sábado, 31 de octubre de 2015

Le corrispondenze mediterranee di Ilaria Guidantoni

Ilaria Guidantoni

Recensione di Andrea Carlo Cappi

Visto che proprio oggi è la vigilia di Ognissanti, comincio da una piccola curiosità. In quale paese, in prossimità del Giorno dei Morti, i bambini vanno di casa in casa a chiedere dolcetti? A tutti verranno in mente Halloween e l'usanza americana di "dolcetto o scherzetto" e qualcuno comincerà a protestare, dicendo che stiamo diventando una colonia degli Stati Uniti. E invece si tratta di un'antica tradizione tunisina. Gli americani, come spesso accade, non hanno inventato niente.
Questa è solo una delle mille sorprese che emergono da Corrispondenze mediterranee di Ilaria Guidantoni (Oltre Edizioni, 231 pagine, 14 euro), un libro a metà tra fiction e non-fiction. La parte narrativa vede la protagonista Eloïse, giovane donna di Lione, abbandonare la sua città, il suo lavoro, la sua vita "precedente" e partire alla volta di Marsiglia, città evocata dalla lettura di un romanzo di Jean Claude Izzo. Dal porto francese, di solito un punto di arrivo, Eloïse sente il richiamo dell'altra sponda del Mediterraneo e parte per Algeri, in una sorta di "migrazione negativa" (come l'ha definita Andrea G. Pinketts in una presentazione) ossia nella direzione opposta a quella seguita dai più. Sbarcata in Algeria, la protagonista comincia un'odissea che la porta in Marocco e infine in Tunisia. E proprio qui Eloïse incontra Filippo a cui racconta la storia dei suoi viaggi e dei suoi incontri. I dialoghi con l'interlocutore italiano rimandano ai dialoghi con le persone che lei ha conosciuto, alcune realmente esistenti, altre costruite dall'autrice mescolando figure reali, episodi e documentazione.
Ciò che emerge dal libro non è soltanto un pellegrinaggio nei luoghi che hanno dato i natali a Camus e affascinato Flaubert o Klee, né soltanto un viaggio alla ricerca delle radici mediterranee del mondo in cui viviamo. E nemmeno solo un percorso tra visioni, sapori, profumi del Nordafrica, per quanto anche questa sia una componente fondamentale. È, soprattutto, un ribaltamento completo della prospettiva, un lavoro sul passato e sul presente, un recupero di memorie dimenticate e di verità trascurate.
Così il lettore scopre i trascorsi di torturatore in Algeria di una figura della recente politica francese e osserva apparenti paradossi geografici che ci ricordano come terre che pensiamo lontane siano più vicine di quanto immaginiamo: in viaggio a duecento chilometri da Tunisi con il serbatoio del'auto in rosso, il navigatore segnala il distributore più vicino a Pantelleria. E, in un'epoca di Primavera Araba, di barconi degli emigranti, di attentati firmati ISIS e di premio Nobel per la pace alle organizzazioni tunisine, ci rendiamo conto dell'osmosi che è sempre esistita tra le sponde nord e sud del Mediterraneo, in ambedue le direzioni. Apprendiamo come i nostri fascismo e antifascismo si siano confrontati anche a Tunisi. Scopriamo la nostra emigrazione, soprattutto siciliana, nel nord della Tunisia a partire dal XIX secolo e le contaminazioni tra le due culture; il mancato protettorato italiano sul quel paese, poi finito sotto il controllo della Francia, e i nostri connazionali visti come intrusi che andavano a rubare il lavoro agli autoctoni... un discorso che oggi sentiamo spesso, rovesciato, dalle nostre parti. Vediamo quante corrispondenze ci siano con un mondo che, nella nostra disinformazione, ci ostiniamo a ritenere alieno.




La presentazione con Andrea Carlo Cappi e Andrea G. Pinketts al Balubà

viernes, 30 de octubre de 2015

Danse Macabre - Arrivederci Rhona

Rhona (Délice La Rouge in una foto di A.C.Cappi)

Racconto di Andrea Carlo Cappi
Sconsigliato ai minori di 18 anni

In Italia, intorno al 1960...

Riaprì gli occhi nel momento in cui due mani l’afferrarono sotto le ascelle. Le immagini davanti ai suoi occhi erano appannate, la luce quella delle prime ore del mattino: non più notte, ma non ancora l'alba. Una luce che conosceva bene, dato che più volte era rientrata a casa poco prima che facesse giorno.
Il profumo di campagna a primavera la riportò a ricordi molto lontani, quando era una ingenua camerierina a servizio presso una famiglia di commercianti londinesi, nella loro casa nell’Essex. Memorie del tempo di prima.
Udì chiudere con forza le portiere di un’auto che non riuscì a mettere a fuoco. Distingueva solo una macchia blu scuro. Così come non riusciva a vedere in faccia il volto dell'uomo vicino alla macchina, solo la cravatta che risaltava sul bianco della camicia. Si sentiva fastidiosamente inerme. Non era da lei trovarsi in una situazione di cui non poteva avere il controllo.
Si accorse di avere perso una scarpa perché avvertiva la ghiaia scorrerle sotto il piede destro, inguainato da una calza che presto si sarebbe lacerata sui sassolini duri e freddi. Dopo qualche secondo comprese la ragione della nebbia che le avvolgeva il cervello: un dolore intenso alla testa.
«È ancora viva?» chiese una voce maschile dietro di lei, quella dell’uomo che la stava trascinando.
«Sì, ha aperto gli occhi», disse la sagoma con la cravatta. Ma la voce era quella di una donna. «Abbiamo rischiato grosso. L'hai colpita così forte che potevi ammazzarla.»
A quel punto Rhona, trascinata lungo il vialetto di ghiaia, si rese conto che non stava né dormendo né sognando, anche se le sue percezioni somigliavano a quelle del sonno. Era stata sequestrata. Ma si sentiva così stanca e tenere gli occhi aperti era così faticoso che ben presto cedette: la palpebre si chiusero e le voci sparirono sempre più lontane.

Si chiama Rhona Stirling, ma al Forziere d'oro, il locale notturno in cui lavora, tutti la conoscono semplicemente come Rhona. Suona esotico, anche se è semplicemente un nome scozzese.
Dimostra diciotto-vent’anni, in realtà ne ha di più. Il suo numero è definito striptease, anche se in scena lei non si spoglia completamente. Roma è pur sempre la città del papa e della Democrazia Cristiana, e aleggia ancora l’eco dello scandalo dello spogliarello improvvisato da una ballerina mediorientale durante una festa di qualche tempo prima, conclusasi con l'irruzione della Polizia.
Né il proprietario del Forziere d’oro né Rhona vogliono correre rischi. Alla fine del suo numero i riflettori si spengono di colpo, lasciandola intravedere solo per una frazione di secondo con indosso un paio di culotte e i puntini che coprono i capezzoli. Del resto lei non ha bisogno di spogliarsi completamente per eccitare il suo pubblico.
Le viene naturale.
Alla fine di ogni serata, potrebbe facilmente scegliere un uomo o una donna a caso tra il pubblico e concludere la nottata con lui o con lei. Dopo avere assistito al suo spettacolo, nessuno saprebbe dirle di no. Ma Rhona sa che è meglio tenere ben separato il lavoro da tutto il resto.
È a Roma da un po', dai primi momenti di quella che ora viene chiamata La dolce vita. Ha preso in affitto un appartamento in un buio e piovoso pomeriggio d’inverno ed esce di casa solo la sera. Rientra poco prima dell’alba e passa il resto del giorno a dormire. Ha una sera libera alla settimana, il mercoledì, anche se il locale è aperto e qualcuna delle colleghe ammette, con invidia, che c’è meno pubblico quando non è in scena lei. Tuttavia Rhona non dà motivo alle altre ragazze di essere gelose. Alcune sperano che una sera tra gli spettatori ci sia un attore di Hollywood, un produttore romano oppure un industriale milanese che si innamori di loro, in modo da cambiare vita.
Rhona lascia il campo libero alle colleghe. La sua vita è questa, non potrebbe mai fare la brava moglie che sta in casa a pensare al bucato, alla cucina e ai bambini. Non potrebbe nemmeno se volesse.
Tuttavia osserva sempre il pubblico, prima di andare in camerino a indossare guépiere, guanti, cappello e impermeabile, gli indumenti che si sfilerà muovendo sensuale il proprio corpo e scuotendo i lunghi capelli di un rosso fiammeggiante. Guarda sempre chi c’è in sala, perché non si sa mai. Anche se da tempo continua a cambiare città, esiste sempre il rischio di incontrare qualcuno che faccia parte del suo passato.
Questa sera Rhona ha notato – non per la prima volta – due persone che non fanno molto per passare inosservate. Una, soprattutto: una donna in abiti maschili, androgina nel viso quanto nel taglio di capelli, accompagnata da un uomo vestito e pettinato allo stesso modo. Compaiono di tanto in tanto, insieme a un gruppo di uomini e donne intercambiabili, ma tutti altrettanto eleganti. Romani, ricchi, forse discendenti da qualche famiglia nobile. Potrebbero essere sui quarant’anni, hanno un certo fascino e l’aria comodamente maledetta di chi non si è mai dovuto preoccupare troppo di mettere insieme il pranzo con la cena. Sotto certi aspetti, loro e Rhona hanno qualcosa in comune. Una ragione di più per tenersene alla larga.
Ma loro non la pensano alla stesso modo.
Rhona non li sente arrivare quando esce dalla porta di servizio del Forziere d'oro. L’uomo esce dall'ombra e la colpisce con forza alla testa, facendole perdere i sensi.
Arrivederci, Rhona.

Riaprì gli occhi e si accorse di essere in piedi.
C’era poca luce, solo una lampadina nuda appesa vicino a una breve rampa di scale. Ma era abbastanza per distinguere un soffitto a volta che poteva risalire ai tempi dell’Antica Roma, Si sarebbe detta una catacomba riadattata a cantina, con tubi al neon – ora spenti – qua e là. Nell’aria non c’era più profumo di primavera, ma tanfo di putrefazione, puzza di feci e urina.
Non era una cantina, ma una segreta.
Rhona sentì attraverso le calze il pavimento di pietra: aveva perso anche l’altra scarpa e la vedeva – nera, lucida, con il tacco alto – a terra un paio di metri più in là. Aveva le braccia spalancate a forza e i palmi delle mani premuti su una tavola di legno. La tavola era leggermente inclinata all’indietro, probabilmente con il lato superiore appoggiato a una parete. Poco al di sopra di ciascun polso, un lungo chiodo trapassava il braccio, infiggendosi nel legno.
L’avevano praticamente crocifissa.
Quando se ne rese conto, Rhona si lasciò sfuggire un gemito.
«Sei sveglia?» disse una voce femminile. Aveva parlato in italiano, ma con un accento curioso.
Rhona si voltò verso destra. Una giovane donna dai lunghi capelli bruni e ricci si trovava crocifissa a un’altra tavola, a un metro di distanza. Dalle ferite dei chiodi erano colate strisce di sangue, ora coagulato, che scendevano fino a una pozza secca sul pavimento. Rhona occhieggiò i propri chiodi: le ferite si erano richiuse molto rapidamente. Sembrava quasi che il suo corpo avesse assorbito il metallo e si fosse ricostruito intorno a esso. Un pensiero che le procurò ripugnanza.
«Sì», replicò Rhona, nella stessa lingua, con il suo accento britannico. «Da quanto sono qui?»
«Dalla scorsa notte. O forse stamattina. Insomma, da molte ore. Qua sotto non è facile capirlo.»
Bene, si disse Rhona. Temeva di avere dormito per secoli. «Dove siamo?»
«Nella villa di campagna degli Amidei. Armando e Regina Amidei, si chiamano così. Li ho visti spesso dove lavoro.»
Rhona stava cominciando a riacquisire la propria lucidità. L’intervallo di sonno, nonostante la crocifissione, le aveva permesso di riprendersi. La testa non le faceva più male. Aveva perso sangue e si sentiva debole, ma almeno era in grado di pensare. «Amidei... Marito e moglie?» chiese.
«Cugini. E amanti. E pazzi.»
Rhona chinò la testa e si guardò. Le avevano sfilato la gonna e la giacca, e aperto la camicetta, ma gli indumenti intimi erano ancora al loro posto. E non aveva la sensazione che avessero abusato di lei.
Si voltò a osservare l’altra prigioniera. La ragazza bruna indossava uno spolverino ormai lacero, aperto sopra una specie di bikini pieno di strasse. Aveva l’aria molto provata, forse non mangiava da giorni. Tremava, di paura o di freddo. In effetti non faceva molto caldo, là dentro, anche se a Rhona non dava fastidio; era solo una sensazione come tante. «Danza del ventre?» tirò a indovinare.
La ragazza annuì e quel movimento sembrò procurarle dolore. «Al Pascià», rispose. «Fino a quando tre notti fa questi due mostri mi hanno portata via. .Mi chiamo Parvin.»
«Io sono Rhona, lavoro al Forziere d'oro. Che cosa vogliono da noi?»
«Guardarci morire. Come lei.»
Rhona seguì la direzione degli occhi della bruna. Alla loro sinistra, crocifissa allo stesso modo, c'era un’altra ragazza. Morta. Era da lei che arrivava il tanfo di putrefazione. Era stata bionda ed era ancora completamente vestita, con maglione e pantaloni neri, a parte ampi squarci di arma da taglio che mettevano a nudo la pelle un tempo bianca e ora violata da orrende ferite dalle labbra secche. Il corpo gravava inerte sui chiodi, la testa era reclinata in avanti.
«Quando è morta?» chiese Rhona.
«Ieri. Era qui da prima di me. Non so come si chiamasse, quando sono arrivata non era più in grado di parlare. L’avevano già torturata. Poi sono tornati e sono andati avanti, costringendomi a guardare.»
Dal fisico la bionda poteva essere anche lei una ballerina, valutò Rhona. Può averla uccisa lo shock, oppure le ferite o un’infezione. A questa gente non importa molto delle condizioni delle loro prigioniere. Quando una muore, ne prendono un’altra, senza nemmeno troppa urgenza di liberarsi del cadavere della precedente.
«Loro spariscono durante il giorno e tornano di notte» riprese Parvin. «Forse sono vampiri», azzardò.
In altre circostanze, ci sarebbe stato da sorridere. Anche la danzatrice del ventre doveva avere visto quel film con Christopher Lee; pensavano tutti che fosse quella la storia di Dracula. Rhona invece sapeva com’era andata sul serio. Aveva persino conosciuto di persona l'autore del romanzo.
«Li hai visti bere il sangue della vittima?» chiese.
«No.»
«Allora non sono vampiri», concluse Rhona. Non che la situazione migliori, aggiunse tra sé.
Rifletté per un minuto, al centro di quel Golgota al femminile. Tre ragazze, due dalla pelle molto bianca e una – Parvin – dalla carnagione appena più olivastra. Una bruna, una rossa e una bionda, quest’ultima ormai morta. Tutte e tre quasi certamente ballerine, rapite a fine serata fuori da un locale notturno. I due padroni di casa non violentavano le loro prede, ma le torturavano e le lasciavano per giorni interi a soffrire e a morire. Le ragazze erano come giocattoli che i due sadici maniaci, come bambini ricchi e viziati, usavano fino a quando si rompevano, per poi sostituirli. Doveva essere il loro modo di eccitarsi sessualmente.
Si udirono rumori di sopra. Serrature, porte.
No, pensò Rhona. Troppo presto!
Due mandate di chiave e la piccola porta in cima alla scala si aprì. Si accesero le luci al neon sulla volta, riempiendo la stanza sotterranea di una luce bianca quasi abbagliante, rispetto alla penombra di poco prima. Rhona batté le palpebre.
Erano proprio loro, i due clienti che aveva visto al Forziere d’oro la notte precedente. Erano vestiti come al solito, solo che stavolta nessuno dei due aveva la cravatta. L’uomo portava una pentola di rame con un lungo manico, piena d’acqua. L’accostò alle labbra di Parvin, che bevve avidamente. Quindi passò a Rhona, che ne prese un sorso. Non era di questo che aveva bisogno, ma l’assunzione di liquido di sicuro non le avrebbe fatto male.
Regina aveva in mano un grosso coltello da cucina. Guardò Parvin. «Stasera tocca a te», annunciò, facendo un passo avanti.
Il tremito della danzatrice del ventre aumentò. Non era nemmeno capace di gridare. Per quanto là sotto – e in campagna – probabilmente nessuno l’avrebbe sentita.
La creatura androgina in giacca e pantaloni neri, noncurante del sangue che avrebbe potuto macchiarle la camicia candida, si avvicinò a Parvin e le appoggiò la punta del coltello appena sopra l'ombelico. Cominciò a lacerare lentamente lo strato superiore della pelle, poco più che un graffio. La prigioniera mediorientale riuscì a emettere una specie di singhiozzo. Più in là Armando Amidei, deposta a terra la pentola di rame, si era portato una mano alla parte centrale dei pantaloni, accarezzandosi piano.
Rhona sapeva cosa doveva fare, solo non era sicura di averne le forze. Mentre l’attenzione dei due maniaci era concentrata su Parvin, la rossa guardò i chiodi che le immobilizzavano i polsi, prima uno poi l'altro. L’avevano crocifissa con i palmi all’esterno, il che le permetteva di fare forza anche con le dita. Tese i muscoli e cercò di staccare le braccia dal legno. I chiodi erano lunghi e davvero sembravano essere divenuti tutt'uno con i suoi polsi. Ma lei non si arrese. La mano destra guadagnò un mezzo centimetro, La sinistra cominciò a muoversi. La fronte di Rhona si coprì di un velo di sudore.
Regina Amidei stava continuando a tracciare geroglifici di sangue sul ventre di Parvin, ma ancora non aveva affondato la lama; voleva esaltare la tensione della vittima, prima di colpire sul serio. Il respiro di Armando, intanto, accelerava, mentre sbottonava i pantaloni.
D’un tratto Rhona ruppe l’incantesimo. «Regina», disse.
La donna dai capelli corti e neri si voltò.
«Preferisci perdere altro tempo, oppure vuoi provare con una vera donna?» insistette Rhona, guardandola con aria di sfida.
Regina, con il coltello puntato in avanti, si mise davanti alla rossa. Si fissarono negli occhi.
«Avanti», la provocò Rhona. «Baciami.»
Sapeva che effetto potesse fare tanto agli uomini quanto alle donne. Era stato il suo irresistibile magnetismo sessuale a scatenare i desideri distorti dei cugini Amidei. Ora le sarebbe servito per uscire di lì.
Regina abbassò la mano con il coltello e avvicinò le labbra a quelle dischiuse della rossa. Le loro lingue si intrecciarono.
Con un ultimo sforzo, Rhona sfilò i polsi dalla tavola, li rovesciò, orientando i chiodi in avanti, e chiuse le braccia intorno alla testa di Regina.
Si ritrasse di qualche centimetro e guardò l’altra donna rovesciare gli occhi all’indietro, senza emettere un suono.
Estrarre i lunghi chiodi dalle tempie della creatura androgina fu molto più facile che liberarsi dalla tavola di legno. Rhona lasciò che il corpo inerte di Regina cadesse a terra.
Seppure in ritardo, Armando si rese conto di cos’era successo e indietreggiò, inciampando nella pentola di rame sul pavimento. Cadde di schiena, con i pantaloni aperti su un'erezione appassita all’improvviso. L’uomo fissava la bocca spalancata della prigioniera dai capelli rossi: come gli artigli di un gatto, in bocca le era spuntato un paio di canini lunghi e minacciosi.
Rhona gli balzò sopra, premendogli le ginocchia sul petto. Quando si sfilò il chiodo da sopra il polso sinistro, un fiotto di sangue andò a impregnare la camicia candida dell’uomo. Poi, con rabbia, Rhona gli piantò sette centimetri di ferro al centro della fronte.
I due cugini non potevano immaginare quale furia atavica avessero destato, sequestrando la ragazza sbagliata.
Rhona si sfilò anche l’altro chiodo, con un gemito. La sua particolare fisiologia le avrebbe permesso di rigenerare in breve tempo tutte le cellule danneggiate, guarendo più in fretta di un essere umano. Ma non le risparmiava il dolore.
Parvin, assistendo alla scena, non aveva smesso di tremare. Ora non aveva più paura dei padroni di casa. A spaventarla, adesso, era la sua misteriosa compagnia di prigionia.
Rhona le si inginocchiò davanti, passando la lingua sulle ferite, da cui usciva il sangue rosso, caldo e nutriente. Non erano tagli profondi. Curate tempestivamente le ferite dei chiodi, la danzatrice del ventre si sarebbe potuta salvare, anche se forse non avrebbe voluto più esibirsi, con tutte quelle cicatrici.
Ma Parvin l’aveva vista liberarsi come nessun essere umano sarebbe stato in grado di fare. L’aveva vista uccidere i loro due carcerieri mostrando una forza non comune, nonostante la debolezza. E l’aveva vista snudare i suoi lunghi canini.
Parvin era una testimone.
Rhona si rialzò e guardò la sua compagna di sventura negli occhi. La bruna ansimava, ma la vicinanza della rossa in qualche modo la placava. Il desiderio poteva essere un anestetico e Rhona se ne serviva quando andava in cerca di prede, una volta finito il suo spettacolo al Forziere d'oro. A differenza dei cugini Amidei, lei non andava a caccia nei luoghi che frequentava.
«Mi spiace», disse a Prvin, prima di azzannarle il collo.
La uccise con dolcezza, senza farla soffrire troppo, alimentandosi del suo sangue. Ne aveva bisogno per rigenerarsi, dopo il dolore e lo sforzo cui era stata sottoposta.
Poi si diresse verso il corpo di Regina. Le misure non erano proprio le stesse, ma le sfilò pantaloni e giacca per indossarli. Si frugò nelle tasche e trovò le chiavi della macchina.
L’indomani avrebbe pensato a una scusa per giustificare la sua assenza di quella sera al night club. Ma per ora aveva un unico pensiero: rientrare a casa puntuale.
Prima dell'alba.

©Andrea Carlo Cappi, 2014

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martes, 27 de octubre de 2015

SPECTRE, SPECTRE delle mie brame...



Recensione di Andrea Carlo Cappi


Un vecchio amico è tornato sullo schermo, con un titolo che evoca gli anni Sessanta e quel modo completamente diverso di vivere i film, la narrativa e molte altre cose. Un'epoca in cui un personaggio di successo come James Bond poteva scatenare entusiasmi da squadra di calcio... o da Beatles. Difficile affrontare un mito del genere e il compito che il regista e gli sceneggiatori si sono assunti è una bella sfida. Anzi, una sfida epica.
Perché un film che comincia in Messico con un lungo e acrobatico piano-sequenza (che impone all'interprete principale di camminare su un cornicione senza controfigura) dichiara in modo esplicito di volersi confrontare non soltanto con oltre cinquant'anni di film dedicati all'agente 007 di Ian Fleming, ma anche con la stessa storia del cinema... in particolare con la memorabile scena iniziale de L'infernale Quinlan di Orson Welles.
E con questo il regista Sam Mendes pone dei traguardi molto elevati a tutto il resto della pellicola. Che si rivela il film più lungo dedicato al personaggio, con uno sviluppo romanzesco adeguato al titolo e una serie tale di sorprese, ritorni in scena di vari personaggi, collegamenti a tutti i film del nuovo ciclo con Daniel Craig cominciato nel 2006... che l'invito della Sony Pictures rivolto prima della proiezione ai giornalisti perché non brucino le sorprese è di fatto un invito a non raccontare nulla, per non guastare agli spettatori il piacere di scoprire tutto quanto sullo schermo, man mano che avviene.
Non arrivo a dire che si tratti del miglior film di James Bond di tutti i tempi: quello è un primato che, a mio avviso, si contendono Dalla Russia con amore di Terence Young e Casinò Royale di Martin Campbell. Ma mi sento di affermare che il confronto con i vecchi film funzioni. A patto che lo spettatore non voglia rivedere un film anni Sessanta con scienziati pazzi e nascondigli nei vulcani, un gioco narrativo che spesso tradiva i romanzi di Ian Fleming e poteva funzionare giusto a quell'epoca. Qui invece, come sempre da quando Craig ha assunto il ruolo, il personaggio in scena è molto vicino al James Bond come lo ha creato Ian Fleming e come lo ha fatto rivivere Raymond Benson in tempi piu recenti. Più serio, più duro, più noir, come deve essere. Anche le piccole concessioni all'umorismo, qui un po' più numerose del solito, non arrivano all'eccesso. Così come l'impiego di gadget tecnologici, presenti in omaggio ai vecchi tempi, non è esagerato.
Non siamo più alla fine degli anni Cinquanta, quando Fleming pubblicò il primo libro in cui appariva l'organizzazione chiamata SPECTRE, ma la versione hi-tech che vediamo in questa pellicola è molto più vicina a com'era in Operazione Tuono (romanzo e film) rispetto alla gang fantatecnologica vista in altre occasioni. Un centro di potere occulto che cerca di muovere i fili del mondo - un attentato qui, una persona giusta là - perseguendo i propri interessi. Un idealismo "visionario" che, guarda caso, assegna il controllo totale a una sola persona. Non manca del resto una citazione di George Orwell e del suo 1984.
Ma non mancano neppure le strizzate d'occhio ai vecchi film, le suggestioni che richiamano Dalla Russia con amore e Al servizio segreto di Sua Maestà, ma che non si rifanno solo alla vita cinematografica di James Bond. Di tanto in tanto spunta anche Fleming, in qualche allusione ma soprattutto nei momenti in cui l'azione si spegne e restano i personaggi, faccia a faccia con i loro drammi. Insomma, vecchi amici e vecchi nemici riadattati ai tempi, ma con emozioni familiari, che sanno di bel cinema di intrattenimento e, a volte, anche un po' di feuilleton.

Leggi anche: 20 anni al servizio di 007

domingo, 25 de octubre de 2015

Expo Milano: speranze o illusioni?

Articolo e foto di Fabio Viganò



Sono venuti a Milano da ogni parte del mondo.




A dir la verità, in periferia di Milano, in una località, Rho, probabilmente a molti sconosciuta prima.



Sono arrivati da ogni parte del pianeta per cercare di rispondere a tematiche importanti quali la carenza di cibo, la mancanza di acqua e di istruzione in materia e condividere le conoscenze.



A giorni calerà il sipario su questo grande evento… Lecito porsi domande.

I buoni propositi dell’enorme spettacolo internazionale...
saranno mantenuti?


Chi ha troppo darà a chi ha niente?


Oppure sarà stata solo l’ennesima vetrina per mettere in mostra il proprio paese?


Abbiamo veramente compreso che il sapere non ha confini e che deve essere condiviso tra tutti gli uomini?


Abbiamo davvero recepito il messaggio della Carta di Milano?


Scusate se me lo chiedo.


Ma non abbiamo ancora capito che siamo tutti uguali, senza distinzione di razza, credo politico, religione, soldi…



I soldi…
Il  potere…
Se non sono utilizzati per il bene della collettività, servono soltanto a prevaricare altri esseri umani.


Regalatevi e regalateci un sogno: ragionate da uomini liberi. Siate uomini, costi quel che costi.


Non permettete che oggigiorno si muoia per fame o per sete.
Prima di gettare cibo, sprecare acqua, pensate a chi ne ha bisogno.



Capire il significato dell’acqua e del cibo permetterebbe all’umanità intera di comprendere il significato della parola eguaglianza e di vivere veramente liberi.

Noi  abbiamo  un  sogno!
È il sogno di Milano Expo: uniti senza barriere per combattere  contro  il pregiudizio, l’ignoranza, l’intolleranza.
Per la Vita.

È utopia?



In  questa giornata di sole, a  Milano, voglio  ancora credere nell’essere  umano.
Non  traditeci!
Tradireste  voi  stessi.