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viernes, 30 de agosto de 2024

Vita da pulp - Workstation

Foto A. C. Cappi

Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Ed eccoci al post n.110 di questa rubrica, che con un po' di ritardo festeggia il suo quarto compleanno; ma, pur avendo passato l'estate alla mia postazione di lavoro, non ho avuto molto tempo libero. E oggi parlo proprio di questo: la postazione di lavoro è fondamentale, specie per chi ci trascorre quasi tutto il giorno; è l'habitat in cui si passa la maggior parte della propria esistenza. Nella mia vecchia casa a Milano, nei primi anni Novanta, cominciò con un cumulo di scatoloni - poi sostituito da una vera scrivania - su cui avevo allestito un computer. Mi ci piazzavo al rientro dalla Libreria del Giallo; mangiavo qualcosa intanto che scrivevo o traducevo, e lavoravo fino a quando venivo sopraffatto dal sonno; o meglio, fino a quando, in un momento di lucidità, mettevo a fuoco le frasi assurde che avevo scritto mentre dormivo, sotto l'effetto di sogni febbricitanti.
Quando divenni scrittore-traduttore-editor a tempo pieno, barcollavo dal letto al pc la mattina presto e viceversa a tarda notte. Davanti a me sulla parete vedevo una fotografia di Ernest Hemingway, un ritratto di Jean Gabin (dalla copertina di Carlo Jacono per Colpo grosso al casinò) e un poster di Che Guevara; sotto lo sguardo del quale una volta tradussi una raccolta di suoi testi, che alla fine però non fu pubblicata perché gli aventi diritto a Cuba avevano aumentato all'improvviso le richieste in denaro: la fine del comunismo. Cercavo di separare i pasti dal lavoro, ma andò a finire che in certi periodi trasferivo il portatile sul tavolo della cucina per ridurre al minimo le pause improduttive. Era l'epoca, durata molti anni, in cui lavoravo centoquaranta ore a settimana; se quaranta vi sembrano tante, allora questa vita non fa per voi.
Da quando nel 2018 dovetti cambiare casa - perché neanche gli avidi eredi del Che avrebbero potuto sostenere le sempre più proibitive spese condominiali - la mia nuova postazione di lavoro milanese è l'angolo di un sotterraneo, tappezzato di poster di James Bond. Stavolta non vado direttamente dal letto al computer: per raggiungere il mio antro devo percorrere un breve tratto di strada a piedi; un lavoro del febbraio 2021, la traduzione de Gli ultimi giorni di John Lennon, rimane associato nella memoria alla scadenza del coprifuoco della pandemia - le 5.00 a.m., quando si poteva uscire di casa - e alle scivolosissime lastre di ghiaccio che si formavano nella notte.

Ovunque si trovi, la caratteristica persistente di ogni mia workstation, oltre al posacenere traboccante di mozziconi di sigari toscani, è il caos dei libri di consultazione che invadono ogni superficie. Raggiunsi il record nel 2009, quando i testi che tenevo a portata di mano mentre lavoravo al saggio Le grandi spie costituirono sul pavimento alle mie spalle una barriera alta più di un metro e larga un paio, che soprannominai "il Muro di Berlino"; il mio Muro fu abbattuto all'inizio del 2010, poco prima dell'uscita del volume. Ma in altri casi, appena finisco un testo o una serie di articoli, devo cominciare subito qualcosa di nuovo e non ho il tempo di riporre i libri consultati, che presto rimangono sepolti da uno strato ulteriore.
In vari momenti della mia vita, però, si sono create situazioni alternative. Forse la più pittoresca risale a una ventina d'anni fa, quando ero ospite di una fidanzata in un'altra città. Poiché lei non gradiva che fumassi in casa sua e io non riesco a lavorare senza il conforto di un sigaro, la mia postazione era un tavolino su un balcone con vista su un castello del XIV secolo; ci lavoravo da prima dell'alba fino a dopo il tramonto, d'inverno sotto la neve in abbigliamento da alta montagna, d'estate in costume da bagno (di sudore).
Qualche ricordo più recente: durante il lockdown del 2020 mi rintanai a casa della mia attuale fidanzata e, sempre per questioni di sigari, quando il clima non consentiva di lavorare sul balconcino mi veniva concesso di occupare il bagno di servizio, con il pc sul lavabo e la porta sigillata. Da qualche tempo, durante le trasferte in campagna presso la mia "famiglia adottiva", all'unico fumatore presente è concesso di ritirarsi con il pc nella Stanza del Maiale, così chiamata perché per anni vi sono stati preparati salami e cotechini fatti in casa (ho fatto in tempo ad assaggiarne qualcuno); la colonna sonora è garantita dalla vicinanza del pollaio.

Dal 2010 però si è introdotta una variante molto significativa nella mia vita. A chi mi segue su Facebook e Instagram sarà capitato di vedere le fotografie che scatto dalla mia postazione di lavoro spagnola. Un amico (purtroppo scomparso), scrittore e saggista di fantascienza, con la sua fervida fantasia immaginò che fossi il proprietario di una villa a Maiorca da far invidia a Michael Douglas.
L'isola è quella, ma in realtà stavo solo ereditando l'appartamento in cui mia madre aveva trascorso l'ultimo decennio della sua vita, in un edificio degli anni Sessanta a Magaluf. I miei genitori non avevano mai avuto una casa di loro proprietà ma, grazie a un'eredità ricevuta da mia madre, riuscirono a comprarsi uno studio apartment in svendita nel luogo in cui andavano in vacanza dal 1971, con l'intenzione di trasferircisi negli anni della pensione; mio padre non avrebbe fatto in tempo ad arrivarci vivo.
L'acquisto risale a trent'anni fa, alla fine del 1994, proprio mentre pubblicavo la prima storia del Kverse, Milano da morire. Il mio contributo fu la scelta dell'appartamento, proprio in base alla vista sul mare, e la rimozione da mobili e pavimenti delle incrostazioni di sporcizia lasciate dalle centinaia di ragazzi britannici più o meno ubriachi cui la proprietà era stata affittata nelle ventisei estati precedenti; ricordo ancora un comodino, in origine bianco, segnato da intrecci di cerchi stratificati di chissà quanti bicchieri; quantomeno, non mi dovevo preoccupare se ci appoggiavo sopra un cuba libre.

Fino al 2009, quando venivo qui in visita, lavoravo dove capitava; talvolta in spiaggia, dato che spesso il mio bagaglio consisteva in voluminosi dattiloscritti stranieri da leggere per conto di case editrici. Più volte in ogni caso mi capitò di trascorrere il mese di agosto a Milano, torrida ma quantomeno silenziosa.
Poi nel 2010 cominciò il lentissimo processo per la successione dell'appartamento spagnolo di mia madre, durata dodici anni, nel corso della quale presi l'abitudine di trasferirmi a Maiorca appena gli impegni in Italia me lo consentivano, d'estate come d'inverno. Un tempo qui la temperatura era più mite, mentre ora con il cambio climatico mi ritrovo vestito come davanti al castello nevoso nei mesi più freddi e completamente nudo in quelli più caldi; per fortuna, nonostante l'inflazione, il costo della vita a Maiorca rimane inferiore a quello di Milano e il mare è gratis. Come sa chi ha letto le mie storie con lo squattrinato investigatore Toni Black, non è necessario essere una star di Hollywood o un oligarca russo per vivere a Maiorca.
Beninteso, non vengo qui in vacanza, ma a lavorare con gli stessi ritmi di Milano. A volte ho avuto fortuna, come nell'estate 2015 quando ho potuto scrivere Black and Blue quasi interamente a un tavolino del bar sotto casa sulla spiaggia; altre volte meno, come quando ho affrontato traduzioni monumentali in completa clausura, senza mettere piede fuori dalla porta per settimane se non quando si esaurivano le scorte di cibo e alcool. E devo dirvi che un po' mi dispiace quando dalla finestra vedo tutta quella gente in vacanza, mentre io sono inchiodato al computer. Ma riesco a mantenere ancora un mio rituale: se sto cominciando un romanzo d'estate, scendo al bar con carta e penna, per tracciare schemi e collegamenti tra fatti e personaggi mentre bevo una pinta di birra con vista mare; l'ho fatto anche quest'anno per il romanzo Sickrose-Compañera, in uscita il prossimo novembre da Segretissimo Mondadori.

Fino a qualche anno fa, a forza di adrenalina (niente additivi chimici), riuscivo a dormire solo quattro ore per notte; le giornate quindi erano "più lunghe" e, quando riuscivo a passare meno tempo al computer, me ne avanzava un po' per la vita privata. Ma le energie diminuiscono con il passare degli anni, sicché sono stato costretto a scendere intorno al centinaio di ore lavorative settimanali, quindi ho dovuto sacrificare molti interessi personali per mantenere costante la produzione pur aumentando il tempo dedicato al sonno e separando il più possibile i pasti dal computer.
Purtuttavia, ovunque mi trovi, continuo a mettermi all'opera verso le cinque del mattino. D'estate a Magaluf è l'ora in cui i ragazzi britannici ubriachi cominciano a uscire urlando e "cantando" dai peggiori bar di calle Punta Ballena, la strada che loro chiamano The Strip perché è più facile da pronunciare. Il resto della zona ormai si è ripulito e in autunno c'è persino un festival letterario, ma io sto proprio dietro l'angolo della Strip, in cui perdurano un paio di localacci gestiti da agenzie inglesi e destinati a giovani neoalcolizzati autodistruttivi.
Tra parentesi, da decenni mi chiedo perché i Brexit Boys debbano per forza sbraitare a fine nottata, come se questo testimoniasse il raggiungimento dell'età adulta. Qualche settimana fa hanno persino fatto festa grande quando la loro squadra di calcio è stata sconfitta dalla Spagna alla finale degli Europei, perché erano così sbronzi da non sapere né che erano in Spagna né che avevano perso. In ogni caso gli italiani in trasferta sulla Strip, pensando forse che questa sia un'usanza locale, non vogliono essere da meno e talvolta sento pure schiamazzi nella mia lingua natale.

Nondimeno ancora per qualche giorno sono a Magaluf, dopo quasi due mesi dal mio arrivo a inizio luglio. Come al solito, in otto settimane pensavo di poter fare molte cose, ma sono arrivato a realizzare solo buona parte di quelle lavorative. A breve devo tornare in Italia, dove mi aspetta la quinta edizione del Festival Torre Crawford a San Nicola Arcella (Cosenza), venerdì 6 e sabato 7 settembre.
Lo scorso anno, a mezzo secolo dal mio primo approdo in Spagna, raccontai in un post sul blog Kverse i miei rapporti con queste terre. In sintesi, dal momento che quaranta-cinquant'anni fa ci venivo in vacanza e che negli ultimi trent'anni qui ho cominciato, o finito, o scritto per intero molti dei miei libri, quando ci torno un po' ho l'illusione di essere in ferie anche se non lo sono, un po' so che questo panorama mi darà ispirazione e creatività.
È uno stile di vita ibrido tra quello di Ian Fleming - che, ricco di famiglia, la mattina in Giamaica faceva una nuotata e un'abbondante colazione, poi scriveva giusto per qualche ora il suo prossimo bestseller globale, per scolarsi infine una bottiglia di gin prima di andare a dormire - e quello degli autori pulp americani degli anni Trenta, morti di fame che tra whisky e caffè passavano giorni e notti a battere come disperati sulla macchina da scrivere. Preferirei avvicinarmi al modello di Fleming, ma in ogni caso vorrei durare più a lungo di tutti loro quindi, anche se sto dietro l'angolo dell'alcolica Strip, cerco di limitarmi tanto nei liquori quanto nel caffè; e almeno un po' anche nei sigari, ma non si può rinunciare proprio a tutto nella vita.





Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato oltre una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford. Membro di IAMTW e World SF Italia, vincitore del Premio Italia 2018 (miglior romanzo fantasy), cura le riedizioni di Andrea G. Pinketts con l'associazione omonima e per Delos Digital la collana in ebook Spy Game.

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