domingo, 29 de noviembre de 2015

30 novembre, Milano: un cocktail per Ian Fleming


Allo scrittore Ian Fleming, giornalista, stratega dei servizi segreti della Royal Navy durante la Seconda guerra mondiale, bonvivant e, soprattutto, creatore dell'agente 007, è dedicato il primo appuntamento "Cocktail noir" del DVerso, organizzato con la collaborazione di Radio Statale lunedì 30 novembre alle 21.30, in via Felice Casati a Milano. Partecipa Andrea Carlo Cappi, esperto e traduttore di James Bond, e autore a sua volta di romanzi di spionaggio, tra cui il recente Bersaglio ISIS.

sábado, 28 de noviembre de 2015

"Nina" e l'angoscia della forza


È l'unico personaggio femminile in un testo che prevede due co-protagonisti maschili e la breve apparizione di altri due attori ma, come lascia intendere il titolo, tutto ruota intorno a lei. Persino il suo ingresso, atteso e ben preparato, è di per sé un evento determinante. Come altre opere del commediografo marsigliese André Roussin (1911-1987), Nina - alla francese, con l'accento sulla a - va oltre la tradizionale commedia leggera del théâtre de boulevard, unendo al divertimento interessanti riflessioni umane e sociali. La pièce, rappresentata per la prima volta nel 1949 e rappresentata varie volte anche in Italia, ha avuto una versione cinematografica nel 1959, con Sophie Desmarets, Jean Poiret (il marito) e Michel Serrault (l'amante), diretti da Jean Boyer che ne realizzò l'adattamento a quattro mani con lo stesso Roussin. Oggi viene portato in scena per la regia di Pino Strabioli e Patrick Rossi Gastaldi, con Vanessa Gravina nel ruolo eponimo, Edoardo Siravo in quello di Adolfo Tessier e Riccardo Polizzy Carbonelli in quello di Gerardo Dupuy, con la partecipazione di Carlo Di Maio e Fabio Masco nei ruoli collaterali. La scelta di tradurre i nomi in italiano come nelle vecchie traduzioni d'epoca dà un tocco di atmosfera d'epoca.

Il primo personaggio sulla scena è Gerardo, benestante, nullafacente e debosciato, perennemente in giacca da camera, che gestisce telefonicamente i suoi appuntamenti con varie donne, bellissime e perlopiù sposate, amandole tutte e in realtà nessuna. Una vita di disimpegno e piccole menzogne, di cui sta cominciando a stancarsi, tanto da accarezzare - più per la nobiltà romantica del gesto che per un reale desiderio - l'ipotesi di un suicidio con il piccolo revolver che tiene nel cassetto del comodino. Ma, s'intende, è troppo vile e pigro per mettere in atto il suo proposito. Così come per troncare a sua relazione con Nina Tessier, che attende nel pomeriggio e che si non amare veramente. 

Ma quando apre la porta della casa da cui si muove raramente, il centro della ragnatela di lusso in cui attende le sue amanti, si trova invece di fronte ad Adolfo Tessier, armato di pistola e desideroso di uccidere il rivale. Senonché Adolfo, impiegato ministeriale ipocondriaco e a sua volta privo di spina dorsale, sviluppa ben presto una strisciante ammirazione nei confronti di Gerardo, di cui ascolta voyeuristicamente le telefonate: vorrebbe essere come lui, il che incrina il suo intento omicida e nega all'annoiato playboy l'opportunità di passare a miglior vita per mano altrui.

Ed è a questo punto che entra in gioco Nina, in una scena che ribalta le situazioni della pochade: in questo caso, nascosto dietro una tenda è il marito, anziché l'amante. Fra le intrusioni occasionali di un ispettore di polizia (qui reso con una leggerissima e misurata caratterizzazione alle Clouseau) e di un altro marito tradito, con qualche equivoco divertente e dialoghi brillanti e a tratti paradollali, negli atti successivi emerge anche il lato sottilmente drammatico del testo.
Nina, dalla vita agiata ma insoddisfacente, si ritrova a fare da madre a un marito mediocre che ha avuto lei come unica donna della sua vita, e in fondo deve fare da balia anche all'amante che di donne ne ha avute troppe. Loro sono due adulti-bambini viziati, ognuno intrappolato nella propria routine. Lei è una personalità forte, che soffre di non potersi confrontare con qualcuno suoi pari e trova come sola rivalsa il potere che esercita come burattinaia dei deboli che ha intorno. Ed è lei l'unica in grado di vedere la verità, svelarla a tratti per quanto dolorosa, plasmarla quando le occorre. Ma anche così non riuscirà mai a ottenere davvero ciò che vuole.

In una storia in cui aleggiano tentati omicidi, suicidi e persino una coreografica scena da gunplay, Nina si rivela una donna tormentata che ride e cerca un piacere consolatorio nell'illusione dell'amore, ma anche tirannica e a tratti spaventosa nella propria lucidità e nella capacità di improvvisazione con cui riesce a dominare le situazioni critiche. Resa benissimo dal lavoro registico di Patrick Rossi Gastaldi e dall'interpretazione di Vanessa Gravina, affascinante e inquietante quando basta.
Mi ci è voluta una piacevole cena con la compagnia per convincermi che l'attrice non avrebbe estratto all'improvviso dalla borsetta una semiautomatica da autentica dark lady. In realtà l'unica nota oscura dopo la prima di ieri sera al Teatro San Babila di Milano era la notizia della morte quello stesso pomeriggio di Luca De Filippo, alla cui memoria è stata dedicata la rappresentazione.


miércoles, 25 de noviembre de 2015

25 novembre 2015: fuori dall'ombra della violenza





Appuntamento con Crimen


Mercoledì 25 novembre 2015 alle 21.30, presso l'Admiral Hotel di Milano (via Domodossola 16, ingresso libero), Andrea Carlo Cappi presenta la rivista investigativa Crimen, con la partecipazione del direttore Edoardo Montolli. L'occasione per fare il punto sulle indagini svolte dal mensile di misteri e delitti nell'arco dei suoi primi quattro numeri e sulle rivelazioni spesso riprese da altre riviste e quotidiani. E per scoprire quale ottica sulla cronaca nera contraddistingua Crimen rispetto alle numerose pubblicazioni sugli stessi argomenti.
Sul nuovo numero, tra i vari servizi: la prova scomparsa nel caso della strage di Erba; Bruno Contrada dice la sua sulle stragi del 1992; i segreti di Leonarda Cianciulli; piazza Fontana e la costruzione mediatica del falso colpevole; un articolo di Andrea Carlo Cappi sui personaggi celebri coinvolti nel mondo dello spionaggio; e un racconto inedito di Stefano Di Marino. Oltre che in edicola, la rivista è acquistabile anche online in versione digitale.

martes, 24 de noviembre de 2015

A proposito di... cultura

Dante Alighieri nella raffigurazione di Domenico di Michelino

Conversazione con Sandra Clerc 
di Fabio Viganò


Abbiamo rivolto alcune domande interessanti alla dottoressa Clerc dell’Università di Friburgo, già intervistata in merito alla figura di Francesco Ciceri, riguardo le origini della lingua italiana. Soprattutto abbiamo cercato di indagare sulla nascita di questa lingua, bella e unica, e su quali siano stati i passaggi evolutivi che hanno originato l’italiano attualmente scritto e parlato. Siamo partiti da lontano…
"Dottoressa Clerc, come avvenne il passaggio dalla lingua latina alla lingua italiana?"
"Come è facile immaginare, l’evoluzione delle lingue ha tempi lunghi. Le persone non sono andate a letto una sera parlando latino per risvegliarsi il giorno dopo e accorgersi di parlare un idioma diverso! Le trasformazioni linguistiche cominciano a manifestarsi nella lingua parlata. Per esempio, già all’epoca di Cicerone, nel I secolo a.C., il latino parlato e quello scritto avevano preso, a poco a poco, a differenziarsi. Con il tempo, la lingua parlata e quella utilizzata per la scrittura – in particolare nella produzione letteraria – possono distanziarsi al punto da diventare due lingue diverse. Così nasce la necessità di scrivere nella nuova lingua. Questo processo è avvenuto anche per l’italiano. Alcuni studiosi giungono ad affermare che l’italiano non sia altro che il latino parlato oggi. Pur non essendo del tutto d’accordo con questa definizione, che mi pare un po’ azzardata, è innegabile che l’italiano, come tutte le altre lingue che chiamiamo 'romanze' o 'neolatine', si sia evoluto a partire dalla lingua latina e in primo luogo dalla lingua latina parlata (detta anche latino volgare, il latino del volgo, cioè del popolo), e abbia subito nel corso dei secoli varie influenze esterne."
"Si è soliti pensare che l’indovinello veronese rappresenti il punto di svolta, il primo tentativo di 'abbozzare' la lingua italiana. Lei cosa ne pensa?"
"Il cosiddetto Indovinello veronese è un breve testo che risale probabilmente all’VIII o all’inizio del IX secolo d.C., scritto a margine di un documento più antico e scoperto nel secondo decennio del XX secolo. Questa la sua trascrizione:

Se pareba boves, alba pratalia araba
et albo versorio teneba, et negro semen seminaba
.

Questa potrebbe invece essere una proposta di traduzione in italiano moderno:

Teneva davanti a sé i buoi, arava prati bianchi
e teneva un bianco aratro, e seminava un seme nero.

Il termine 'indovinello' fa riferimento alla lettura di questi due versi come metafora della scrittura: le mani scorrono sulla pagina bianca, tengono una penna d’oca che sparge inchiostro nero. L’aggettivo 'veronese' si ricollega al luogo del ritrovamento del codice (la Biblioteca capitolare di Verona) e alla probabile origine del copista, cioè di colui che ha redatto l’indovinello. Ancora oggi i critici e gli storici della lingua dibattono sulla natura di questo testo, che presenta sia caratteri riconducibili al latino tardo, sia elementi che sono invece già prettamente 'volgari', termine con il quale si indica generalmente la lingua parlata e scritta in Italia prima della codifica del Bembo, nel Cinquecento. La questione rimane aperta. I primi testi sicuramente scritti in un volgare italiano sono invece i Platici cassinensi, testimonianze giurate che risalgono agli anni 960-963, anche se alcune iscrizioni ritrovate nelle catacombe (di Commodilla, di San Clemente, etc.) sono più antiche e presentano già caratteristiche che non sono più quelle del latino.
"Quali sono, a Suo avviso, gli autori principali di tale cambiamento linguistico tuttora in atto?"
"La lingua italiana, come tutte le lingue, è in costante evoluzione. Gli effetti, come dicevamo prima, sono visibili in primo luogo nell’espressione orale, e passano soltanto in seguito nello scritto. Banalmente, la lingua che parliamo oggi non è uguale a quella che parlavano i nostri nonni, mentre la scrittura di buon livello di allora non si discosta enormemente da quella che possiamo leggere in un buon libro contemporaneo. La storia dell’italiano scritto è lunga diversi secoli, come abbiamo visto; ricordare gli autori principali sarebbe inevitabilmente fare torto a qualcuno. Ma se proprio vogliamo procedere per sommi capi, potremmo partire dalla Scuola siciliana, la prima ad aver elevato il volgare a lingua letteraria; e poi, naturalmente, Dante, Petrarca e Boccaccio, le 'Tre Corone'; Pietro Bembo, autore della codificazione linguistica che esce vincitrice dai dibattiti sulla lingua nel Cinquecento; poi, avvicinandoci a noi, Manzoni, Leopardi e Montale. Ma questa è, lo ripeto, una rassegna minima."
"Lei considera tuttora il latino come una lingua che possa insegnare qualcosa all’umanità, o è morta e sepolta?"
"A mio modo di vedere, non possiamo guardare al futuro senza tenere almeno un occhio rivolto al passato: la cultura e la civiltà antiche sono alla base della cultura e della civiltà moderne. Se vogliamo un motivo utilitaristico per dare importanza al latino, ricordiamo che, ancora oggi, i giuristi studiano i codici del diritto romano; i termini medici, botanici e di molti altri ambiti scientifici sono in latino. Ma, a ben guardare, gli studi umanistici, nati proprio in Italia nel XIV secolo, sono rivolti da un lato alla riscoperta dei classici latini e greci, dall’altro alla valorizzazione della vita civile; e riconoscono la centralità dell’uomo e la sua dignità. Mi pare che questo sia un insegnamento che l’umanità farebbe bene ad aver caro."
"Carlo Porta e Trilussa segnarono un punto di svolta nel cambiamento linguistico. Può ricordarci come?"
"Immagino si riferisca all’elevazione del dialetto a lingua della letteratura. Naturalmente Porta e Trilussa – il primo per il milanese, il secondo per il romanesco – sono stati importanti in questo senso, perché la loro scelta è ideologicamente connotata, di rifiuto di una lingua italiana imposta. Tuttavia, è bene ricordare che la letteratura dialettale ha una lunghissima tradizione, che da Il contrasto di Cielo d’Alcamo passa alla lingua pavana utilizzata da Ruzzante nelle sue commedie, al napoletano de Lu cunto de li cunti, fino a giungere alle poesie dialettali di oggi."
"L’attualità di Dante Alighieri nella politica di oggigiorno. Vi sono analogie, secondo Lei?"
"Tutti i classici, tutti i maggiori autori, hanno in comune, a mio modo di vedere, una caratteristica fondamentale: parlano ai lettori di tutti i tempi, indipendentemente dall’epoca nella quale scrissero. Dante è sicuramente un classico, uno dei sommi autori non soltanto della letteratura italiana, ma mondiale. Quindi, è certamente possibile collegare al presente le sue parole, che hanno valenza universale."
"Dottoressa Clerc, anche nelle opere teatrali vi è un cambiamento. Nel Cinquecento in particolare... Lei è un’esperta del settore. Può dirci qualcosa a riguardo?"
"Dal punto di vista della lingua, e per quanto riguarda il teatro del Cinquecento, bisogna distinguere tra commedie e tragedie. Le tragedie, genere alto per definizione, utilizzano una lingua italiana di stampo prettamente petrarchesco, cioè della migliore e più prestigiosa tradizione lirica italiana. Le commedie, invece, presentano varietà linguistiche molto più ampie, perché la lingua viene utilizzata anche come elemento comico: il “dottore” che parla un italiano infarcito di formule latine, il contadino che si esprime invece in dialetto, il soldato sbruffone che proviene dalla Toscana sono soltanto alcuni esempi. Le commedie di Ludovico Ariosto, che è stato un drammaturgo molto apprezzato nella sua epoca e organizzava personalmente le rappresentazioni, anche prendendovi parte, non sono scritte nella stessa lingua de La mandragola, il capolavoro comico di Machiavelli. Tanto che il ferrarese riscriverà da cima a fondo i suoi testi teatrali, inizialmente in prosa, per renderli in versi (e in versi sdruccioli), dopo aver ricevuto le critiche di un anonimo autore fiorentino, nel quale in molti hanno riconosciuto proprio l’autore de Il principe. Poi ci sarebbe il discorso riguardante le novità strutturali e sceniche introdotte nel teatro del Rinascimento, ma questo ci porterebbe un po’ distante."
"Grazie, a nome di tutto il pubblico de Il rifugio dei peccatori. Lei è sempre molto disponibile!"
"Grazie a lei!"

sábado, 14 de noviembre de 2015

Ancora Parigi


Interventi di Fabio Viganò e Andrea Carlo Cappi


È stata una strage. Morti innocenti, volute.
Pensano di aver compiuto un gesto eroico. Non lo hanno fatto e non lo faranno mai. Non ne sono capaci. Uccidere per creare il terrore non è che un gesto vile.
Siete dei vigliacchi e degli insulsi. Non usate la testa. Vi lasciate soltanto comandare da persone che -ne sono certo - mai si esporranno, mai agiranno in prima persona. Lo stratega che vi ha addestrato, colui che ha creato un piano così militarmente imprevedibile, lo prenderemo. Statene certi!
La Giustizia arriva sempre. La Giustizia non è la vendetta. Uccidevate in nome di Allah? Vi svelo un segreto: Allah, come la comunità islamica,  non è con voi. Non può esserlo! Non foss'altro per le stragi da voi perpetrate. Avete compiuto un attentato con molte vittime persino in una moschea! Siete soltanto burattini manovrati da persone senza scrupoli. Trafficate in droga e invocate Allah? Strano: la droga è vietata dal Corano!
La differenza tra noi e voi sta nel fatto che noi crediamo in valori quali la Libertà, l’Uguaglianza dei Popoli, la Fratellanza. Voi non credete in niente! Ricordate bene una cosa: chi crede in valori come i nostri non muore mai! Vivrà per sempre nei giorni,negli anni,nei secoli a venire. Voi, a differenza delle persone che avete martirizzato a Parigi, siete già morti. La vostra ideologia vi rende morti che camminano, respirano, forse lavorano… ma non per costruire o creare, non per migliorare la Vita. Siete solo strumenti nelle mani di cultori di morte. Per questo motivo tutto il mondo oggi grida: "Vive la France, vive la Libertè”. (Fabio Viganò)

C'è un effetto collaterale a ogni attacco terroristico all'Europa. Diventiamo i nemici di noi stessi, quindi facciamo un favore all'ISIS (o ISIL, o IS, o Daesh, a seconda di quale sigla si preferisca usare).
Per prima cosa, siamo facili alla spettacolarizzazione del terrorismo: il confine tra doverosa informazione e sensazionalismo è molto sottile e, per quanto oggettivamente si possa cercare di riportare una tragica notizia, l'effetto è quello di  moltiplicare il panico e aumentare l'eco dei gesti compiuti dagli assassini. In secondo luogo, ogni evento del genere scatena mille reazioni sui social network, diffondendo affermazioni spesso inesatte.
C'è chi afferma, per esempio, che i terroristi della Jihad siano stati organizzati, addestrati e finanziati dagli USA. Il che è un clamoroso equivoco. È vero che al-Qaeda discendeva a suo modo tanto dalla guerriglia afghana antisovietica sostenuta dagli Stati Uniti negli anni Ottanta, quanto da certi ambigui alleati dell'Occidente in Arabia Saudita e probabilmente non solo laggiù. Ma poi al-Qaeda si è evoluta in modo del tutto indipendente. Gli unici possibili retroscena complottistici dell'Undici Settembre sono che gli USA di Bush Jr. si aspettassero un attentato di minore entità che fornisse un casus belli per dare inizio a una campagna bellica in Medio Oriente. In Afghanistan contro i talebani, che quantomeno avevano a che fare con l'accaduto. Ma poi anche in Iraq contro Saddam Hussein, che non aveva molto a che fare con il terrorismo, disponeva solo di armi di distruzione di massa obsolete e inutilizzabili, risalenti a quando faceva comodo come baluardo contro l'Iran (stiamo parlando ancora degli anni Ottanta) e ormai era stato messo in ginocchio dalla Prima Guerra del Golfo. Non va dimenticato che Bush Jr. stava programmando anche una guerra contro l'Iran, che nulla può avere a che vedere con al-Qaeda e i suoi derivati, per il semplice fatto che questi sono sunniti, mentre l'Iran è sciita. E sunniti e sciiti sono nemici tra loro, anche se islamici e a loro volta avversi a Israele.
La colpa degli americani è di non avere capito una regola molto importante della politica internazionale. In un paese in cui convivono diversi gruppi etnici o religiosi, tenuti sotto controllo a forza per decenni da una dittatura, nel momento in cui il dittatore muore o viene rimosso esplodono odi "tribali" impossibili da controllare. È accaduto nell'Ex-Jugoslavia dopo la morte di Tito. È stato miracolosamente evitato in Spagna, dove solo dopo quarant'anni i catalani cominciano a reclamare indipendenza (ed espansionismo su territori limitrofi) per ora mantenendosi tuttavia sul piano democratico. È accaduto in varie repubbliche dell'ex-URSS. Ma è accaduto soprattutto nell'Iraq dopo la Seconda Guerra del Golfo e in Libia dopo la  morte di Gheddafi.
Il nuovo governo iraqeno è prevalentemente sciita, proprio come il vecchio nemico, l'Iran. Così la futura ISIS, all'inizio un gruppo sunnita che si ricollega a quello chiamato per qualche tempo "al-Qaeda in Iraq" si presenta come tutore dei sunniti, anche se è portatore di una lettura intransigente della legge islamica, imposta con la violenza alla popolazione nei territori occupati.
Nel momento in cui la Primavera Araba arriva in Siria - sotto la dittatura di al-Assad, sciita, amico dell'Iran e di Hezbollah, partito armato sciita in Libano - si crea una ribellione che aspira alla democrazia. Ma al-Qaeda ha una filiale in Siria, Jabat al.Nusra, che cerca subito di entrare nel gioco. E nel contempo l'ex "al-Qaeda in Iraq", ancora formalmente (ma per poco) alleata di al-Qaeda, trabocca dall'Iraq in Siria dando vita all'ISIS (Stato islamico di Iraq e Siria) combattendo non solo contro al-Assad, ma anche contro i ribelli democratici, decimandoli, decapitandoli (anche in senso letterale) e occupando territori.
Da qui la nascita del sedicente Stato Islamico del califfo al-Baghdadi, leader dell'ISIS. E la situazione imbarazzante in cui si è trovato Obama. Dal momento che gli USA erano nemici dell'Iran e contrari alla dittatura di al-Assad, da che parte avrebbero dovuto intervenire gli Stati Uniti? Contro la dittatura, e quindi fianco a fianco di al-Qaeda e della nascente ISIS? O contro questi ultimi, a favore di una dittatura? Oltretutto, al-Assad è amico della Russia di Putin (a sua volta in buoni rapporti con l'Iran, a differenza degli Stati Uniti), motivo per cui probabilmente Obama si è accordato con Putin per dividersi le parti di sbirro cattivo (gli USA) e sbirro buono (la Russia) e convincere al-Assad a consegnare alla comunità internazionale le proprie armi chimiche perché fossero distrutte. In questo modo non poteva usarle lui e non potevano sottrargliele, come già avevano cominciato a fare, i gruppi jihadisti. La situazione critica ha portato poi a un necessario riavvicinamento tra Occidente e Iran, che non è piaciuto a Israele, ma era la cosa più saggia da fare nel corso del 2015.
Ora Obama viene spesso criticato per non essere intervenuto con maggiore decisione in Siria. D'altra parte gli americani e alcuni loro alleati sono ancora impegnati in Afghanistan e in Iraq. E sono sicuro che, se Obama facesse qualcosa di pìù che mandare droni a colpire bersagli selezionati, sarebbe accusato di essere un guerrafondaio e di massacrare bambini con il napalm come ai tempi della guerra in Vietnam.
Chi è intervenuto in Siria invece è Putin, che sa il fatto suo e ha due obiettivi precisi. Primo; combattere la guerriglia cecena alleata dell'ISIS (e viceversa). Secondo, sostenere l'alleato al-Assad combattendo l'ISIS e qualsiasi altra organizzazione ribelle (anche quelle anti-ISIS). Quindi Putin non è un sant'uomo, ma fa i propri interessi che, in qualche caso, possono coincidere con quelli dell'Occidente.
In tutto questo ci sono ulteriori complicazioni. I curdi, minoranza in tutti gli stati in cui rientra il territorio del Kurdistan, hanno creato zone indipendenti in Siria, spesso assediate dall'ISIS, come la città di Kobane, che ha offerto una resistenza eroica contro le truppe comandate da al-Shishani, che come dice il suo stesso nome di battaglia era in realtà ceceno. La Turchia, che non ama i curdi in generale e il partito armato curdo PKK in particolare, non ha fatto molto per aiutarli. E oltretutto civili curdi sono stati vittima di recenti e gravi attentati dell'ISIS in Turchia.
Ma non solo: dal momento che il cosiddetto Stato Islamico deve servire da "modello" per tutti i simpatizzanti, ecco che si è cominciato a parlare di ISIS anche in Libia, nel caos seguito alla fine del regime di Gheddafi. Un altro di quei casi in cui si stava meglio quando si stava peggio.
Mentre in Tunisia, uno dei paesi usciti meglio dalla Primavera Araba (non a caso alcune organizzazioni tunisine hanno appena ricevuto il Nobel per la Pace), l'ISIS è andata a colpire un museo e una spiaggia, due bersagli turistici molto visibili a livello internazionale.
E in Egitto ha messo una bomba su un aereo russo che partiva da una delle zone più tranquille, la meta turistica di Sharm el-Sheikh: non a caso ancora turismo e visibilità internazionale, con la sanguinosa ciliegina sulla torta di avere sterminato due centinaia di cittadini russi.
La notte scorsa, ancora Parigi. Come ho scritto in un mio libro pubblicato di recente, l'ISIS ha un complesso di inferiorità nei confronti di al-Qaeda e aspira ad avere un proprio Undici Settembre. Meno spettacolare, forse, ma intanto basta meno di una decina di kamikaze per fare centinaia di morti.
Ora in Europa si levano le consuete lamentele contro gli immigrati e, in particolare, i profughi. Che sono un problema quando sono tanti, ma non sono necessariamente terroristi. Specie quelli che stanno scappando dai terroristi e dalle loro leggi fondamentaliste.
In Francia, per esempio, dove c'è una vasta popolazione araba da molto prima che in Italia, i terroristi non sono immigrati, sono francesi di seconda o terza generazione. A volte sono emarginati con precedenti penali per spaccio di droga, falliti che in carcere incontrano un fanatico pronto a indottrinarli e a dare loro una ragione illusoria per vivere e per morire. Da questo punto di vista il traffico da tenere d'occhio alle frontiere, più che quello degli emigranti, è quello dei foreign fighters, cittadini europei che tornano dallo Yemen (dove si trova l'organizzazione "al-Qaeda nello Yemen") o dalle zone dell'ISIS tra Siria e Iraq (a cui si accede passando dalla Turchia) dopo l'addestramento. In Italia possiamo vantare persino jihadisti italiani purosangue, con tanto di marcato accento dialettale. Quindi diffidare dei profughi è solo un favore fatto all'ISIS, perché per loro chi fugge dal loro "paradiso" è un traditore e un nemico, al pari degli "ebrei e dei crociati", che saremmo noi occidentali.
Tutto questo non è Islam, non ha nulla a che fare con una cultura arabo-mediterranea, a volte anche laica, di cui l'Occidente è figlio e debitore. Dopotutto sono i numeri arabi quelli che usiamo per fare i conti, non i numeri romani, che sono decisamente più scomodi. Purtroppo i conti, delle vittime e del denaro, li fa anche chi ha interessi economici e di potere su tutto ciò che avviene in Medio Oriente e non solo: mercanti di armi e droga, strateghi che guadagnano tasse e potere dai territori occupati e che hanno bisogno di mantenere uno stato di guerra ininterrotto per conservare le une e l'altro. Ma evitiamo il complottismo da Internet, al pari di qualsiasi altra forma di fanatismo. (Andrea Carlo Cappi)

lunes, 9 de noviembre de 2015

Collana M al KeBabbo



Messaggio promozionale di Andrea Carlo Cappi


Le presentazioni insolite per me sono la normalità ma quella di martedì 10 novembre 2015 alle ore 21.30 a Milano è in una sede particolarmente insolita, anche se collaudata un paio di settimane prima. L'ambientazione è il KeBabbo, che occupa i locali dell'ex Torchietto in via Ascanio Sforza 47, E qui Fabio, già presenza fondamentale nel Torchietto, ha inventato un fast-food greco-siculo in cui il kebab (anche in versione vegetariana) è protagonista, anche se non personaggio unico. A cui, in un gustoso mélange mediterraneo si uniscano vini siciliani e introvabili liquori greci.
È in questa sede che ho deciso di tenere la prima presentazione collettiva dei tre volumi usciti sinora dalla Collana M di Cordero Editore, in cui rinasce il marchio che avevo ideato nel 2000 per la mia rivista chiamata M-Rivista del Mistero, il cui logo riprendeva lo storico manifesto del film M-Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang.
Sono stato io stesso a collaudare la collana con la riedizione di Medina-Milano da morire, già pubblicato da Edizioni Addictions nel 2003 e contenente quattro storie con Carlo Medina apparse in vari momenti negli speciali de Il Giallo Mondadori e Segretissimo. Ha fatto seguito un'altra raccolta di racconti, Le avventure di Mister Noir di Sergio Rilletti, il cui detective aveva visto la luce nel 2004 proprio sulle pagine di M.Rivista del Mistero. E il terzo volume, anch'esso una raccolta di racconti, è Il Re dei Topi di Cristiana Astori, libro già di un certo successo nel 2006, che ha aperto la luminosa carriera dell'autrice.
I tre titoli sono reperibili in volume su www.ibs.it e su alcune delle principali librerie online, e possono essere ordinati dalle librerie contattando direttamente Cordero Editore. Il mio dovrebbe apparire prossimamente anche in ebook, quello di Rilletti è già disponibile in versione kindle su Amazon.it, mentre quello della Astoria è in vendita sia in versione kindle su Amazon.it, sia in versione epub su www.ibs,it. E, naturalmente, sono in vendita alla serata del 1 novembre, per la quale propongo un piccolo gioco. Trovate i tre libri nascosti (ma non troppo) ne La colazione sull'erba di Manet all'apertura di questo articolo; chi per primo alle 21.30 di martedì 10 novembre si presenterà a dirmi dove si trova esattamente ciascuno dei tre libri ne avrà uno in omaggio, a scelta tra Medina- Milano da morire e Il Re dei Topi.

Collana M al KeBabbo, martedì 10 novembre, ore 21.30
Milano, KeBabbo via Cardinale Ascanio Sforza 47
(sul Naviglio Pavese, vicino a via Pavia)