viernes, 29 de mayo de 2015

Quelli dell'Aprilia nera



Una storia vera raccontata da Andrea Carlo Cappi

La banda di Barbieri era attrezzata,
faceva le rapine a mano armata.
E sette e sette e sette fanno ventuno,
arriva la Volante e non c’è nessuno.
(Anonimo)

Il sangue versato nella Seconda guerra mondiale è ancora caldo quando Bezzi e Barbieri decidono di non deporre il mitra e scatenano una vera e propria offensiva criminale sul territorio dell'hinterland milanese. Accade settant'anni fa, tra il 1945 e il 1946, quando l'Italia è appena uscita dal conflitto che l'ha attraversata lentamente da sud verso nord. Bombardamenti e rastrellamenti hanno insegnato agli italiani cosa volesse dire sfidare le grandi potenze mondiali. Una grande città come Milano, ultimo baluardo del regime fascista, ha pagato un alto prezzo di morte e distruzione, e ha visto monumenti quali il Teatro alla Scala crollare sotto le bombe degli alleati.
La Resistenza ha insegnato come ogni uomo sia libero di opporre le proprie ragioni contro la dittatura a colpi di fucile. Mentre molti fascisti cercano di riciclarsi come partigiani dell'ultima ora, qualche ragazzo dotato di spirito d'avventura scopre che la lotta armata può essere anche la via più breve alla ricchezza. È il caso di Ezio Barbieri e di Sandro Bezzi, che insieme daranno vita a una delle più attive bande di malavitosi dell'immediato dopoguerra, diventando a loro modo due divi del gangsterismo, sul modello degli "eroi" del cinema americano.
Questa, per quanto sia possibile distinguere la realtà dal mito, è la loro storia.

Le macerie di Milano, 1943

In un Nord Italia in cui le patate sono diventate un bene primario e il pane bianco è una preziosa rarità, il giovane Ezio Barbieri apprende molto presto quali siano le strade più facili per raggiungere il benessere e dà inizio alla sua carriera ai margini della legalità.
Ezio è nato nel 1922 a Milano, quartiere Isola, da una famiglia che gestisce un banco di mescita. Ha cominciato a lavorare all'età di quattordici anni in una tintoria, passando in seguito a un negozio di barbiere e, raggiungendo il vertice delle possibili aspirazioni familiari, diventando impiegato comunale. È possibile che la sua deviazione dalla retta via sia dovuta (come sosterrà la sua difesa) a un trauma cranico per una brutta caduta mentre cercava di prendere al volo un tram. Ma trauma o non trauma, Ezio si accorge subito che ci sono modi meno faticosi del lavoro per guadagnare. Solo la sua inesperienza lo porta, nel maggio 1942, a una condanna per furto di bicicletta. Non arriva a scontare gli otto mesi di reclusione nel carcere di Alessandria: il ventenne Ezio Barbieri esce di prigione a breve termine per compiere il servizio militare.
Ma la storia segue percorsi diversi e Barbieri comincia a dedicarsi alla più redditizia borsa nera. Quando gli ingredienti più normali della cucina italiana, dal burro al parmigiano, diventano per il consumatore medio irraggiungibili oggetti del desiderio, perché non approfittare della situazione? In fondo non si tratta che di procurare alla gente quello che desidera e che, a causa della guerra, non è più possibile trovare.
Così Ezio, malgrado la madre lo sconsigli, si dà al mercato nero e, già che c'è, al contrabbando di sigarette provenienti dalla Svizzera. Il limite tra giustizia e illegalità è molto difficile da definire, quando la legge è stabilita da un regime che sta conducendo l'Italia all'autodistruzione. Ciò spiega perché nel 1944, disturbato nelle sue attività, Barbieri non abbia difficoltà a estrarre una pistola e a sparare a un milite della "Ettore Muti", la squadra che svolge compiti di polizia a Milano dopo l’otto settembre, intitolata all’eroe di guerra ed ex-segretario del Partito Nazionale Fascista morto nell’agosto 1943; lo squadrista resta steso su un marciapiede ferito al mento. La distinzione tra interesse personale e Resistenza in casi del genere è impercettibile, anche se i partigiani sconfesseranno sempre i rapporti che Barbieri affermerà di avere avuto con loro.

Milano, viale Monza, 1944

Sandro Bezzi, invece, comincia a farsi largo nella vita a suon di pugni. Suo padre lavora all'Alfa Romeo, ma Sandro, anziché imparare il mestiere di famiglia, preferisce tentare la carriera di pugile professionista. Così, dopo alcuni corsi serali, di giorno Bezzi fa il meccanico all'Isotta Fraschini e di notte diviene noto come "pugno proibito" sui ring allestiti più o meno di straforo. A Bezzi la guerra non fa molti favori: nel 1942 si sposa con una bella ragazza di nome Carmen, ma viene richiamato in Marina, a la Spezia. Il riluttante marinaio Bezzi diserta, col risultato di essere catturato e consegnato al forte di Varignano, per essere quindi detenuto nel carcere di Pizzighettone e, dopo l'otto settembre 1943, deportato in un campo di lavoro in Germania.
Al suo ritorno, Sandro Bezzi scopre che la moglie se n’è andata. La sconfitta personale alimenta il suo desiderio di rivalsa contro la società e il destino fa il resto, quando nella primavera del 1945, in una balera milanese ha luogo il fatale incontro con Ezio Barbieri.

Milano, 1945 (fotografia di Federico Patellani)

Nell'Italia dell'immediato dopoguerra la voglia di vivere è incontenibile. Finalmente liberi dalle frustrazioni del regime, dalle ristrettezze della guerra e dal terrore dei bombardamenti, gli italiani dell'epoca della ricostruzione sono pronti a dimenticare il passato e ad abbandonarsi al piacere della libertà. Una libertà che spesso ha il ritmo del boogie-woogie, appena giunto dall'America e ballato selvaggiamente in balere improvvisate nei cortili delle case semidistrutte dalle bombe.
Uomini come Bezzi e Barbieri, educati dal fascismo al culto della virilità e delle armi, non hanno mai condiviso l'ideologia ma hanno imparato a sparare. E per loro, che non hanno veramente combattuto nella Resistenza, l'euforia della Liberazione si esprime nel girare armati su un'auto veloce. Le armi, del resto, non mancano, abbandonate per tutto il Nord Italia dai tedeschi in fuga.
Bezzi e Barbieri si divertono a rubare auto, spesso con il proprietario a bordo, spianando le loro Walther P38, per correre follemente nella notte. Ma il furto di macchine per il gusto dell'avventura e della corsa sfrenata lascia subito spazio a una vera e propria industria criminale. Molto presto proprio un'automobile diviene il loro simbolo: una Lancia Aprilia nera, in agguato nella notte lungo le strade buie.
Bezzi e Barbieri, armati e mascherati, bloccano qualsiasi veicolo di passaggio e si appropriano di tutto. I bersagli preferiti sono i borsaneristi e le loro macchine cariche di viveri. I beni vengono rivenduti e le automobili, private delle ruote e dei pezzi di ricambio, vengono abbandonate ormai inservibili lungo la strada.
A lungo andare, i due dell'Aprilia nera entrano nella leggenda. Non passa notte senza un loro colpo, o senza un colpo analogo realizzato dai loro numerosi ammiratori e imitatori. Ma, anche quando non ne sono loro gli autori, Bezzi e Barbieri lasciano credere di esserlo, solo per il piacere di vedere esaltato il mito della loro imprendibilità.
Da questo punto di vista c'è una sostanziale differenza tra i due personaggi. Sandro Bezzi è il più freddo e calcolatore, ama la sfida ma detesta correre rischi inutili ed evitabili. Ezio Barbieri, al contrario, non perde occasione per mettersi in mostra: si fa crescere un pizzetto alla D'Artagnan e si presenta come "il moschettiere del mitra". Gira per le balere con le armi da fuoco sotto l'impermeabile, infischiandosene della possibilità di esere identificato dalla polizia.
Grazie al proprio tenore di vita a alla passione per donne e champagne, riesce a essere costantemente senza un soldo, ma quello che per lui conta di più è il successo con il sesso femminile. Il bandito bello e inafferrabile colleziona un notevole numero di amanti, compresa la figlia di un industriale in cerca di avventure e di emozioni. Essere la donna di Barbieri, del resto, significa potersi permettere pellicce e gioielli in abbondanza, privilegi che in quel periodo poche italiane potevano concedersi.

Milano, corso Buenos Aires, 1945  (fotografia di Luigi Ferrario)

Nell'ottobre del 1945 i due criminali mettono su casa: scelgono due appartamenti nello stesso edificio in via Clefi, a Porta Magenta, e ci vanno a vivere con le loro compagne del momento: Bezzi con Maria, Barbieri con Ernestina, da cui avrà un figlio battezzato Vittorio. Gli inquilini del palazzo evidentemente non fanno molto caso ai due individui che di notte, mentre gli altri vanno a dormire, escono col mitra per andare a lavorare a tornano a casa nelle prime ore del mattino per festeggiare e dividere il malloppo. Ormai Bezzi e Barbieri non lavorano più da soli, ma possono contare su un certo numero di complici reclutati nella mala milanese – la Ligera – tra cui un certo Cordara, che si fa crescere un pizzetto da moschettiere sul modello di quello del suo capo.
La base operativa molto spesso è un locale notturno, il tipo di ambiente frequentato da strani personaggi come il "conte Mino". Questi si chiama in realtà Giacomo Regonini, ex appartenente alla X MAS – il corpo di volontari della RSI fascista – e sedicente nobile. Il conte Mino, che ama la bella vita e la cocaina, non ha la tempra dei due criminali e non partecipa personalmente ai colpi, ma si limita a dare una mano per piazzare la merce rubata. Tuttavia per Barbieri il falso conte, con le sue arie da viveur, appare un ottimo modello per interpretare il ruolo di bandito gentiluomo. Fargli conoscere l'indirizzo del covo di via Clefi si rivela un grave errore, uno sbaglio che Bezzi non perdonerà mai al suo socio.
La sera del 2 novembre 1945, in un appartamento in corso XXII Marzo, il commissario Giancarlo Mancini arresta il conte Mino. Mancini, che comanda la squadra G, efficiente gruppo composto da ex partigiani, vede subito nel Regonini la via per arrivare ai pericoli pubblici numero uno. Interrogato in Questura, l'uomo rivela l'indirizzo di Bezzi e Barbieri, permettendo alla polizia di preparare una trappola.
Verso mezzanotte Mancini, con un gruppo di agenti al comando del commissario Betrone, penetra nell'edificio di via Clefi e si apposta davanti all'appartamento in cui si trovano i due criminali con le loro donne. Il conte Mino fa da esca: mentre l'agente Luciano Riva suona il campanello, chiama Ezio Barbieri, invitandolo ad aprirgli. Non è Barbieri ad andare alla porta, ma una delle due donne, che fa a tempo a intravedere gli agenti e a dare l'allarme. I due sono pronti all'azione.
L'agente Mario Orlandini cerca di entrare, ma Barbieri lo accoglie con due colpi di pistola, lasciandolo a terra ferito. Mancini e Betrone rispondono al fuoco, mentre Bezzi lancia nella loro direzione una bomba a mano, che esplode sulle scale. I due criminali ne approfittano per darsi alla fuga. Uscendo dalla finestra, in canottiera nella fredda notte milanese, saltano sul tetto di un garage sottostante. Ma la fuga non dura a lungo: accerchiati da forze preponderanti, i due, feriti e infreddoliti, sono costretti alla resa. Barbieri, nel salto, ha subito una lesione alla spina dorsale. Vengono condotti in Questura e, da qui, al carcere di San Vittore, ma assicurano ai poliziotti che non resteranno "dentro" a lungo. Manterranno la parola.

Il carcere di San Vittore, 1946

In un carcere sovraffollato, come del resto quelli di tutta Italia, detenuti inquieti si trovano di fronte guardie di custodia dal grilletto facile. La tensione spesso esplode in feroci tumulti, una situazione difficile da controllare. Chi ne approfitta è un gruppo di carcerati che, dopo l'ennesima sommossa, organizza la propria fuga. Il cinque gennaio del 1946 viene messa in atto l'evasione e tra i fuggiaschi non può mancare la coppia Bezzi e Barbieri.
La fuga è tuttavia l'ultimo atto del loro sodalizio: al momento di scalare il muro di cinta, Bezzi rifiuta di aiutare il socio, in difficoltà a causa della lesione alla schiena. Considerandolo responsabile del loro arresto, Bezzi è fortemente tentato di lasciarlo cadere in mano agli agenti di custodia. Ciò non avviene, ma l'episodio è più che sufficiente a motivare la separazione tra i due. Barbieri si rifugia in una casa sicura, dove resta a letto per diversi giorni, mentre Bezzi se ne va per la propria strada.
La suddivisione del territorio è semplice. Bezzi opera nel centro di Milano, Barbieri lavora nell'hinterland e in provincia. A pochi giorni dall'evasione, mentre il commissario Mancini si dimette considerando l'episodio come una sconfitta personale, Barbieri è di nuovo in attività, con un'automobile su cui, al posto della targa, ha collocato un pezzo di cartone con le cifre 777, il numero telefonico della polizia; nella leggenda la macchina diventa un’Aprilia nera con una vera targa MI 777, circostanza celebrata anche in una strofa apocrifa della canzone popolare Porta Romana bella. Il campo d'azione di Barbieri si estende al Piemonte, dove lo segue una nuova compagna, Fulvia.
A Novara è identificato e catturato, ma gli basta chiedere il permesso di andare in bagno per dileguarsi dalla finestra. La polizia decide allora di organizzare una trappola: riportata Fulvia a Milano, nel suo appartamento in via Cibrario, la sottopone a una sorveglianza ininterrotta con una squadra di agenti in borghese, contando di prendere in trappola il bandito col pizzetto. Non è così. Barbieri riesce a eludere ogni notte la sorveglianza per fare visita alla propria amante, arrivando poi a portarla via sotto il naso degli agenti. Quando una mattina i poliziotti non la vedono uscire di casa, scoprono che l'appartamento è vuoto e che Barbieri è riuscito a beffarli un'altra volta.
L'ultima.

La fine di Sandro Bezzi

Nel frattempo Bezzi ha messo su una banda in proprio e tiene le sue riunioni a casa di Foletti, suo complice, in via Morandi 13, zona Greco. Si racconta che a incastrarlo siano state le interferenze fra il suo telefono, numero 284922, e quello funzionante in duplex, 284822, della fidanzata di un poliziotto, residente nello stesso palazzo. Quello che è certo è che il poliziotto, di nome Carmelo Arcovito, riconosciuto Sandro Bezzi incontrandolo sulle scale, ottiene l'autorizzazione a intercettarne le telefonate. In breve tempo viene preparata una trappola, a opera dello stesso Arcovito e del collega La Noce.
Il 25 febbraio viene visto entrare in via Morandi 13 un individuo col pizzetto. Scambiato inizialmente per "D'Artagnan" Barbieri, è invece il suo ammiratore e allievo "Aramis" Cordara, ora al servizio di Bezzi. Poco dopo giungono in taxi Bezzi e la sua donna, mentre gli agenti si dispongono intorno all'edificio. Due poliziotti si appostano su un vicino ponte della ferrovia, da dove possono controllare una delle principali vie di fuga. Ma niente accade fino al mattino seguente.
Bezzi esce alle undici e un quarto, armato di pistole e bombe a mano e scortato da Cordara e da un altro malvivente. Accortosi della presenza dei poliziotti, comincia a correre, inseguito dalle raffiche dei mitra. Ferito, prende una bomba a mano e la lancia verso i poliziotti, ferendo anche una passante. Rubata al volo una bicicletta, Bezzi riprende la fuga, ma imbocca la strada verso la ferrovia. Gli agenti appostati aprono il fuoco e Sandro Bezzi resta sull'asfalto. Il proprietario della bicicletta recupera il proprio mezzo di trasporto, mentre la folla si raccoglie per vedere il corpo del famoso bandito, morto.

L'arresto di Ezio Barbieri

Lo stesso giorno, il 26 febbraio, una telefonata anonima segnala alla polizia che Ezio Barbieri si trova alla Cascina Torrazza di Pero, vicino a Milano, in compagnia di Fulvia. Gli agenti accorrono e circondano la trattoria in cui il bandito sta mangiando con la fidanzata. Questa volta Barbieri ha lasciato il mitra in macchina e, disarmato, tenta la fuga insieme a tre complici. Una raffica lo ferisce al braccio destro, lasciandolo sanguinante e senza forze, facile preda per i poliziotti.
Trasportato alla Questura di Milano, in via Fatebenefratelli, Barbieri tenta di convincere gli agenti che si tratti di un errore: non sarebbe Ezio Barbieri, bensì tale Carlo Pirovano, vittima di un equivoco. Ma il suo viso è troppo noto perché qualcuno gli possa credere.
Trasferito al carcere di San Vittore, Barbieri riesce ancora a far parlare di sé quando scoppia la sanguinosa rivolta nella prigione milanese, che qualcuno riterrà addirittura capitanata da lui.

L'agente di custodia Salvatore Rap

La tensione, in quei giorni, è molto elevata. I tentativi di evasione si moltiplicano, mentre i detenuti, forse facendo affari con qualche secondino, riescono a impadronirsi di un certo numero di armi. La mattina di Pasqua, 21 aprile 1946, trascorre tranquilla, ma nel pomeriggio scoppia la rivolta. Gli agenti di custodia vengono sopraffatti, le loro armi sequestrate. I detenuti si scatenano e cominciano a correre in direzione dell'uscita, ma vengono fermati da un agente di custodia ventiduenne, Salvatore Rap, che, benché ferito gravemente, armato di mitragliatrice riesce da solo a frenare l'assalto; morirà tre giorni dopo e lo ricorderà una targa sul muro vicino all’ingresso del carcere. Nel frattempo sopraggiunge un autoblindo dei carabinieri, che apre il fuoco sui rivoltosi, impedendone la fuga.
È l'assedio.

La rivolta di San Vittore

Gli ostaggi sono praticamente crocifissi alle finestre e ogni tanto le sparatorie tra detenuti e forze del'ordine inondano la zona circostante di proiettili vaganti. I passanti nel parco Solari, memori del tempo di guerra, si gettano nell'erba quando sentono fischiare le pallottole sopra le loro teste.
Una parte del carcere è in fiamme e, mentre intervengono i carri armati, i pompieri cercano di azionare gli idranti. Lo scenario è apocalittico. Qualsiasi tentativo di parlamentare riceve, per bocca del leader carismatico Barbieri, risposta negativa. Interviene anche l'arcivescovo, cardinale Schuster. Qualcuno vede l'episodio come una rivolta di matrice fascista, forse perché tra i detenuti più esagitati ci sono personaggi come il conte Mino, dal passato politicamente sospetto, e l’ex gerarca Caradonna.



La battaglia della "Pasqua di sangue" si conclude a colpi di cannone il 24 aprile 1946, quasi a un anno esatto dalla Liberazione, con quattro morti tra i detenuti e molti feriti tra le forze dell'ordine. Il conte Mino e Barbieri sono trasferiti a Bergamo e di loro nessuno sentrirà più parlare nella cronaca nera, dopo la sentenza che li condanna rispettivamente a trenta e ventiquattro anni di reclusione per la rivolta.



Trasferito nel manicomio criminale di Barcellona, in Sicilia, il bandito col pizzetto si redime, diventa infermiere e si sposa, nel 1968, con Maria Soresina, una sua "ammiratrice" che comincia a scrivergli in carcere. Ottiene la libertà condizionata nel 1971 e si stabilisce in Sicilia, molto lontano dai quartieri della vecchia Milano in cui trent'anni prima ha avuto inizio la sua romantica avventura di fuorilegge. Nel 2013, novantunenne, pubblica dall’editore Milieu l’autobiografia Il bandito dell’Isola, scritta con Nicola Erba.





martes, 26 de mayo de 2015

Invito alla ribellione



Riflessioni di Fabio Viganò

Si legge sempre con immenso interesse e rinnovato piacere quel libro, il più bello mai scritto, dal titolo: Costituzione della Repubblica Italiana.
Chissà perché ma, pur passando gli anni, più rimane attuale. Parla di come lo Stato dovrebbe essere. Il condizionale s’impone!
Vi chiederete il perché. Giusto. Troppe volte lo si ignora. Invece ci racconta, passo dopo passo - a caro prezzo - di come in uno Stato Sovrano sia garantito il vivere comune.
Vi sembrerà strano che ne parli ma, vi assicuro, non lo è!
Bisognerebbe però leggerla per poterlo capire. Meglio sarebbe meditarla. È di ampio respiro intellettuale. Ogni sua parola è inno alla Libertà. Un vero inno alla Vita, scomodo e alquanto indigesto per persone che vivono sulle spalle degli altri, grazie a interessi malavitosi e al terrore.
Questo libro non è stato scritto per sfruttatori, ma per persone d’animo onesto e libero che anelino solo a esaltare i sentimenti più veri e più puri non solo dell’ Italia ma dell’umanità intera.

I giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Tra le righe parla chiaramente di ribellione sociale. È un libro “rivoluzionario”, persino sovversivo per gli ambienti criminali. È un libro sicuramente scomodo.
Parlare di rivoluzione sociale non significa necessariamente essere eversivi. Vuol dire essere liberi. La Costituzione detta le regole del vivere comune, sancendo diritti che tuttora sono negati. Questa schiavitù intellettiva è data dall’ignoranza e dalla paura.
Già, la paura.
Serve, la paura.
Serve alla persona coraggiosa che scelga di ribellarsi socialmente alla schiavitù. Conoscere il proprio limite è importante. La paura, se ben sfruttata, ci evita di commettere errori.
La ribellione sociale suggerita dalla Costituzione è manifestazione di un credo dall’ampio intento repubblicano. Un credo che talvolta impone il sacrificio. Ma ovunque vi sia la repressione, vi sarà sempre la ribellione del pensiero. Il sapere si opporrà sempre all’arroganza della violenza. Il canto della Libertà sarà sempre fischiettato per le vie da frotte di ragazzini che non si arrenderanno mai, nel ricordo degli uomini che li hanno resi liberi!

La strada per Capaci, 23 maggio 1992

Un solo modo per ribellarsi contro il terrorismo mafioso: la denuncia! I ragazzi vi aspettano. Aiutateli a lavorare. Loro, come voi,  sono al servizio dello Stato e della  vostra Costituzione.
Scrivete la Storia!
Ribellatevi alla mafia.

Via D'Amelio, Palermo, 19 luglio 1992


viernes, 22 de mayo de 2015

Il Piave mormorò: "Anche gli angeli mangiano kebab"



Domenica 24 maggio alle undici del mattino, colazione (alcolica) d'autore alla libreria Il Mio Libro di via Sannio 18 a Milano. Giuseppe Foderaro, lo scrittore che insieme al collega Ferdinando Pastori costituisce la coppia amichevolmente soprannominata nell'ambiente "i due peggiori autori del noir milanese" (o, semplicemente "i pessimi") presenta il suo nuovo romanzo Anche gli angeli mangiano kebab (Novecento Editore - Collana Calibro 9). Interviene all'incontro il romanziere Andrea Carlo Cappi, che firma la frase di copertina: "Un autore originale, un detective unico. Sauro 'il Dinosauro' Badalamenti non è il clone di nessuno."
In realtà Foderaro, come del resto Pastori, è uno dei migliori autori di giallo metropolitano apparsi in Italia negli ultimi anni. Il suo personaggio spicca proprio per la sua diversità dai modelli diffusi nel genere, soprattutto nel nostro paese. Il suo Sauro Badalamenti non è un poliziotto come tanti altri, né tantomeno un detective stereotipato: è un investigatore assicurativo. Lavora spesso in tandem con Miranda, direttrice del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense della Statale di Milano, a volte partner investigativa, a volte complice, a volte procacciatrice di indagini.
La collana Calibro 9 in cui è pubblicato il romanzo, diretta dallo scrittore Paolo Roversi, riecheggia non a caso il titolo di una celebre antologia di Giorgio Scerbanenco. È orientata su gialli e noir metropolitani di matrice italiana, con un occhio di riguardo per Milano: la "città dell'Expo" non è solo al centro di questo romanzo, ma anche di altri volumi editi in precedenza, come Tutti all'inferno di Stefano Di Marino e Il vizio di Caino di Ferdinando Pastori, fino alla novità A Milano nessuno è innocente di Gianluca Ferraris; oltre all'antologia che ha inaugurato le pubblicazioni nel novembre 2013, Un giorno a Milano, e al suo seguito del novembre 2014, Una notte a Milano, entrambe curate da Andrea Carlo Cappi, in cui si incontrano molti dei personaggi e degli autori che popolano il panorama thriller del capoluogo lombardo.
L'appuntamento con Foderaro è il 24 maggio... per puro caso, anche se nulla c'entra, a un secolo esatto dal giorno in cui "il Piave mormorava..." ovvero la data in cui per l'Italia ebbe inizio la Grande Guerra.
Ed è di domenica mattina alle undici, orario di Santa Messa. Forse per questo corre voce che, uscito da qualche paradosso temporale, la presentazione possa essere officiata nientemeno che da padre Antonio Stanislawsky. Ma di lui parleremo un'altra volta. Questo è il giorno di Sauro. No, non Nazario... Sauro Badalamenti

viernes, 15 de mayo de 2015

Santi e trafficanti


Riflessioni di Fabio Viganò


I Santi son Santi.
Non si dovrebbe scherzare coi Santi. “Scherza coi fanti ma lascia stare i Santi”, recita un antico adagio della lingua di Dante.

Loro si sono da sempre dichiarati tali, appunto: santi.
Santi come dovrebbe essere la loro guerra, in nome di un idolo che è tutto tranne che il Profeta.
Tutto iniziò ancor prima dell’attacco alle Torri Gemelle. In realtà sembra essere la solita storia: i santi non sono santi, bensì loschi trafficanti che utilizzano come manovalanza persone disagiate,  facilmente ideologizzabili. Il loro non è un credo vitale. Sono soltanto poveracci che copiano una triste storia che a noi è da tempo nota.
Usano il passato per cercare di mascherare oscenità e barbarie che nulla hanno a che fare nemmeno con la guerra. Nessun soldato degno di tale nome uccide per il gusto di uccidere. Ma questi tetri e lugubri signori che girovagano per mezzo mondo,  minacciando non solo Roma ma Paesi interi, altro non sono che nazisti. Come per i nazisti - ma potrei ben dire anche i fascisti - il loro mondo è un vero e proprio “paese delle meraviglie”.
Tutto è perfetto.
Tutto è tranquillo e sereno.
Propaganda.
Anche nei campi di concentramento facevan credere ci si divertisse. Ingannevole propaganda fatta a regola d’arte. Certo: propaganda! Dico il falso? Provate a opporvi. Il riposo eterno è assicurato!
Ma, al di là di queste considerazioni che potrebbero lasciare il tempo che trovano, mi chiedo se il Profeta approverebbe la droga. Sicuramente no. Ben lo sanno i veri musulmani,  che nulla hanno a che spartire con questi “aspiranti Attila”.


Sia chiaro: Attila fu cosa seria! Non c’è confronto con i furbastri narcotrafficanti che si son persino inventati una motivazione religiosa per far soldi.
Fare soldi non è un reato. Se li si accumula mandando bambini, ragazze e ragazzi a uccidere i propri coetanei e poi morire loro stessi… non è religione.
Svegliatevi ragazzi. Andate a morire non per un mondo migliore. Vi mandano a uccidere e morire solo per il vile soldo. Vero: anche i soldati lo fanno!
C’è soltanto un piccolo particolare.
Sono uomini e donne che combattono i narcotrafficanti. Sono donne e uomini che combattono per la Vita. Sono donne e uomini che si sacrificano affinché si sia liberi da trafficanti che si spacciano per santi.
In realtà i potentati dei santi sono alquanto terreni e sequestrabili.
Non ci credete?
Chiedetevi allora a chi finisca tutta la droga prodotta nei paesi a marchio ISIS e talebano. Vecchie storie… Terroristi e mafiosi narcotrafficanti.
Sarebbe un errore morire per loro.
Ricordo una statua sul lungolago di Verbania. Su di essa sono scritte parole segnate col sangue di donne e uomini morti per un ideale che ancora non conoscete.
La Libertà.

jueves, 14 de mayo de 2015

Sono solo saponette... ovvero: l'ombra di Leonarda Cianciulli



Articolo di Andrea Carlo Cappi


Quando una figura, anche profondamente negativa, riesce ad assumere una dimensione di leggenda, si guadagna il diritto di essere rievocata a distanza di numerosi decenni da narratori e cantastorie, risvegliando antichi orrori persino in un paese dalla memoria corta come l’Italia. Così, nel volgere di poche settimane, nella cripta del BalubàCafé Restaurant di Milano (via Carlo Foldi 1) in cui si celebrano le serate di Giovedì Mistero Pinketts, risuona due volte il nome di Leonarda Cianciulli, meglio nota come la Saponificatrice di Correggio: una volta a proposito del libro-cd Liscio assassino di Banda Putiferio e un’altra per il romanzo di Cristina Cabelli Bonetti Civico 22.

Nata nel 1893 a Montella (Avellino), trasferitasi da maritata a Lauria (Potenza), è giusto a Correggio (Reggio Emilia) che la donna passa dagli occasionali reati precedenti – furto, truffa, minacce con arma bianca – all’attività per cui giungerà ai disonori della stampa. In piena Seconda guerra mondiale, in un’Italia dalle velleità imperiali in cui il nero delle camicie pretende di negare il nero della cronaca – perché nella perfezione della società fascista il delitto non può esistere – si scopre un nuovo imbarazzante caso di omicidio plurimo.
La definizione serial killer sarà coniata in America solo molto tempo dopo, ma già nel 1940 fa scalpore la scoperta che il Mostro di Sarzana, responsabile di ben cinque omicidi fra il 1937 e il 1938 (alcuni dei quali a colpi di scure), è in realtà un ragazzo appena diciottenne al momento dell’arresto: si chiama Giorgio William Vizzardelli. Be’, in effetti William come secondo nome è assai poco fascista e per giunta si sa che sul comodino teneva un romanzo di dubbia fama, Delitto e castigo di Fëdor Dostoevskij, e si sa che le storiacce di delitti corrompono le giovani menti; non a caso il regime ha indotto la Mondadori a chiudere la sua celebre collana I Libri Gialli. Vizzardelli scampa alla pena di morte in quanto minorenne e, condannato all’ergastolo, evita anche la guerra; graziato dopo trent’anni di carcere, si suiciderà nel 1973.



Ebbene, nel 1941 viene alla luce un’altra brutta storia. La bassa e tozza Leonarda Cianciulli coniugata Pansardi è responsabile della morte di tre donne, scomparse dalla circolazione tra il 1939 e il 1940. Nessuno le ha più trovate, dal momento che i corpi, smembrati a colpi di scure, sarebbero stati in parte saponificati con abbondante soda caustica e in parte cucinati, mentre il sangue sarebbe stato usato per cucinare biscotti. La principale fonte della storia della Cianciulli è lei stessa... o meglio il suo memoriale Confessioni di un’anima amareggiata, non si sa quanto attendibile e non si sa quanto scritto di suo pugno, data la scarsa alfabetizzazione dell’autrice. Più che sacrifici umani a oscure deità, atti a propiziare la sopravvivenza dei figli in tempo di guerra (come sostengono le Confessioni) le tre vittime solitarie, stagionate e danarose sono state uccise allo scopo di sottrarre i loro beni per pagare i debiti della famiglia Pansardi-Cianciulli. Passerà il resto della sua vita nel manicomio criminale di Aversa, dove morirà nel 1970.

Sono rari i casi di serial killer al femminile e, quando capita, si tratta in genere dei proverbiali "angeli della morte", infermiere che ritengono di alleviare le sofferenze di malati accelerandone la fine; oppure di natural born killers che uccidono in coppia con uomo, rientrando nella categoria degli assassini a sfondo sessuale. Ma la Saponificatrice di Correggio si distingue anche per l’originalità – passatemi il termine – della sua tecnica per la soppressione dei cadaveri: una pratica che ricorda l’utilizzo dei maiali nella società contadina tradizionale. Ed è proprio questo a farla passare alla leggenda, insieme al suo aspetto che la rende credibile come incarnazione di una strega d’altri tempi. Così, per esempio, la Cianciulli si guadagna un posto tra le sequestratissime figurine dei serial killer Mostri italiani, pubblicate da Stampa Alternativa nel 1999. E riemerge ancora nel 2015, in due libri di recente pubblicazione.


Uno dei due è Liscio assassino (Editrice Zona), una singolare antologia da leggere e da ascoltare sotto forma di volume con cd allegato, curata da Gianluca Mercadante e Daniele Manini e firmata da Banda Putiferio & Co. Il libro, aperto da una prefazione di Luca Crovi, contiene sette storie di fantasia (di Massaron, Morozzi, Giorgi, Clesis, Limardi, Eliselle e Mercadante), cinque poesie (di Rotino, Bertasa, Bianchi, Manini e Racca) e i testi delle quattordici canzoni del cd, musicate – con un’apparente leggerezza che nasconde una profonda cultura musicale – da Banda Putiferio, su parole di Cappi (sì, io), Celi, Pinketts (sì, ancora lui), Vallorani, Rezza, Barzi, Storti e Demaria. La parte musicale si ispira al genere denominato "liscio ambrosiano", in uso dagli anni Trenta e sopravvissuto fino al tramonto delle balere lombarde. Tra le voci che si uniscono alla Banda nel cd non si può non citare quella celebre di Roberto Brivio, maestro dello humour nero e delle canzoni macabre.
Ma quella che ci interessa in questo contesto e l’affascinante canzone, quasi una ninna-nanna, scritta da Nicoletta Vallorani e musicata da Roberto Barbini: La signora Leonarda, di cui trovate in fondo a questo articolo una versione dal vivo (in formazione ridotta rispetto a quella del cd) in una recente serata Borderfiction. Nella canzone la bravissima Nicoletta si mette nei panni della Cianciulli ed echeggia i toni delle sue Confessioni verniciandoli di una fine e spietata ironia: "Perché tenersi una zitella? Da saponetta sarà più bella."


Ed ecco invece il romanzo di Cristina Cabelli Bonetti, Civico 22, disponibile su Amazon in cartaceo e in digitale. La storia si svolge perlopiù a Milano, dove l’anonima protagonista cerca di ricostruire una serie di orridi ricordi cancellati dalla memoria e legati alla casa in cui ha vissuto nell’infanzia, tra il 1967 e il 1975. In una Milano in cui tuona la bomba di piazza Fontana ed echeggiano le contestazioni studentesche in cui diversi giovani di fazioni opposte perdono la vita, storie spaventose si intrecciano in una casa che si dice sorga sul luogo di un vecchio manicomio. Una signora, la "zia" Santina, che tiene compagnia alla nonna della protagonista, ama raccontare alla bambina le imprese della Cianciulli, lasciando intendere che la Saponificatrice sia ancora viva e risieda nella cantina. E in effetti, se ai vari piani della casa si inanellano violenze e relazioni clandestine, è proprio nella cantina che rivivono orrori di fronte ai quali l’assassina seriale di Correggio sembra quasi una principiante. Un romanzo inquietante che unisce un’ottima mano a una struttura narrativa ben congegnata, in cui una componente onirica sfiora quasi il soprannaturale, ma a essere davvero spaventosi sono gli atti che i sedicenti esseri umani possono arrivare a commettere. Il primo romanzo di un’autrice di racconti e fiabe per bambini... genere quest’ultimo in cui, storicamente, personaggi come la Cianciulli sono sempre stati di casa.


domingo, 10 de mayo de 2015

Una Milano da... morire



Articolo di Fabio Viganò

In occasione della nuova presentazione milanese di Medina - Milano da morire, riproponiamo sul nostro blog questo pezzo già uscito qualche tempo fa al momento del lancio del libro. Le fotografie dell'articolo sono di A. C. Cappi.



È come uno sparo nel buio. È come una lama che trafigga la carne… vigliaccamente alle spalle. È come i silenzi creati a regola d’arte per coprire gli intoccabili. Gli intoccabili! Certi potentati sono tutto tranne che intoccabili.Milano da morire è solo il titolo di un bellissimo libro noir, tecnicamente un "romanzo costituito da tre racconti e un romanzo breve". Un noir geniale, carico di tensione, opera di uno scrittore versatile ed eclettico, degno di tali aggettivi: Andrea Carlo Cappi.



Il luogo, Milano, lo si potrebbe certamente definire come "uno, nessuno e centomila". In realtà si può morire ovunque vittime di poteri "forti" o presunti tali. Poi però arriva l’inaspettato e l’inaspettabile. Arriva qualcuno che mai avresti voluto trovarti di fronte, ma con il quale ora devi necessariamente fare i conti. Carlo Medina.
Il libro narra di spostamenti di danaro illecito dalla Milano che fu "da bere" verso lidi piu sicuri. Di associazioni a delinquere camuffate da ditte che hanno bisogno di una copertura, soprattutto all'indomani della scoperta di Tangentopoli. Della necessità di nascondere gli scheletri nell’armadio e, a volte di rendere certi uomini muti come pesci… per sempre.



Questo romanzo fatto di racconti, di cui non vi anticiperò nulla, è a dir poco vibrante di pathos. Un quadro dipinto a tinte forti. Ha il merito - raro oggigiorno sia in ambito letterario che sociale - di descrivere e narrare fatti realmente accaduti (o drammaticamente plausibili) nella stessa città segnata a suo tempo dalla strage di piazza Fontana.



Ricordare… e far  ricordare. Il  ricordo come monito per le  generazioni future. Ha potere mnestico e stigmatizzatore dei meccanismi tanto perversi quanto contorti della corruzione e  dell’omertà, ragion d’essere dei disonesti. L’omicidio, in un simile contesto, risulta essere una sorta di naturale metodologia di sopravvivenza, dovuta alle regole di vita criminali.

Per certi potenti gli uomini hanno sempre un prezzo. Se questi non compiono il loro dovere… lo pagano col sangue. Si può sempre cadere. L’importante però è cadere a testa alta.

Il libro, che ripropone l’esordio del personaggio ormai ventennale di Carlo Medina, è il frutto di una penna ardita e di una mente attenta, osservatrice e sicuramente scomoda. Scomoda come lo è Carlo Medina, guascone che si barcamena tra giochi di mercato, servizi segreti e omicidi a pagamento. Con lui in circolazione, c’è proprio da dire "Guai ai vinti!"

Il noir è ben giocato, avvincente e sempre attuale. La  Milano non più da bere è ora divenuta una Milano da  morire, dove grigi e tetri figuri tessono trame anche  internazionali pur di riciclare o nascondere proventi illeciti e verità scomode. Non hanno però fatto i conti con Medina…E il conto sarà salato. Come direbbe Pinketts, un "conto  dell’ultima cena".

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miércoles, 6 de mayo de 2015

Milano, maggio e giugno: libri, alcool e risate




Articolo di Andrea Carlo Cappi

Per molti le presentazioni di libri sono sinonimo di noia pazzesca. Peggio che andare a scuola. In effetti a volte è anche vero: ricordo ventidue anni fa un appuntamento con il grandissimo Manuel Vázquez Montalbán, in cui l'ironico scrittore spagnolo ebbe la parola solo dopo lunghe e pedanti prolusioni di almeno tre relatori che sforarono con i tempi. Ma è vero anche che da oltre vent'anni a Milano (e non solo) esiste la formula ideata da Andrea G. Pinketts della "birreria letteraria" che ha trasformato le presentazioni di libri e, in generale, gli incontri letterario-culturali in divertentissime serate di spettacolo improvvisato. Chi conosce Pinketts dalle sue apparizioni televisive non immagina cosa possa combinare in serate del genere, specie se fiancheggiato da me, come avviene più o meno da una ventina d'anni a questa parte. (Nella foto sopra: un momento della recente presentazione al Balubà dell'antologia Scritti con il sangue di Francesco G. Lugli, Edizioni Dunwich).
È una formula che abbiamo spesso usato anche nelle serate Borderfiction all'Admiral e di tanto in tanto al Torchietto Bistrò (sempre a Milano), che di solito organizzo io, ma non in questo periodo perché le giornate sono solo di ventiquattr'ore. L'abbiamo esportata a Latina per diversi eventi del festival GialloLatino, dove caliamo come barbari l'ultima settimana di settembre insieme allo scrittore Stefano di Marino, per unire le forze con l'organizzatore Gan Luca Campagna, giornalista e scrittore, e il leggendario romanziere e autore televisivo Biagio Proietti. Ma in questa primavera-estate 2015, all'appuntamento settimanale milanese con "Giovedì Mistero Pinketts" all'accoglientissimo Balubà Café Restaurant di via Carlo Foldi 1 (una traversa di corso XXII marzo all'altezza di piazza Santa Maria del Suffragio) se ne aggiunge per il mese di maggio un altro ai tavolini all'aperto all'aperto (sotto apposita tenda) al rinnovato Chiosco Mentana di piazza Mentana, condotto dallo scrittore Paolo Sciortino e inaugurato lo scorso lunedì 4 maggio proprio all'inevitabile presenza di Pinketts.
Ecco i programmi con gli ospiti dei prossimi incontri.



Al Balubà Café Retaurant, al giovedì (tranne il 17 giugno, evento eccezionalmente di mercoledì) con aperitivo e buffet dalle 19.30, evento dalle 21.30, presentano Andrea G. Pinketts e Andrea Carlo Cappi
7 maggio Marco Conti Sul confine
14 maggio Cristina Cabelli Bonetti Civico 22
21 maggio Erika Polignino Lisa
28 maggio Placido Di Stefano L'antibagno
4 giugno Michela Minnino La favolosa commedia
11 giugno Andrea Franco & Enrico Luceri Fata Morgana
17 giugno (eccezionalmente di mercoledì) Matthias Graziani Sottopelle e Barbara Bolzan Il furto dei Munch
25 giugno Ilaria Palomba Homo homini virus
Le serate del primo e otto luglio sono ancora da stabilire. Poi riprenderemo in autunno.




Al Chiosco Mentana, al lunedì alle 19.00, presenta Paolo Sciortino
11 maggio Andrea Carlo Cappi Milano da morire (partecipa all'incontro Andrea G. Pinketts)
18 maggio Giovanni Gastel Jr. Spade (partecipano all'incontro Andrea G. Pinketts e Andrea Carlo Cappi)
25 maggio Paolo Sciortino Storia segreta di Milano e Gianluca Margheriti 1001 cose da vedere a Milano (partecipano Andrea G. Pinketts e Andrea Carlo Cappi)

martes, 5 de mayo de 2015

Chi è senza peccato scagli la prima molotov



Sproloquio di Andrea Carlo Cappi

In questi giorni sono inciampato più volte in Satana. No, non mi fraintendete: non sono un tifoso del Diavolo, nemmeno in senso calcistico. Ma ogni tanto mi occupo di true crime, ovvero sono uno scrittore che ricostruisce – anche – veri casi di omicidio e a volte è chiamato a parlarne in televisione, soprattutto sul canale di proprietà della stessa famiglia che controlla una delle principali case editrici italiane (per cui pubblico abitualmente) e la squadra di calcio in questione.
Nell’ultimo mese però un lavoro per tutt’altro editore mi ha portato a occuparmi di varie vicende delittuose in cui il nome del Maligno ha fatto più volte la sua comparsa. La prima zaffata di zolfo è arrivata in una storia troppo lunga perché ve la racconti stanotte. Magari un’altra volta.
Un’altra zaffata si avverte in una storia che mi narrò in prima persona l’amico Andrea G. Pinketts, noto scrittore all’epoca non ancora troppo famoso come personaggio televisivo e quindi ancora molto attivo come giornalista-infiltrato. Una vicenda che i processi hanno dimostrato non avere nulla di criminale, a parte forse qualche scontrino fiscale non rilasciato e – a mio modesto parere – un possibile e in tal caso non trascurabile caso di corruzione di minorenne, che però sarebbe un fatto individuale e non riguarda l’associazione in sé. Mi riferisco ai Bambini di Satana, società bolognese legalmente riconosciuta.
Un giorno di svariati anni fa vidi comparire Pinketts alla Libreria del Giallo con i capelli tinti di azzurro. Immagine davvero inquietante, sappiatelo. Mi rivelò che doveva interpretare la parte di un cantante di rock satanico al fine di entrare nella setta e scrivere un articolo per Panorama. Missione compiuta: l’articolo uscì, con tanto di servizio fotografico. Ma quando poi Pinketts fu chiamato a testimoniare al processo contro di loro, si trovò di fatto a difendere gli imputati: dalla sua indagine non aveva alcun indizio che fossero colpevoli dei gravissimi reati che gli si attribuivano, in particolare di atti di pedofilia. In base alla sua esperienza da infiltrato, il loro non era altro che uno show satanico senza particolari conseguenze (o, dal loro punto di vista, un’attività culturale).
Forse una conferma di tutto ciò è il fatto che il gruppo abbia scacciato poco dopo la loro iscrizione tre adepti sgraditi – una donna con il marito e l’amante – che sarebbero stati protagonisti anni dopo di altre storiacce: lei denuncia l’amante, con cui ha fondato un’altra setta satanica, poi viene decapitata dal marito nei dintorni di Roma.
Non meno inquietante è la vicenda delle Bestie di Satana. Qui si parla di delitti veri e di istigazione al suicidio. Sarebbe ancora da chiarire quante vittime dirette e indirette abbiano a loro carico questi ragazzi della provincia di Varese che bazzicavano gli ambienti del rock satanico.
Un paio di anni fa ho conosciuto un musicista che pratica il genere e che mi ha raccontato che costoro – in tempi non sospetti – erano vagamente conosciuti nell’ambiente (a livello individuale, non come setta) e giudicati come imbecilli. Gli stessi magistrati hanno sentenziato che il satanismo di costoro era più che altro un pretesto per essere violenti, dunque una scelta che avrebbero fatto anche se fossero stati tifosi di una squadra di calcio o di una qualsiasi ideologia politica. Più che Sympathy for the Devil, per citare i Rolling Stones, trattasi di encefaloramma piatto.
Va specificato che seguire il rock satanico, una forma particolarmente estrema di musica metal, non significa né evocare e sguinzagliare il demonio sulla Terra, né tributargli sacrifici umani. E noi in Italia, prima di chiunque altro al mondo, dovremmo saperlo.
Perché uno dei nostri più grandi poeti, Premio Nobel nel 1906, vale a dire Giosuè Carducci, a trent’anni scrisse e pubblicò l’inno A Satana. La sua era, ovviamente, una provocazione destinata a combattere l’ideologia cattolico-clericale dell’epoca (ma non solo di quell’epoca). Insomma, una rivalutazione di tutto ciò che era attribuito al diavolo – dalla vitalità, ancorché peccaminosa, alla scienza e al progresso – che faceva dell’autore, oltre che un mangiapreti, un antidemocristiano ante litteram. Un Dario Fo dei suoi tempi, per citare un altro nostro Premio Nobel nazionale.
E mentre stavo per finire il lavoro e uscire da questi sentieri demoniaci... che cosa succede? Il Primo Maggio un branco di black bloc dà fuoco per "protesta" a una via di Milano, la mia città, poco lontano da dove vivo: automobili, negozi, una banca e le case soprastanti. Per loro è irrilevante che nelle case abitino persone e che potrebbe scapparci il morto, cosa che per fortuna non è accaduta. Ma la via che mettono a ferro e fuoco a colpi di molotov è via Carducci. La strada intitolata a un contestatore che, intellettualmente, è stato molto più estremo di tutti loro, ma che io sappia non ha mai messo a repentaglio la vita di nessuno.
Come ho detto, io non sono per niente un tifoso del Diavolo. E uno dei miei personaggi, eroe della mia serie di fantascienza di cui guarda caso è appena uscito un nuovo episodio nell’antologia AltriSogni Vol.1 (edita in digitale da dbooks.it), è il prete-peccatore padre Antonio Stanislawsky, il cui nome di battesimo richiama il canto tradizionale che parla di Sant’Antonio, lu nimice de lu Dimonio. Sospetto semmai che Satana, nella realtà o nella metafora, si nasconda soprattutto dietro l’ignoranza.