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viernes, 30 de abril de 2021

Callipigia (racconto del venerdì)

 

Come sa chi segue Vita da pulp, la malsana pulsione alla scrittura può cominciare in giovane età. Ai tempi del liceo ero solito tenere un "diario alternativo" in cui, oltre ad annotare fatti di vario genere, scrivevo brevi racconti, alcuni neanche disprezzabili o addirittura riciclati con successo in miei lavori successivi. Il mio commercialista - ai tempi mio compagno di scuola - sostiene tuttora che di quelle pagine bisognerebbe dare lettura pubblica. Quanto segue è un dialogo platonico (beninteso apocrifo) risalente al 1982 e ripescato dieci anni fa, quando ogni settimana pubblicavo un mio racconto nelle mie note di Facebook. Mi è tornato in mente oggi grazie alla Rubrica delle Parole Desuete di Giada Trebeschi e ho deciso di rispolverare questo brillante esempio di maieutica socratica.

CALLIPIGIA
Dialogo platonico scoperto durante i lavori della Metropolitana Milanese nei primi anni '80 del XX secolo

CALLIPIGIA: Buona serata, o Socrate. E' assai tardi. Perché ti sei trattenuto così a lungo al Liceo?

SOCRATE: Tutto può essere, fuorché una bella serata. Se sapessi cosa mi hanno riferito poche ore fa...

C: Di che si tratta?

S: Di un'accusa a me rivolta. Dicono che corrompo i giovani.

C: Ed è vero, questo?

S: Tutte palle. Ci si fa una canna ogni tanto, cosa vuoi che sia... Ma tu cosa ci fai da queste parti?

C: E' il mio solito turno, passo sempre di qui a quest'ora. Vuoi approfittare?

S. Quant'è la tariffa?

C: Dieci dracme.

S: Per le vacche del Sole Iperione! Sarai certamente ben informata sulle tariffe correnti, per presentare conti del genere.

C: E cacchio, certo che lo sono. Posso dire con certezza che questo è il prezzo giusto per le mie prestazioni.

S: Ciò m'interessa molto. Devi sapere che di economia non capisco una mazza e alla mia dichiarazione dei redditi pensa il commercialista. Ma dimmi: di certo avrai un criterio per stabilire quale sia il giusto prezzo.

C: E' chiaro: c'è la percentuale per il protettore, le spese per le calzature (non sai quanto si consumano), l'affitto, la svalutazione; e devo tirarci fuori qualcosa per la profumeria, il parrucchiere e la boutique.

S: Di certo hai ragione, tenendo conto di tutto. Ma... perdona la mia ignoranza, non sarebbe opportuno abbassare un poco il prezzo, tanto per incoraggiare la clientela? Tipo offerta speciale o saldi di fine stagione?

C: Forse sarebbe davvero opportuno. In effetti potrei fare così. Abbassare il prezzo a cinque dracme per qualche giorno, in modo da invogliare qualche nuovo cliente.

S: Ottima decisione, ne sono sicuro. Questo è invero un giusto prezzo per le tue prestazioni. Ma ho sentito dire, mi potrei anche sbagliare, che per lanciare un prodotto a volte si fa omaggio di campioni gratuiti, così che la clientela provi la merce e la trovi preferibile ad altre.

C: O Socrate, proprio ora mi è venuta un'idea brillante: potrei offrire prestazioni gratuite a qualche cliente, così mi farei pubblicità e spiazzerei la concorrenza.

S: Ragazza mia, la tua intelligenza fa invidia alle tue natiche. Sì, non ho dubbi. E dovresti cominciare quanto prima questa tua campagna di lancio.

C: Naturalmente. Proprio quello che pensavo: potrei cominciare da stasera.

S: Le tue argomentazioni m'hanno proprio convinto. Ecco dunque il giusto prezzo. Credo che approfitterò stanotte stessa della tua vantaggiosa offerta.

©1982-2011 Andrea Carlo Cappi

miércoles, 28 de abril de 2021

Vita da pulp - L'Effetto Samsa



Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi

Oggi affrontiamo uno degli aspetti più importanti nella vita di chi scrive, pulp o altro: l'Effetto Samsa. Ovvero, scriviamo qualcosa, poi guardiamo la nostra creatura e l'amiamo incondizionatamente, avendola generata noi, anche se a una persona normale ispira solo ribrezzo & repugnanza. Oppure - al contrario - d'un tratto la vediamo mostruosa e, agitando in aria un grosso bastone, la ricacciamo nella sua stanza... o meglio nel cestino sul desktop, l'equivalente letterario del cassonetto differenziato per il frutto del peccato.

In entrambi i casi, la reazione potrebbe essere sbagliata. Chi ha poca autocritica ritiene di avere appena concepito un'opera immortale, chi ne ha troppa non sarebbe soddisfatto nemmeno se avesse partorito un capolavoro. Subito dopo averla scritta, non è facile valutarla in modo oggettivo, né capire se la creatura si sappia reggere da sola sulle sue sottili zampette. Dunque si rende necessario un parere esterno. Pertanto autrici e autori aspiranti e/o emergenti sono soliti far leggere il proprio testo a parenti o amiche o amici, che tuttavia:
a) non hanno la minima voglia di leggerlo e si limitano a dire: "Sì, sì, è bello, da premio Nobel"
b) dotati di immenso spirito di sacrificio (o temendo di non saper rispondere a domande trabocchetto del tipo "ti è piaciuta la scena del bambino che morde la mela" quando nella storia invece c'è una mela che morde un bambino), leggono sul serio il testo, ma qualsiasi cosa ne pensino vi dicono: "Sì, sì, è bello, da premio Nobel"
c) per qualche ragione personale, godono nel farvi provare un senso di inadeguatezza e - che abbiano letto o meno il testo - vi dicono che potevate fare di meglio e che anzi, tutto sommato, dovreste dedicarvi invece al paracadutismo estremo
d) se si tratta di persone come i miei genitori, l'unico commento è "Sì, d'accordo, ma pensa a studiare".
Per ovviare a questi problemi, la prima fase è sospendere il proprio giudizio, tenere surgelato il proprio testo per un tempo adeguato, poi rileggerlo con gli occhi del pubblico, cioè come fate voi stessi quando leggete qualcosa scritto da altri. Il che implica tuttavia che voi per prime o per primi siate lettrici o lettori abituali, quindi che sappiate cosa significa. Se di norma invece non leggete libri, forse fareste meglio a non cercare di scriverne.

A questo punto potreste subire la tentazione di far leggere la vostra opera a una scrittrice o uno scrittore professionista, che vi potrà dare consigli pratici (se siete disposti ad ascoltarne) e, soprattutto, trovarvi una casa editrice.
Per cominciare, la/il professionista (a meno che non sia alla direzione di una collana e per lavoro faccia selezione di testi, come capitava a me diversi anni fa) non può trovarvi una casa editrice, perché deve già darsi da fare a trovarne per sé: a trovare le case editrici dovrebbero essere le/gli agenti letterari, ma a volte non lo fanno nemmeno loro.
Inoltre la/il professionista riceve la stessa richiesta - "Mi leggi il mio romanzo?" - quasi da chiunque ne abbia scritto uno e le/gli abbia chiesto l'amicizia su Facebook. Dapprima la/il professionista si rende disponibile, ma dopo qualche tempo si trova subissata/o di richieste - che si sovrappongono a un'altra infinità di lavori gratuiti - e scatta il Paradosso Strumpf, Dice "La leggo appena ho un momento libero" e dopo due anni si rende conto che non ha ancora avuto un momento libero. Non ce l'ha con voi, è proprio che dopo decenni di notti insonni, non ce la fa più.
Il mio amico e noto scrittore Andrea G. Pinketts* è una fulgida eccezione: dedica gran parte della sua giornata a fare questo tipo di consulenze gratuite. Quando sostiene di avere dilapidato l'eredità della zia Olghina al gioco e nella vita dissoluta, nasconde - perché non pare abbastanza maudit per la sua immagine - il fatto che lavori tutti i giorni pro bono, aiutando nuove leve. Ma . col senno di poi - se avesse sottratto meno tempo alla scrittura per somministrare consigli o regalare prefazioni a tutti quelli che si accostavano al suo tavolino a Le Trottoir, probabilmente ci avrebbe lasciato il doppio dei romanzi.
Sentitevi un po' in colpa.
E rammentate che non tutti gli scrittori hanno l'eredità della zia Olghina.
Detto questo, dopo la fase di scrittura occorre in primo luogo imparare un opportuno dosaggio dell'autocritica e, in secondo luogo, arrivare a un testo il più possibile scevro da Effetto Samsa. Solo allora sarà possibile proporlo a qualcuno che possa giudicarlo o lavorarci sopra. Ne parliamo prossimamente.

*Nota molto posteriore: Anche se all'Associazione a lui dedicata siamo soliti parlarne al presente, Andrea G. Pinketts è deceduto nel dicembre 2018. Ma ogni tanto capita sui social network che qualcuno si chieda perché Pinketts non pubblichi più niente di nuovo da un po'. Forse le notizie sulla sua morte sono state largamente sottovalutate, cosa che a lui non piacerebbe affatto. Ma quantomeno si sa che è esistito, laddove di figure diverse - ma non meno importanti - della narrativa italiana, pochi sanno che sono esistite.

Continua...



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

Immagine: A. C. Cappi in una foto di A. C. Cappi (include Effetto Samsa)

jueves, 22 de abril de 2021

Vita da pulp - La Legge di Goldwyn

A. C. Cappi al Bacardi (Bollate, MI) in una foto di Alberto Grifantini

Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi

Chi scrive narrativa di genere ha diversi problemi da risolvere. Il fatto che si occupi di un prodotto di intrattenimento, di "paraletteratura", di "lettura ferroviaria" - o altri termini più o meno volutamente riduttivi - non significa che debba per forza rifilarci un sottoprodotto raffazzonato, approssimativo e sgrammaticato.
Il primo problema riguarda la trama. Come dicevo la volta scorsa, la nostra vicenda - possibilmente originale, su questo bisognerà fare un lungo discorso - specie se si tratta di un giallo, dev'essere solida, efficace e coerente. Il che non significa che al di fuori del giallo classico - per esempio in un noir nell'accezione comune della parola - si possa scrivere a casaccio, pensando che tanto il lettore non presti troppa attenzione ai dettagli. Per esempio, se un personaggio cambia comportamento a metà libro, deve avere un vero motivo per farlo, non la semplice distrazione di chi ne scrive.
Il secondo problema riguarda la qualità della scrittura. Stiamo lavorando a una storia di intrattenimento, ma questo non ci autorizza a scriverla male, anche se ciò non significa applicare le regole di ciò che in Italia si crede sia "scrivere bene". Di questo parlerò in un'altra occasione.
Il terzo problema è che, se volete scrivere una storia di intrattenimento, dovete scriverla in modo che sia davvero di intrattenimento.

Questo è un aspetto delicato, che implica anche conoscere le regole di ogni singolo genere (quindi averne letto parecchio, non pensare che basti scopiazzare un paio di film o una serie tv). Una storia di genere può essere di puro intrattenimento e ha tutti i diritti di esserlo. Ma, se è costruita a tavolino, senza passione, diventa un gioco sterile: un romanzo di genere funziona se chi legge prova coinvolgimento e identificazione nei personaggi.
Se crea emozioni ed è ben costruita, la storua diviene intrattenimento intelligente anche se non ha altre pretese. I romanzi di Janet Evanovich con Stephanie Plum, che ho avuto il piacere di tradurre per qualche anno, raccontano (con una trama gialla e un pizzico di commedia) di piccoli conflitti umani e della vita quotidiana di una giovane donna del New Jersey, quindi in fondo della realtà di una figura in cui molte persone si possono riconoscere. Diviene, senza volerlo, un romanzo sociale. Vi sembra poco? Laddove in un fumetto di supereroi o di un albo della Bonelli, in cui dietro l'avventura più appariscente si può nascondere una viva e vitale commedia umana.
Una storia di genere offre quindi un enorme vantaggio: vi permette di raccontare qualcosa che vi sta a cuore in un modo più incisivo e coinvolgente per chi legge, rispetto a quando si scrive un saggio o anche una storia mainstream sullo stesso argomento... a meno di non essere un premio Nobel o giù di lì, ma suppongo che non sia questo il mio o il vostro caso. Il segreto è proprio che, se chi scrive infonde umanità ai suoi personaggi (anche se sta parlando di alieni in una storia di fantascienza) può far riflettere chi legge su questioni molto serie. L'importante è che il "messaggio" non prevalga in modo didascalico sull'intrattenimento.
Non arrivo a sottoscrivere completamente quella che potremmo chiamare "Legge di Goldwyn", da una frase attribuita al produttore Samuel Goldwyn della Metro-Goldwyn-Mayer: "Se devi mandare un messaggio, vai alla Western Union" (che all'epoca era leader americana del servizio telegrafico). Ma, se il tuo obiettivo è solo il "messaggio", non stai più facendo intrattenimento.

Porto come esempio la serie televisiva italiana del 1976 (all'epoca si definiva "sceneggiato" od "originale televisivo") che a tutt'oggi credo detenga il record assoluto per numero di spettatori alla sua messa in onda: ventotto milioni. Mi riferisco a Dov'è Anna?, scritto dall'infallibile duo Biagio Proietti e Diana Crispo, e diretto da Piero Schivazappa. Era il primo sceneggiato giallo della RAI ambientato in Italia - anziché all'estero come altri precedenti successi made in Italy - e in ogni puntata andava a toccare una tematica scottante in ambito sociale. Si era ancora ai tempi della Democrazia Cristiana al potere e certi aspetti non si potevano toccare: non venne realizzata una puntata in cui si parlava di prostituzione, anche se l'episodio viene raccontato per intero nella novelization scritta dagli stessi sceneggiatori, che divenne subito un bestseller.
L'impatto di Dov'è Anna? sul pubblico televisivo italiano fu tale che, dopo una puntata in cui si parlava di pazienti psichiatrici, fu cambiata una legge in proposito a furor di popolo. Ma l'efficacia dipendeva dal fatto che era un giallo e che il pubblico lo seguiva perché c'era una storia coinvolgente. Se Proietti & Crispo fossero partiti dall'idea di fare una serie su "problematiche sociali degli anni Settanta" basata solo sul "messaggio sociale", non l'avrebbe vista nessuno. Quantomeno non ventotto milioni di spettatori che volevano sapere dove fosse Anna.
Per questo ho scarsa tolleranza nei confronti dello scrittore che si presenta a un festival sul giallo (perché sa che la gente ci va e avrà pubblico), dopo aver scritto qualcosa che viene definito un giallo (perché sa che è di moda e la gente lo compra) però al microfono davanti a tutti dichiara "Sì, ma il mio non è proprio un giallo" (perché non vuole fare brutta figura di fronte agli amici "intellettuali" che ha invitato alla presentazione del libro). Primo, mi fai passare la voglia di leggerlo e, secondo, cosa ci vieni a fare a occupare un posto che potevi lasciare a chi i gialli li scrive veramente?
E poi c'è un quarto problema, che possiamo chiamare "Effetto Samsa", ma visto che mi sono dilungato sui primi tre, ne parlo la prossima volta.

Continua...



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

viernes, 16 de abril de 2021

La donna segreta del giallo

 

Grazia Jacono in un dipinto di Carlo Jacono

Ricordo di Andrea Carlo Cappi

Per molti lettori de Il Giallo Mondadori e di Segretissimo (oltre a innumerevoli altre pubblicazioni soprattutto da edicola) soprattutto tra gli anni Sessanta e i Duemila, il nome Jacono evoca immediatamente le immagini criminose o esotiche che ogni settimana occhieggiavano dalle copertine, invitandoli all'acquisto e alla lettura. Alcuni galleristi qua e là per il mondo ricordano Carlo Jacono per i suoi ritratti immaginari di donne e di guerrieri sul confine tra la realtà e la fantasia. Chi conosceva entrambi i lati della sua produzione - pittore e illustratore - scopriva il suo gioco di sperimentare su una copertina qualche espediente visivo che avrebbe usato in un dipinto e viceversa.
Dietro le quinte c'era tuttavia una donna: la moglie Maria Grazia Bianco Jacono, che ho avuto modo di conoscere quando, nell'estate del 2000, l'artista ci ha lasciato. Per qualche tempo ci siamo visti spesso, quando mi presentavo nello studio milanese di Carlo a riordinare, identificare e classificare le migliaia e migliaia di tavole che il marito era riuscito a conservare della propria ben più vasta produzione. All'ora di pranzo avevamo un rituale: un piatto di pasta con il pesto che lei si procurava appositamente a Rapallo, città ligure cui anch'io sono affezionato, anche se non ci torno da molti anni. Fu la prima persona, nel 2001, cui raccontai che la mia serie Nightshade sarebbe stata pubblicata su Segretissimo, dato che ero da lei quando mi arrivò la telefonata che me lo annunciava.
Nel volgere di qualche anno, dai nostri appuntamenti è nato l'Archivio Jacono, che ci ha permesso di organizzare mostre e riproporre molte tavole del passato in copertina a I Classici del Giallo di Mondadori. Dopodiché non sono più stato io a occuparmi dell'Archivio, ma ci siamo incontrati alle mostre del marito, l'ultima al Wow-Museo del Fumetto di Milano nel dicembre 2019.
Questa mattina ho saputo che anche lei ci ha lasciato. Ho dato al telefono la triste notizia a Gian Franco Orsi, che come redattore e dopo direttore de Il Giallo fino agli anni '90 è stato grande amico degli Jacono. Poi sono andato a cercarla per un ultimo saluto tra le immagini del mio archivio personale, dove sapevo che avrei trovato, nascosta tra le opere del marito, la donna segreta del giallo. 

I funerali di Maria Grazia Bianco Jacono si celebrano sabato 17 aprile 2021 alle 11.00 presso la chiesa di Sant'Angela Merici, via Cagliero 26, Milano. 



jueves, 15 de abril de 2021

Vita da pulp - 180 anni in giallo

"I delitti della rue Morgue", illustrazione di Byam Shaw, 1909

Riflessioni di un celebre scrittore ignoto, di Andrea Carlo Cappi

Giallo e noir sono due insiemi che - almeno nell'interpretazione che se ne dà in Italia - si sovrappongono, si confondono e si contrappongono. In realtà partono entrambi da una pubblicazione di esattamente centottant'anni fa a Filadelfia, Pennsylvania, USA: nel numero dell'aprile 1841 di The Graham's Lady's and Gentleman's Magazine esce il racconto I delitti della rue Morgue di Edgar Allan Poe, considerato la prima detective story nella storia della letteratura.
Insomma, il primo giallo, ovvero il primo noir, risale a centottant'anni fa.
Poe, il maestro dell'incubo, impiega a sorpresa un metodo scientifico dalla sconcertante razionalità. Nella sua storia appaiono per la prima volta un infallibile investigatore dilettante - il cavalier Auguste Dupin, consulente della Sûrété di Parigi - e un suo assistente-biografo-narratore di cui non conosciamo il nome: possiamo persino immaginare che sia lo stesso Poe in trasferta a Parigi (anche se non so se ci sia mai stato). La trama narra di un delitto tanto inspiegabile quanto brutale, di cui il detective trova una soluzione precisa, inequivocabile e sbalorditiva, persino con un tocco horror.
Dupin e il suo assistente tornano solo in altri due racconti di Poe. Uno è Il mistero di Marie Roget, ispirato a un vero delitto avvenuto a New York - il caso Mary Rogers - di cui Poe elabora la vicenda trasferendola a Parigi e anticipando quella che si rivelerà la vera soluzione anche nella realtà. A questo punto non solo la detective story come genere è già pienamente definita, ma si permette addirittura di interagire con la cronaca nera. L'ultimo racconto è La lettera rubata, in cui non viene commesso un delitto ma c'è ugualmente un mistero da chiarire, la cui soluzione rimane proverbiale.
In questa trilogia, Poe crea il modello detective/assistente-narratore poi ripreso pari pari da Arthur Conan Doyle con Sherlock Holmes e John Watson, poi da Agatha Christie con Poirot, che sarà affiancato negli anni da diversi comprimari su cui l'autrice farà variazioni geniali. Lo stesso abbinamento sarà riutilizzato in una variante originale pure da Rex Stout con la coppia Nero Wolfe e Archie Goodwin, che abbina un detective classico a un assistente-detective hardboiled.
Inoltre, già dal suo primo racconto con Dupin, Edgar Allan Poe propone un altro elemento che diverrà stereotipo: la polizia brancola nel buio e si deve rivolgere a un geniale detective privato che sa vedere oltre le apparenze. L'ambientazione parigina, oltre a essere esotica per il pubblico americano, consente persino di mettere in discussione le capacità di indagine della polizia senza offendere nessuno: Dupin, postmoderno ante litteram, non indaga solo sul mistero, ma anche sull'inchiesta infruttuosa degli investigatori ufficiali, evidenziandone le lacune.
Peccato che il detective di Poe, pur lasciando una traccia indelebile, si sia visto ben poco in azione, per quanto il mio amico Rino Casazza e io abbiamo aggiunto qualche altra storia al suo curriculum, portando Dupin a sfidare Holmes e affrontare un personaggio molto simile al Fantômas di Allain e Souvestre.

Il mystery, inteso come detective story, ha dunque centottant'anni. Buon compleanno. In tutto questo tempo il modello inventato da Poe è stato ripreso, rielaborato, imitato e spesso anche banalizzato, quando il giallo veniva ridotto giusto a un enigma artificiale risolto da un personaggio bizzarro.
In risposta a questa tendenza sono nati l'hardboiled con i detective privati "all'americana", il poliziesco che rivalutava l'operato delle forze dell'ordine (sia come singoli ispettori o commissari, sia come "distretti") e la storia criminale propriamente detta, oltre alle vicende di spionaggio. Naturalmente anche in questi filoni ci sono stati capolavori, ci sono stati onesti prodotti di buona qualità, ma anche sottoprodotti imitativi.
Come ripeto spesso, la parola "giallo" in Italia nasce da Il Giallo Mondadori mentre "noir" viene dalla Série Noire di Gallimard. Da noi "giallo" indicava qualsiasi tipologia di quelle sopraindicate, anche se era associato più spesso alla detective story classica. La definizione "noir" era riservata alle storie più dure e realistiche. Oggi si usa "giallo" quasi in senso dispregiativo e "noir" con una connotazione di qualità letteraria, con il paradosso che tutti vogliono scrivere gialli per dire poi che hanno scritto un noir. Com'è poi noto, a chi scrive spy story - in realtà uno dei sottogeneri più difficili - non viene data invece molta considerazione.

I generi si confondono. Se uno dei dogmi del "giallo" è che la soluzione non può ammettere l'intrusione di un elemento soprannaturale, nell'italian giallo (inteso come genere cinematografico e televisivo) a volte si sovrappone una dimensione inspiegabile, gotica e irrazionale, oltre a una forte componente horror.
In realtà - come in tutto - bisogna stabilire un patto con chi legge. Non si possono cambiare le regole a metà strada. Altre volte il patto è prestabilito dal contenitore. In Dylan Dog l'ignoto è di casa, mentre sarebbe fuori luogo in un romanzo de Il Giallo Mondadori, che nei suoi oltre novant'anni di esistenza ha manifestato un ampio ventaglio di scelte... ma ben poco di soprannaturale. Allo stesso modo, in Segretissimo non sono mai state troppo amate le storie che sconfinavano nel fantastico: ricordo un interessante romanzo sul confine tra i generi - Un agente dall'aldilà di George O'Toole - che negli anni Settanta fu spostato dall'editore nella collana Urania, dichiaratamente di fantascienza.
Ma, che il "giallo" sia una detective story classica a enigma o una storia criminale senza l'obbligo di scoprire l'assassino nel finale, deve sempre rispettare un obbligo di coerenza e precisione. Alla fine tutti i dettagli devono tornare.
Sono d'accordo che in una storia noir, così come avviene nella realtà, non sia obbligatorio che si faccia luce su ogni zona d'ombra. Si può arrivare alla fine senza una soluzione catartica, ci si può scontrare con l'impossibilità di portare i colpevoli davanti alla giustizia o di risolvere un mistero, ma tutto dev'essere motivato. In questo, l'esempio di Luigi Pirandello in Così è se vi pare è magistrale.
Per quanto mi riguarda, ho sempre il timore di scordarmi qualche dettaglio importante, come quello dell'autista degli Sternwood ne Il grande sonno di Raymond Chandler, esempio che cito spesso (chi lo ha ucciso? Non lo sapeva neanche Chandler). Dopotutto, se ripensate alla scena del Dottor Strange che ho menzionato la volta scorsa, chi scrive ha in testa così tante possibili varianti della propria storia che il rischio di confondersi tra l'una e l'altra è molto elevato.
Di come si possa risolvere questo problema parliamo prossimamente.

Continua...



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

viernes, 9 de abril de 2021

Vita da pulp - Costo zero


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi


Certe convinzioni errate sulla scrittura sono difficili da sradicare. C'è chi per esempio, ritiene che gli scrittori siano ricchi per natura, quindi non abbiano bisogno di essere pagati. Altri invece sanno che "solo Stephen King guadagna abbastanza da vivere di quello che scrive", quindi tanto vale che gli scrittori non siano pagati. Certo, per qualcuno scrivere è un hobby, una passione cui dedicarsi nel tempo libero: ne ho parlato a proposito del Modello Patterson, ma ho idea che James Patterson non sarebbe diventato lo scrittore più ricco del mondo se nessuno l'avesse pagato perché tanto faceva già un altro mestiere. Invece chi scrive di professione ci deve campare, anche se non si chiama Stephen King o J. K Rowling. Il fatto che chi scrive pulp viva questo lavoro anche come una passione, non significa che non debba essere retribuito. A Maradona immagino che piacesse giocare a pallone, ma suppongo che non sarebbe venuto gratis a farlo a Napoli solo per l'ottima cucina.

Di recente ho intravisto su Facebook le discussioni sulle variazioni di prezzo, cadenza e numero di pagine degli albi di Martin Mystère da maggio 2021. Ormai è noto che dal numero di quel mese, in appendice alla storia a fumetti, ci sarà un mio serial non a fumetti. (Oltre a essere stato co-sceneggiatore di qualche episodio della serie, da oltre vent'anni scrivo narrativa con il "detective dell'impossibile" creato da Alfredo Castelli e attualmente gli dedico una serie annuale di romanzi in edicola da Sergio Bonelli Editore. Rassicuro intanto i lettori: il serial, inedito e scritto appositamente per gli albi, non sostituisce i libri e anche nel 2021** uscirà un nuovo volume, altrettanto inedito, de I Romanzi di Martin Mystère.)
Semplifico e sintetizzo la questione: c'è chi contesta che l'editore aumenti il prezzo* di un albo a fumetti in cui le ultime pagine non saranno a fumetti. Dopotutto l'appendice di narrativa, sostiene qualcuno, sarebbe "a costo zero" in quanto "un romanzo si può scrivere anche al gabinetto" (l'espressione originale era più esplicita) e tanto "solo Stephen King guadagna abbastanza etc. etc." Certo, è verissimo che ogni tavola a fumetti implica che l'editore debba pagare sceneggiatura, disegno e lettering; ma ciò non significa che una decina di pagine non a fumetti sia un'operazione a "costo zero", perché per fortuna Bonelli paga anche chi scrive le pagine... scritte.

Talvolta però a coltivare la malsana convinzione che chi scrive possa permettersi di lavorare gratis sono gli stessi committenti. Ricordo che anni fa il giornalista-scrittore Edoardo Montolli e io fummo chiamati da una casa di produzione per scrivere un serial televisivo con Andrea G. Pinketts e Justine Mattera. Il progetto prevedeva per ogni settimana una vicenda autoconclusiva in cinque puntate, da lunedì a venerdì. Per cominciare serviva la sceneggiatura della storia-pilota della prima settimana.
Appena il produttore, con l'aria di chi la sa lunga, pronunciò la frase "Puntata zero, soldi zero", Montolli e io rispondemmo in coro: "Puntata zero, si paga davvero". Anche perché si trattava di cinque puntate, che avrebbero richiesto un lavoro di ricerca (si veda la Regola Cussler), la costruzione di un format da usare per tutto il resto della serie  e, infine, lo script (tenendo conto di dove girare gli interni "fuori studio" in base ai nostri contatti).
Così Montolli e io, oltre a occuparci dei lavori che già avevamo in corso, ci trovammo per diverse notti a scrivere la sceneggiatura a quattro mani, tra caffè (lui), whisky (io) e in condivisione una stecca di sigarette Ducados che avevo portato con me dalla Spagna. Essendo un giornalista investigativo, Montolli riceveva le più improbabili chiamate di lavoro anche alle tre del mattino.
Poi, come capita nella maggior parte di questi casi, la produzione non trovò gli sponsor per realizzare nemmeno i primi cinque episodi, non fu girata neppure la storia-pilota e il format non venne più usato. Ma noi sceneggiatori, cui era stato commissionato un lavoro, fummo regolarmente pagati, anche se non quanto avremmo guadagnato se il progetto fosse andato in porto.

Scrivere è un lavoro che richiede tempo, dedizione e impegno, tutte cose che hanno un costo. Ma occorrono anche tecnica e creatività applicabili al campo di cui ci si occupa, che hanno un valore. Esattamente come in sartoria, arti figurative, cucina alta o bassa, musica leggera o pesante, e un'infinità di altri settori.
Ci vogliono idee, dopodiché bisogna documentarsi, trovare espedienti sufficientemente originali, dare una struttura alla storia (prima, durante o dopo, a seconda che si usi il Metodo Deaver, la Tecnica Westlake-Stark o una via di mezzo) e scrivere in modo adeguato. Non basta, insomma, mettere parole una in fila all'altra.
Sul fatto che un romanzo si possa scrivere anche al gabinetto... be', in un certo senso è vero. Quando sto lavorando a una storia mi è difficile separarmene, quindi anche se non sono davanti alla tastiera continuo a pensarci, qualsiasi cosa faccia: mentre vado dal tabaccaio, mentre mangio, mentre sono nella vasca da bagno (luogo di riflessione prediletto da Agatha Christie e William Somerset Maugham), mentre mi lavo i denti, persino mentre dormo.
Avete presente il Dottor Strange nella scena del film Infinity War in cui esamina tutti i futuri possibili? Ecco, a ogni passaggio di un romanzo, ovunque mi trovi, mi capita di fare lo stesso: esploro tutte le possibili opzioni di sviluppo di una situazione, escludendo quelle meno interessanti, troppo complesse o poco efficaci. E ciò che continua a sorprendermi dopo trent'anni è che prima non c'è niente e poi c'è una storia. Non ho detto "un capolavoro della letteratura", ma una storia da cui di solito il mio pubblico non resta deluso. Tutto questo non può essere "a costo zero". Mi accontento di un prezzo onesto.

Continua...

*Nota: per "aumento di prezzo" si intende il passaggio da un albo bimestrale di 162 pagine da 6,30€ a un albo mensile di 96 pagine da 4,40€, dal momento che tutti gli albi da 96 pagine di Sergio Bonelli Editore a partire da aprile 2021 sono passati da 3,90€ a 4,40€, per un necessario adeguamento ai costi.

**Nota posteriore: le numerose iniziative e pubblicazioni extra per gli ottant'anni di Sergio Bonelli Editore fecero sì che il romanzo successivo di Martin Mystère, La farfalla dalle ali di ossidiana, benché scritto nel 2021 uscisse invece nel 2022, saltando un anno. Nel frattempo si era concluso nell'aprile 2022 (sul numero del quarantennale del personaggio) il primo serial in appendice agli albi, Il potere del Falco, ed era cominciato il secondo, Zona Y, destinato a concludersi nel giugno 2023 sul numero 400.



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

Immagine: A. C. Cappi nel booktrailer di "Sei passi nella nebbia" di Francesco G. Lugli

viernes, 2 de abril de 2021

Vita da pulp - La Regola Cussler

Clive Cussler in una foto di A. C. Cappi


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi

Uno dei più piacevoli compleanni della mia vita fu quello dell'8 settembre del 2000. La casa editrice Longanesi mi aveva organizzato un'intervista con Clive Cussler al festival della letteratura di Mantova. Feci una chiacchierata con un autore brillante e di interviste poi ne pubblicai ben due diverse, una su "M-Rivista del Mistero" e una su "Quarterdeck", la fanzine dello 007 Admiral Club (in un suo romanzo, lo scrittore americano aveva giocato con un personaggio simile a James Bond, anche se nel confronto vinceva il suo eroe seriale, Dirk Pitt). A margine dell'incontro ricordo che Cussler, notoriamente appassionato e collezionista di auto d'epoca - con il suo successo se lo poteva permettere - voleva visitare il museo dedicato a Tazio Nuvolari. In quell'occasione rammento anche che parlò della sua nuova serie spin-off dedicata alla nave-spia Oregon, di cui anni dopo avrei tradotto diversi romanzi. Ma l'aspetto che più mi è rimasto in mente di quell'incontro è una sua osservazione sul lavoro di scrittura. Ricordo ancora mentre diceva: "Research, research, I over-research!" Ovvero: "Ricerca, ricerca, ne faccio fin troppa di ricerca!"

In una puntata precedente parlavo del Metodo Deaver, in cui una parte importante di un libro è appunto la documentazione. Lo stesso vale per Clive Cussler e per gli autori che hanno lavorato con lui e spero manterranno in vita i suoi personaggi, dopo che lo scrittore ci ha lasciato poco più di un anno fa. Quasi sempre nelle loro storie, oltre agli elementi tecnici, ci sono riferimenti a fatti storici che richiedono davvero un complesso lavoro di ricerca.
La lezione vale per chiunque scriva.
Certo, non si può sapere tutto di tutto. Ma bisogna saperne abbastanza per rendere credibile la storia. Un certo margine di approssimazione - a mio avviso - è consentito: si tratta pur sempre di narrativa. Talvolta si deve anche barare, cambiando qualche dettaglio per assecondare la trama. Non dimentichiamo che ne Il prigioniero di Zenda Anthony Hope si inventa un'intera nazione, la Ruritania, forse l'esempio più famoso di geografia immaginaria al di fuori del fantasy (e di paesi fittizi so qualcosa anch'io, con i romanzi di Diabolik). Ma non si perde di interesse in un film anche se la Casablanca ricostruita in studio per il cult movie omonimo non corrisponde a quella della realtà, o se in qualsiasi film una scena ambientata in un luogo in realtà è stata girata altrove (ricordo l'inseguimento iniziale di Quantum of Solace, in cui 007 guida lungo il lago di Garda, svolta a sinistra per salire alle cave di Carrara e di lì a poco giunge a Siena).
In ogni caso, chi scrive una storia ha il dovere morale di documentarsi il più possibile sugli argomenti che tratta.

Dal momento che mi occupo di thriller, uno degli aspetti più delicati è la questione delle armi. Di recente Stefano Di Marino notava l'uso dei silenziatori sui revolver nel film Crimine silenzioso di Don Siegel. Su un'arma del genere un silenziatore ha ben poco da silenziare, dato che i gas si espandono già tra il tamburo e la canna. Immagino che fosse una scelta estetica del regista, visto che nel successivo Contratto per uccidere (basato su Gli uccisori di Hemingway, che a sua volta aveva già ispirato il film I gangsters) fa usare ai killer interpretati da Lee Marvin e Clu Gulager silenziatori che sembrano lattine di pomodori verniciate di nero. Gli esperti insegnano del resto che anche su un'arma automatica la detonazione non viene affatto silenziata (plop, plop) come si sente nei film e in tv.
Un'altra svista tipica è il dito sul grilletto: chi è addestrato all'uso delle armi lo tiene rigorosamente appoggiato sul ponticello, non in una posizione in cui potrebbe sparare un colpo per sbaglio, per esempio mentre muove incautamente la mano per fare cenno a qualcuno di spostarsi. Nei servizi fotografici (con armi finte, a volte fintissime!) che uso per promuovere i miei libri, spiego sempre alle modelle che non bisogna tenere una pistola come si vede fare nei film di James Bond. Oggigiorno anche il pubblico non esperto è diventato molto esigente, anche spesso perché chi realizza film e serie tv è più attento a certi dettagli.
Quando si tratta di questioni tecniche bisogna rivolgersi a chi ne sa più di noi. O quantomeno studiarsi con attenzione testi specializzati, sperando di non prendere ugualmente qualche abbaglio. Uno dei volumi di consultazione che mi sono procurato anni fa è lo stesso che il pittore Carlo Jacono usava per copiare le armi di molte sue copertine de Il Giallo Mondadori e Segretissimo.

Le armi da fuoco sono solo un esempio. Qualche anno fa ho scritto un romanzo in cui doveva, per forza, essere presente un sommergibile. Ricordavo la scena di un film, Getta la mamma dal treno, il cui protagonista insegna scrittura creativa e qualcuno tra i suoi allievi cerca appunto di scrivere di sottomarini senza saperne niente. A parte i testi di Tom Clancy che avevo sottomano, si trovano parecchie informazioni di veri sommergibilisti su Internet, ma la maggior parte è in inglese. Per mia fortuna, sono riuscito anche a trovarne qualcuno in italiano, in modo da fare opportuni raffronti e utilizzare un linguaggio tecnico (spero) verosimile.
La trappola più rischiosa è quella della narrativa storica, in cui si rischia di continuo di incorrere in qualche anacronismo. Non si tratta solo di evitare il classico orologio al polso dell'attore in un film in costume. Ancora oggi, nel mondo globalizzato, usi e costumi possono variare da un luogo all'altro e da un anno all'altro, ma solo nell'ultimo secolo la nostra vita quotidiana, nel luogo in cui viviamo, è cambiata in modo radicale. Con essa anche il nostro modo di pensare. Persino scrivere una storia ambientata negli anni Ottanta richiede un minimo di concentrazione perché, per dirne una, i personaggi non possono usare un telefono cellulare come faremmo noi. Figuriamoci se vogliamo risalire all'Antica Roma o agli Egizi, per citare due territori spazio-temporali molto frequentati.
Per informarsi, la rete è di sicuro una risorsa preziosa, ma va tenuto presente che chiunque può scrivere sul web di qualsiasi argomento... anche senza conoscerlo. Del resto non capita solo su Internet. Quindi bisogna non solo documentarsi, ma anche verificare l'attendibilità delle fonti, altrimenti si rischia di propagare sviste fatte da qualcun altro. Spesso studiare sui libri scritti da autori competenti, su carta o in formato digitale, può essere utile.

Possono occorrere giorni di preparazione anche solo per scrivere una riga o una parola... o per non scriverla, ma con cognizione di causa. Quando si studia un argomento per trattarne in una storia, non bisogna neppure cedere alla tentazione di parlarne più del necessario, con il rischio di diventare didascalici.
Ma come si concilia la Regola Cussler con la Tecnica Westlake-Stark di cui ho parlato la scorsa volta, che lascia ampio margine all'improvvisazione? Io risolvo il problema con un lavoro di pre-documentazione, che mi permette di familiarizzare con l'argomento e può anche determinare alcuni sviluppi della trama. Di questi, alcuni vengono scartati in corso d'opera, perché mi portano troppo fuori strada, mentre mi soffermo su altri, che devo approfondire con un ulteriore lavoro di ricerca più dettagliato. Per esempio, se decido che un certo evento avviene in un luogo e una data precisi, comincio a consultare freneticamente i giornali online per controllare che cosa vi sia capitato in quel periodo.
Prima che cominciassi a scrivere Sickrose-Sicaria, mi era capitato di scambiare messaggi con un corrispondente a Città del Messico in periodo di lockdown, scoprendo dettagli che facevano parte della realtà locale di quel momento. Da qui ho deciso che alcuni capitoli si sarebbero svolti laggiù in quel periodo. Così, quando si avvicinava il momento di scriverli, mi sono messo a leggere i giornali e persino a guardare brani di telegiornale su YouTube corrispondenti alla data che mi interessava, per rivivere quel particolare momento quasi come se fossi stato a CDMX.
L'anno prima mi era capitato di fare qualcosa di simile con giornali d'epoca per romanzare eventi realmente accaduti nel maggio 1943 in Spagna in una delle storie inedite di Dossier Contreras: conoscevo i fatti storici (che mi obbligavano a usare certe date), ma dove andavano i personaggi se volevano farsi un drink? C'era il sole o pioveva? Cosa succedeva in città nel frattempo?
In entrambi i casi alla fine avevo più informazioni di quelle che mi occorrevano, tuttavia anche quelle in eccesso e inutilizzate mi servivano per entrare nell'atmosfera del luogo e del tempo. Ha ragione Cussler: bisogna fare più ricerche del necessario. Perché in realtà servono sempre, anche quando non si usano.

Continua...



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.