viernes, 29 de mayo de 2015

Quelli dell'Aprilia nera



Una storia vera raccontata da Andrea Carlo Cappi

La banda di Barbieri era attrezzata,
faceva le rapine a mano armata.
E sette e sette e sette fanno ventuno,
arriva la Volante e non c’è nessuno.
(Anonimo)

Il sangue versato nella Seconda guerra mondiale è ancora caldo quando Bezzi e Barbieri decidono di non deporre il mitra e scatenano una vera e propria offensiva criminale sul territorio dell'hinterland milanese. Accade settant'anni fa, tra il 1945 e il 1946, quando l'Italia è appena uscita dal conflitto che l'ha attraversata lentamente da sud verso nord. Bombardamenti e rastrellamenti hanno insegnato agli italiani cosa volesse dire sfidare le grandi potenze mondiali. Una grande città come Milano, ultimo baluardo del regime fascista, ha pagato un alto prezzo di morte e distruzione, e ha visto monumenti quali il Teatro alla Scala crollare sotto le bombe degli alleati.
La Resistenza ha insegnato come ogni uomo sia libero di opporre le proprie ragioni contro la dittatura a colpi di fucile. Mentre molti fascisti cercano di riciclarsi come partigiani dell'ultima ora, qualche ragazzo dotato di spirito d'avventura scopre che la lotta armata può essere anche la via più breve alla ricchezza. È il caso di Ezio Barbieri e di Sandro Bezzi, che insieme daranno vita a una delle più attive bande di malavitosi dell'immediato dopoguerra, diventando a loro modo due divi del gangsterismo, sul modello degli "eroi" del cinema americano.
Questa, per quanto sia possibile distinguere la realtà dal mito, è la loro storia.

Le macerie di Milano, 1943

In un Nord Italia in cui le patate sono diventate un bene primario e il pane bianco è una preziosa rarità, il giovane Ezio Barbieri apprende molto presto quali siano le strade più facili per raggiungere il benessere e dà inizio alla sua carriera ai margini della legalità.
Ezio è nato nel 1922 a Milano, quartiere Isola, da una famiglia che gestisce un banco di mescita. Ha cominciato a lavorare all'età di quattordici anni in una tintoria, passando in seguito a un negozio di barbiere e, raggiungendo il vertice delle possibili aspirazioni familiari, diventando impiegato comunale. È possibile che la sua deviazione dalla retta via sia dovuta (come sosterrà la sua difesa) a un trauma cranico per una brutta caduta mentre cercava di prendere al volo un tram. Ma trauma o non trauma, Ezio si accorge subito che ci sono modi meno faticosi del lavoro per guadagnare. Solo la sua inesperienza lo porta, nel maggio 1942, a una condanna per furto di bicicletta. Non arriva a scontare gli otto mesi di reclusione nel carcere di Alessandria: il ventenne Ezio Barbieri esce di prigione a breve termine per compiere il servizio militare.
Ma la storia segue percorsi diversi e Barbieri comincia a dedicarsi alla più redditizia borsa nera. Quando gli ingredienti più normali della cucina italiana, dal burro al parmigiano, diventano per il consumatore medio irraggiungibili oggetti del desiderio, perché non approfittare della situazione? In fondo non si tratta che di procurare alla gente quello che desidera e che, a causa della guerra, non è più possibile trovare.
Così Ezio, malgrado la madre lo sconsigli, si dà al mercato nero e, già che c'è, al contrabbando di sigarette provenienti dalla Svizzera. Il limite tra giustizia e illegalità è molto difficile da definire, quando la legge è stabilita da un regime che sta conducendo l'Italia all'autodistruzione. Ciò spiega perché nel 1944, disturbato nelle sue attività, Barbieri non abbia difficoltà a estrarre una pistola e a sparare a un milite della "Ettore Muti", la squadra che svolge compiti di polizia a Milano dopo l’otto settembre, intitolata all’eroe di guerra ed ex-segretario del Partito Nazionale Fascista morto nell’agosto 1943; lo squadrista resta steso su un marciapiede ferito al mento. La distinzione tra interesse personale e Resistenza in casi del genere è impercettibile, anche se i partigiani sconfesseranno sempre i rapporti che Barbieri affermerà di avere avuto con loro.

Milano, viale Monza, 1944

Sandro Bezzi, invece, comincia a farsi largo nella vita a suon di pugni. Suo padre lavora all'Alfa Romeo, ma Sandro, anziché imparare il mestiere di famiglia, preferisce tentare la carriera di pugile professionista. Così, dopo alcuni corsi serali, di giorno Bezzi fa il meccanico all'Isotta Fraschini e di notte diviene noto come "pugno proibito" sui ring allestiti più o meno di straforo. A Bezzi la guerra non fa molti favori: nel 1942 si sposa con una bella ragazza di nome Carmen, ma viene richiamato in Marina, a la Spezia. Il riluttante marinaio Bezzi diserta, col risultato di essere catturato e consegnato al forte di Varignano, per essere quindi detenuto nel carcere di Pizzighettone e, dopo l'otto settembre 1943, deportato in un campo di lavoro in Germania.
Al suo ritorno, Sandro Bezzi scopre che la moglie se n’è andata. La sconfitta personale alimenta il suo desiderio di rivalsa contro la società e il destino fa il resto, quando nella primavera del 1945, in una balera milanese ha luogo il fatale incontro con Ezio Barbieri.

Milano, 1945 (fotografia di Federico Patellani)

Nell'Italia dell'immediato dopoguerra la voglia di vivere è incontenibile. Finalmente liberi dalle frustrazioni del regime, dalle ristrettezze della guerra e dal terrore dei bombardamenti, gli italiani dell'epoca della ricostruzione sono pronti a dimenticare il passato e ad abbandonarsi al piacere della libertà. Una libertà che spesso ha il ritmo del boogie-woogie, appena giunto dall'America e ballato selvaggiamente in balere improvvisate nei cortili delle case semidistrutte dalle bombe.
Uomini come Bezzi e Barbieri, educati dal fascismo al culto della virilità e delle armi, non hanno mai condiviso l'ideologia ma hanno imparato a sparare. E per loro, che non hanno veramente combattuto nella Resistenza, l'euforia della Liberazione si esprime nel girare armati su un'auto veloce. Le armi, del resto, non mancano, abbandonate per tutto il Nord Italia dai tedeschi in fuga.
Bezzi e Barbieri si divertono a rubare auto, spesso con il proprietario a bordo, spianando le loro Walther P38, per correre follemente nella notte. Ma il furto di macchine per il gusto dell'avventura e della corsa sfrenata lascia subito spazio a una vera e propria industria criminale. Molto presto proprio un'automobile diviene il loro simbolo: una Lancia Aprilia nera, in agguato nella notte lungo le strade buie.
Bezzi e Barbieri, armati e mascherati, bloccano qualsiasi veicolo di passaggio e si appropriano di tutto. I bersagli preferiti sono i borsaneristi e le loro macchine cariche di viveri. I beni vengono rivenduti e le automobili, private delle ruote e dei pezzi di ricambio, vengono abbandonate ormai inservibili lungo la strada.
A lungo andare, i due dell'Aprilia nera entrano nella leggenda. Non passa notte senza un loro colpo, o senza un colpo analogo realizzato dai loro numerosi ammiratori e imitatori. Ma, anche quando non ne sono loro gli autori, Bezzi e Barbieri lasciano credere di esserlo, solo per il piacere di vedere esaltato il mito della loro imprendibilità.
Da questo punto di vista c'è una sostanziale differenza tra i due personaggi. Sandro Bezzi è il più freddo e calcolatore, ama la sfida ma detesta correre rischi inutili ed evitabili. Ezio Barbieri, al contrario, non perde occasione per mettersi in mostra: si fa crescere un pizzetto alla D'Artagnan e si presenta come "il moschettiere del mitra". Gira per le balere con le armi da fuoco sotto l'impermeabile, infischiandosene della possibilità di esere identificato dalla polizia.
Grazie al proprio tenore di vita a alla passione per donne e champagne, riesce a essere costantemente senza un soldo, ma quello che per lui conta di più è il successo con il sesso femminile. Il bandito bello e inafferrabile colleziona un notevole numero di amanti, compresa la figlia di un industriale in cerca di avventure e di emozioni. Essere la donna di Barbieri, del resto, significa potersi permettere pellicce e gioielli in abbondanza, privilegi che in quel periodo poche italiane potevano concedersi.

Milano, corso Buenos Aires, 1945  (fotografia di Luigi Ferrario)

Nell'ottobre del 1945 i due criminali mettono su casa: scelgono due appartamenti nello stesso edificio in via Clefi, a Porta Magenta, e ci vanno a vivere con le loro compagne del momento: Bezzi con Maria, Barbieri con Ernestina, da cui avrà un figlio battezzato Vittorio. Gli inquilini del palazzo evidentemente non fanno molto caso ai due individui che di notte, mentre gli altri vanno a dormire, escono col mitra per andare a lavorare a tornano a casa nelle prime ore del mattino per festeggiare e dividere il malloppo. Ormai Bezzi e Barbieri non lavorano più da soli, ma possono contare su un certo numero di complici reclutati nella mala milanese – la Ligera – tra cui un certo Cordara, che si fa crescere un pizzetto da moschettiere sul modello di quello del suo capo.
La base operativa molto spesso è un locale notturno, il tipo di ambiente frequentato da strani personaggi come il "conte Mino". Questi si chiama in realtà Giacomo Regonini, ex appartenente alla X MAS – il corpo di volontari della RSI fascista – e sedicente nobile. Il conte Mino, che ama la bella vita e la cocaina, non ha la tempra dei due criminali e non partecipa personalmente ai colpi, ma si limita a dare una mano per piazzare la merce rubata. Tuttavia per Barbieri il falso conte, con le sue arie da viveur, appare un ottimo modello per interpretare il ruolo di bandito gentiluomo. Fargli conoscere l'indirizzo del covo di via Clefi si rivela un grave errore, uno sbaglio che Bezzi non perdonerà mai al suo socio.
La sera del 2 novembre 1945, in un appartamento in corso XXII Marzo, il commissario Giancarlo Mancini arresta il conte Mino. Mancini, che comanda la squadra G, efficiente gruppo composto da ex partigiani, vede subito nel Regonini la via per arrivare ai pericoli pubblici numero uno. Interrogato in Questura, l'uomo rivela l'indirizzo di Bezzi e Barbieri, permettendo alla polizia di preparare una trappola.
Verso mezzanotte Mancini, con un gruppo di agenti al comando del commissario Betrone, penetra nell'edificio di via Clefi e si apposta davanti all'appartamento in cui si trovano i due criminali con le loro donne. Il conte Mino fa da esca: mentre l'agente Luciano Riva suona il campanello, chiama Ezio Barbieri, invitandolo ad aprirgli. Non è Barbieri ad andare alla porta, ma una delle due donne, che fa a tempo a intravedere gli agenti e a dare l'allarme. I due sono pronti all'azione.
L'agente Mario Orlandini cerca di entrare, ma Barbieri lo accoglie con due colpi di pistola, lasciandolo a terra ferito. Mancini e Betrone rispondono al fuoco, mentre Bezzi lancia nella loro direzione una bomba a mano, che esplode sulle scale. I due criminali ne approfittano per darsi alla fuga. Uscendo dalla finestra, in canottiera nella fredda notte milanese, saltano sul tetto di un garage sottostante. Ma la fuga non dura a lungo: accerchiati da forze preponderanti, i due, feriti e infreddoliti, sono costretti alla resa. Barbieri, nel salto, ha subito una lesione alla spina dorsale. Vengono condotti in Questura e, da qui, al carcere di San Vittore, ma assicurano ai poliziotti che non resteranno "dentro" a lungo. Manterranno la parola.

Il carcere di San Vittore, 1946

In un carcere sovraffollato, come del resto quelli di tutta Italia, detenuti inquieti si trovano di fronte guardie di custodia dal grilletto facile. La tensione spesso esplode in feroci tumulti, una situazione difficile da controllare. Chi ne approfitta è un gruppo di carcerati che, dopo l'ennesima sommossa, organizza la propria fuga. Il cinque gennaio del 1946 viene messa in atto l'evasione e tra i fuggiaschi non può mancare la coppia Bezzi e Barbieri.
La fuga è tuttavia l'ultimo atto del loro sodalizio: al momento di scalare il muro di cinta, Bezzi rifiuta di aiutare il socio, in difficoltà a causa della lesione alla schiena. Considerandolo responsabile del loro arresto, Bezzi è fortemente tentato di lasciarlo cadere in mano agli agenti di custodia. Ciò non avviene, ma l'episodio è più che sufficiente a motivare la separazione tra i due. Barbieri si rifugia in una casa sicura, dove resta a letto per diversi giorni, mentre Bezzi se ne va per la propria strada.
La suddivisione del territorio è semplice. Bezzi opera nel centro di Milano, Barbieri lavora nell'hinterland e in provincia. A pochi giorni dall'evasione, mentre il commissario Mancini si dimette considerando l'episodio come una sconfitta personale, Barbieri è di nuovo in attività, con un'automobile su cui, al posto della targa, ha collocato un pezzo di cartone con le cifre 777, il numero telefonico della polizia; nella leggenda la macchina diventa un’Aprilia nera con una vera targa MI 777, circostanza celebrata anche in una strofa apocrifa della canzone popolare Porta Romana bella. Il campo d'azione di Barbieri si estende al Piemonte, dove lo segue una nuova compagna, Fulvia.
A Novara è identificato e catturato, ma gli basta chiedere il permesso di andare in bagno per dileguarsi dalla finestra. La polizia decide allora di organizzare una trappola: riportata Fulvia a Milano, nel suo appartamento in via Cibrario, la sottopone a una sorveglianza ininterrotta con una squadra di agenti in borghese, contando di prendere in trappola il bandito col pizzetto. Non è così. Barbieri riesce a eludere ogni notte la sorveglianza per fare visita alla propria amante, arrivando poi a portarla via sotto il naso degli agenti. Quando una mattina i poliziotti non la vedono uscire di casa, scoprono che l'appartamento è vuoto e che Barbieri è riuscito a beffarli un'altra volta.
L'ultima.

La fine di Sandro Bezzi

Nel frattempo Bezzi ha messo su una banda in proprio e tiene le sue riunioni a casa di Foletti, suo complice, in via Morandi 13, zona Greco. Si racconta che a incastrarlo siano state le interferenze fra il suo telefono, numero 284922, e quello funzionante in duplex, 284822, della fidanzata di un poliziotto, residente nello stesso palazzo. Quello che è certo è che il poliziotto, di nome Carmelo Arcovito, riconosciuto Sandro Bezzi incontrandolo sulle scale, ottiene l'autorizzazione a intercettarne le telefonate. In breve tempo viene preparata una trappola, a opera dello stesso Arcovito e del collega La Noce.
Il 25 febbraio viene visto entrare in via Morandi 13 un individuo col pizzetto. Scambiato inizialmente per "D'Artagnan" Barbieri, è invece il suo ammiratore e allievo "Aramis" Cordara, ora al servizio di Bezzi. Poco dopo giungono in taxi Bezzi e la sua donna, mentre gli agenti si dispongono intorno all'edificio. Due poliziotti si appostano su un vicino ponte della ferrovia, da dove possono controllare una delle principali vie di fuga. Ma niente accade fino al mattino seguente.
Bezzi esce alle undici e un quarto, armato di pistole e bombe a mano e scortato da Cordara e da un altro malvivente. Accortosi della presenza dei poliziotti, comincia a correre, inseguito dalle raffiche dei mitra. Ferito, prende una bomba a mano e la lancia verso i poliziotti, ferendo anche una passante. Rubata al volo una bicicletta, Bezzi riprende la fuga, ma imbocca la strada verso la ferrovia. Gli agenti appostati aprono il fuoco e Sandro Bezzi resta sull'asfalto. Il proprietario della bicicletta recupera il proprio mezzo di trasporto, mentre la folla si raccoglie per vedere il corpo del famoso bandito, morto.

L'arresto di Ezio Barbieri

Lo stesso giorno, il 26 febbraio, una telefonata anonima segnala alla polizia che Ezio Barbieri si trova alla Cascina Torrazza di Pero, vicino a Milano, in compagnia di Fulvia. Gli agenti accorrono e circondano la trattoria in cui il bandito sta mangiando con la fidanzata. Questa volta Barbieri ha lasciato il mitra in macchina e, disarmato, tenta la fuga insieme a tre complici. Una raffica lo ferisce al braccio destro, lasciandolo sanguinante e senza forze, facile preda per i poliziotti.
Trasportato alla Questura di Milano, in via Fatebenefratelli, Barbieri tenta di convincere gli agenti che si tratti di un errore: non sarebbe Ezio Barbieri, bensì tale Carlo Pirovano, vittima di un equivoco. Ma il suo viso è troppo noto perché qualcuno gli possa credere.
Trasferito al carcere di San Vittore, Barbieri riesce ancora a far parlare di sé quando scoppia la sanguinosa rivolta nella prigione milanese, che qualcuno riterrà addirittura capitanata da lui.

L'agente di custodia Salvatore Rap

La tensione, in quei giorni, è molto elevata. I tentativi di evasione si moltiplicano, mentre i detenuti, forse facendo affari con qualche secondino, riescono a impadronirsi di un certo numero di armi. La mattina di Pasqua, 21 aprile 1946, trascorre tranquilla, ma nel pomeriggio scoppia la rivolta. Gli agenti di custodia vengono sopraffatti, le loro armi sequestrate. I detenuti si scatenano e cominciano a correre in direzione dell'uscita, ma vengono fermati da un agente di custodia ventiduenne, Salvatore Rap, che, benché ferito gravemente, armato di mitragliatrice riesce da solo a frenare l'assalto; morirà tre giorni dopo e lo ricorderà una targa sul muro vicino all’ingresso del carcere. Nel frattempo sopraggiunge un autoblindo dei carabinieri, che apre il fuoco sui rivoltosi, impedendone la fuga.
È l'assedio.

La rivolta di San Vittore

Gli ostaggi sono praticamente crocifissi alle finestre e ogni tanto le sparatorie tra detenuti e forze del'ordine inondano la zona circostante di proiettili vaganti. I passanti nel parco Solari, memori del tempo di guerra, si gettano nell'erba quando sentono fischiare le pallottole sopra le loro teste.
Una parte del carcere è in fiamme e, mentre intervengono i carri armati, i pompieri cercano di azionare gli idranti. Lo scenario è apocalittico. Qualsiasi tentativo di parlamentare riceve, per bocca del leader carismatico Barbieri, risposta negativa. Interviene anche l'arcivescovo, cardinale Schuster. Qualcuno vede l'episodio come una rivolta di matrice fascista, forse perché tra i detenuti più esagitati ci sono personaggi come il conte Mino, dal passato politicamente sospetto, e l’ex gerarca Caradonna.



La battaglia della "Pasqua di sangue" si conclude a colpi di cannone il 24 aprile 1946, quasi a un anno esatto dalla Liberazione, con quattro morti tra i detenuti e molti feriti tra le forze dell'ordine. Il conte Mino e Barbieri sono trasferiti a Bergamo e di loro nessuno sentrirà più parlare nella cronaca nera, dopo la sentenza che li condanna rispettivamente a trenta e ventiquattro anni di reclusione per la rivolta.



Trasferito nel manicomio criminale di Barcellona, in Sicilia, il bandito col pizzetto si redime, diventa infermiere e si sposa, nel 1968, con Maria Soresina, una sua "ammiratrice" che comincia a scrivergli in carcere. Ottiene la libertà condizionata nel 1971 e si stabilisce in Sicilia, molto lontano dai quartieri della vecchia Milano in cui trent'anni prima ha avuto inizio la sua romantica avventura di fuorilegge. Nel 2013, novantunenne, pubblica dall’editore Milieu l’autobiografia Il bandito dell’Isola, scritta con Nicola Erba.





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