miércoles, 11 de enero de 2023

Vita da pulp - Dal racconto alla serie


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Dopo avere introdotto la questione del "racconto" nel senso di "storia breve", qualcuno si chiederà: "Ma quanto dev'essere breve?" La risposta, banale, è: "Dipende".
Può capitarvi di proporre un racconto a un concorso (e colgo l'occasione per ricordarvi il bando della nuova edizione del Premio Torre Crawford) o per una pubblicazione in cui si impongono precisi limiti di lunghezza: non si deve superare un numero prestabilito di battute, spazi inclusi. Tenete presente che i programmi di videoscrittura calcolano come "battuta" (o "carattere") ogni pressione dei tasti e non le righe bianche (cioè le righe in cui non c'è scritto niente, ma sono essenziali per sottolineare un cambio di scena, di tempo o di punto di vista), il cui ingombro come numero di battute va stimato a occhio, perché anche quello conta. In ogni caso, è chiaro: non dovete superare i limiti indicati, pena l'esclusione.
Ma, a parte questo, il racconto stesso dovrebbe dirvi quanto dev'essere lungo. Ascoltatelo e assecondatene i tempi e i ritmi: non cercate né di abbreviarlo troppo - a meno di esservi costretti - perché potrebbe risultare troppo sbrigativo; né di dilatarlo in eccesso, pensando che "più lungo" sia anche "più letterario", quando potrebbe essere solo prolisso. Ci sono racconti cui può bastare una pagina: qualcuno ricorda le postcard stories, cioè lunghe lo spazio di una cartolina, proposte qualche decennio fa da Urania con la definizione "microstorie"? Ci sono racconti che invece richiedono uno sviluppo più articolato e altri che si strutturano come un romanzo in miniatura, fino ad arrivare al vero e proprio "romanzo breve". Alcuni possono assumere la forma di un monologo o di un dialogo, altri invece richiedono una narrazione in terza persona, da diversi punti di vista.

Nella narrativa mainstream il racconto può essere una storia breve ma completa, un tranche de vie, o addirittura un semplice frammento... da cui si può intuire l'antefatto e immaginare gli sviluppi successivi: di solito a questo punto cito l'esemplare Colline come elefanti bianchi di Hemingway, il cui vero argomento non è neppure dichiarato esplicitamente, ma nell'apparente assenza di eventi nasconde in realtà un colpo di scena. Per brevità bisogna lasciare molto all'intuito di chi legge, ma senza per questo non fornire tutti gli elementi necessari alla comprensione.
Il colpo di scena conclusivo - diciamo pure il "finale a sorpresa" - è frequente nella narrativa di genere, in cui spesso la trama conduce a un twist, ossia il ribaltamento inaspettato della situazione: non a caso, per due sue antologie personali, Jeffery Deaver ha usato i titoli Twisted e More Twisted. S'intende che chi frequenta abitualmente il genere si aspetta che ci sia una sorpresa e cerca di prevederla, quindi dovete riuscire a farla arrivare prima che venga scoperta e smetta di essere una sorpresa. Pertanto occorre preparare il twist in modo che sia coerente con la trama, ma senza che diventi prevedibile, il proverbiale "finale telefonato". Il racconto deve quindi porre le basi per lo scioglimento conclusivo, ma non protrarsi troppo a lungo da dare a chi legge il tempo di indovinare di cosa si tratti.
Il racconto fulmineo nasce da un'idea, che può anche non essere nuovissima, ma conta il modo in cui viene sviluppata ed esposta. Quanto più la narazione è lunga, invece, tanto più impone le stesse regole e le stesse problematiche di un romanzo. Qualcuno ogni tanto cerca di definire esattamente a quale taglio vada applicata la definizione di novelette o "romanzo breve": l'ho vista usare per storie da una trentina di pagine come per storie da cento e passa. In realtà, a mio avviso, è la costruzione narrativa a fare la differenza: non a caso, specie per novelettes che richiedevano anche una certa dose di ricerca, mi sono trovato a impiegare quasi lo stesso tempo che mi occorreva per un romanzo molto più lungo.

Ci sono due casi particolari con cui ho spesso a che fare come scrittore: uno è quello del "personaggio fisso", nel senso di un/una protagonista che appare in diversi racconti autoconclusivi (o anche romanzi) della propria produzione, arrivando a costituire "una serie". Un personaggio fisso con cui chi scrive ha già una certa familiarità permette di avere a disposizione una figura già collaudata che può essere semplice testimone della vicenda oppure intervenirvi in modo risolutivo. Fenomeno molto comune nella narrativa di genere, non è estraneo neppure a quella mainstream: cito di nuovo Hemingway, con il suo alter ego Nick Adams, apparso in molti racconti, e con Harry Morgan nelle tre storie di Avere e non avere.
S'intende che, a meno che non godiate già di una fama tale da poter presumere che i vostri personaggi siano universalmente noti (tutti conoscono Sherlock Holmes o James Bond, ma dubito che milioni di persone in tutto il mondo conoscano la mia Mercedes Contreras) non potrete dare per scontato che il pubblico sappia già chi siano. Se i racconti appaiono di volta in volta in contesti diversi (uno su una rivista, uno in un'antologia, uno su un'altra rivista due anni dopo...) a ogni apparizione sarà necessario presentare almeno in poche righe la figura centrale a lettrici e lettori che, molto probabilmente, non l'hanno mai incontrata prima d'ora.
Il caso è simile quando una storia - pur non avendo gli stessi protagonisti apparsi altrove - appartiene allo stesso universo di cui fanno parte altre vostre storie. Pensate ai racconti di Isaac Asimov sulle Tre Leggi della Robotica: diverse figure ricorrenti, un unico universo, ma finché le storie non appaiono in una raccolta l'autore deve spiegare ogni volta al pubblico le regole del gioco. Anche in questo caso, dunque, sarà opportuno fornire a chi legge le informazioni necessarie per entrare in quel mondo e, chissà, farle/gli venire voglia di approfondire la conoscenza e andarsi a cercare le altre storie a esso collegate. Se però, oltre a una trama autoconclusiva, ce n'è in parallelo un'altra che si sviluppa da una storia all'altra, cominciamo a parlare non di "serie" ma di "serial"... Questo però sarà oggetto del prossimo articolo.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi in una foto di Stefano Di Marino, 2015)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

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