi)
Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.
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