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Stefano Di Marino interpreta un suo personaggio: ritratto di Roberta Guardascione da "I Professionisti". |
Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi
con un articolo completo di Stefano Di Marino (1961-2021)
Questa volta non sono io a scrivere, mi limito a riportare una testimonianza importante sulla vera "cultura popolare" (nessun riferimento al Ministero che un secolo fa volle manipolarla e soffocarla).
Dal 2021, per le moltissime persone che, per amicizia o lettura, erano legate a Stefano Di Marino, alias Stephen Gunn e molti altri pseudonimi, il 6 agosto, oltre all'anniversario di Hiroshima - quest'anno l'ottantesimo - ospita una ricorrenza più diretta e personale: il suicidio di un uomo che, come ho spiegato in passato in questa rubrica, rappresenta il massimo livello del "celebre scrittore ignoto".
Non si può definire altrimenti un autore che, con centinaia di titoli di successo, migliaia di articoli, un lavoro enorme coronato da milioni di copie vendute (perlopiù a prezzi "popolari" e accessibili), è stato reso sempre più invisibile in vita, fino a essere indotto a morire - se non altro - alle proprie condizioni.
Ho già raccontato di come e perché io abbia acquisito la proprietà delle sue opere dell'ingegno per poterle portare in salvo dall'oblio. Ho cominciato con la pubblicazione dell'antologia I Professionisti, che oltre al suo La morte tatuata e a racconti di chi ha imparato molto da lui, raccoglie una serie di brevi saggi sulla narrativa popolare e, in particolare, la spy story come epica moderna. Oggi, a quattro anni dal suo addio, propongo qui un suo articolo molto significativo datato 5 aprile 2013. Scrive Stefano Di Marino:
Prima di cominciare questo lavoro (ventitré anni fa, ma probabilmente anche un po’ prima se consideriamo gli anni di collaborazioni varie non qualificabili come professionali, diciamo di "apprendistato") (N.d.R.: l'epoca cui si riferisce è quella del suo esordio ufficiale, il 1990) avevo un’idea completamente differente del mondo editoriale e delle meccaniche che lo regolano. Avevo l’ideale del libro ben scritto, avvincente, della professionalità che paga senza aiuti e spinte. Ero anche giovane e, quando si è giovani, è giusto tendere a un mondo dove certe brutture sono relegate ad altri campi, che non ci competono.
Essendo cresciuto con la passione per l’Avventura, raccontata ma anche letta e vista nei fumetti, nei romanzi (fossero questi in hardcover o in economica, non facevo differenza) e nei film. Tutto serviva ad alimentare la mia passione, il desiderio di migliorare, di imparare. Per poter dar vita al mio mondo immaginario.
Ero anche convinto che, se mai fossi riuscito a farmi pubblicare un paio di libri, il resto della mia carriera sarebbe proseguito speditamente. Non avrei avuto vincoli nella scelta dei tempi, la casa editrice mi avrebbe promosso e sostenuto, non avrei dovuto correre dietro a contratti e pagamenti come se uno chiedesse l’elemosina. Insomma stavo "studiando" per diventare narratore e ci mettevo tutto il mio impegno.
In seguito ho capito qual è la realtà. Non mi lagno. Alla fine, se mi guardo indietro, ho fatto tante e tali cose da poter essere realmente soddisfatto; e tutto ciò che di brutto, meschino, poco professionale che ho visto in seguito ben poco conta rispetto alla soddisfazione che ho avuto di poter vivere del lavoro che avevo scelto. A volte devo anche ricordarmelo perché, in tempi bui, è sin troppo facile lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, vedere solo il bicchiere mezzo vuoto e lamentarsi perché altri godono di privilegi che vorremmo per noi.
Io sono ciò che sono. Un narratore (più che uno scrittore, l’ho detto più volte), ma anche un amante di viaggi, avventure di vario genere vissute nella realtà e rielaborate con la fantasia. Non mi interessa realmente essere inserito nella letteratura. Certo, mi fa piacere vedere il mio nome stampato in copertina, riterrei giusto ricevere qualche riconoscimento (e qualche soldino) in più, però, di fatto, ammettiamolo: io sono nato con la Cultura Popolare e credo di averla praticata con passione e successo. E ancora voglio continuare a farlo.
Non si tratta neanche di considerarlo un lavoro, anche se nel mio caso lo è diventato. Meno male, perché le difficoltà di oggi hanno un po’ azzerato la distanza tra "impiego normale" e "attività creativa". Pensate cosa vorrebbe dire fare un mestiere di routine con il rischio di perdere il posto, ma senza tutte le soddisfazioni derivanti dall’aver fatto ciò che si desiderava… È un’esperienza molto più totalizzante. Io credo che un po’ bisogna esserci nati.
Personalmente, non ricordo un periodo della mia vita in cui non sono stato immerso in questo mondo che mescola fantasia e realtà. Anche senza saperlo, mi stavo preparando per svolgere l’attività di oggi. Che si protrae per ventiquattr'ore al giorno, tutti i giorni. A volte anche senza che uno se ne accorga, perché tutto finisce per arrivare al momento creativo del tuo lavoro. E uno lo fa perché è la passione, il desiderio di esprimersi in questo modo, rielaborando esperienze personali esuggestioni fantastiche in un modo "suo", che è gusto e professionalità insieme.
Certo, se diventa un lavoro, la parte economica è importante ma alla fine non è essenziale. Io finisco per scrivere moltissimo, partecipo a eventi anche gratuitamente. Mi farebbe piacere che a livello economico ci fosse un adeguato riconoscimento per tutto. Ma, se a volte non succede e non è possibile, non è una ragione sufficiente per mollare. Sarà perché, di carattere, detesto l’ignavia, gli atteggiamenti rinunciatari.
Ovvio che a volte capitano batoste che per un poco ti lasciano al tappeto. Però poi la voglia di riprendere e di cercare una strada nuova riemerge sempre. Chiaro che un atteggiamento del genere in alcune occasioni ti porta a essere facile preda di chi sfrutta il tuo entusiasmo. Ma non avere entusiasmo è molto più meschino. Quasi come pubblicare una cosina e autodefinirsi anche pubblicamente "scrittori". Lo so, più volte ho affermato che questo lavoro andrebbe lasciato ai professionisti e sempre mi vien fuori il collega più giovane che magari ha pubblicato un libro e si sente già arrivato ma non può lasciare la sua altra attività, che si sente chiamato in causa.
So perfettamente che in Italia, oggi e agli inizi, se non si è dei geni o dei fortissimi raccomandati non si può vivere esclusivamente di scrittura. E che agli esordi tutti hanno un’altra professione. L’esclusività di cui parlo ha una radice diversa, più mentale che materiale. È, appunto, quel concetto di cui parlavo precedentemente: una professione, quella del narratore, che coinvolge ogni minuto. Perché la mente creativa non smette mai di cercare, di osservare, di elaborare, magari senza che ce ne accorgiamo, elementi che ci verranno utili in futuro.
A tutti quelli che vogliono intraprendere questo lavoro (che, ripeto, non è facile e forse riserva prove durissime più che soddisfazioni) vorrei raccomandare di farsi un bell’esame di coscienza. Se lo fate solo per diventare qualcuno, per vedere il vostro nome in copertina o addirittura per diventare ricchi…ripensateci. State sprecando tempo e basta. Se invece come me avete sviluppato un interesse quasi maniacale per la Cultura Popolare, per i racconti, le esperienze che vi portano a contatto con quel mondo che è dominato dal vostro gusto particolare, allora non abbiate paura di cercare, di sperimentare, anche se quello che preferite è "controcorrente".
Magari per tirar su un po’ di soldi sarò costretto a scrivere altro, a tradurre, a consigliare quel che si vende; ma dentro di me devo avere la coscienza del perché mi piace una cosa invece che un’altra. Di ciò che voglio leggere, vedere o raccontare. E crederci. Così sono nati i miei libri migliori, i saggi, le riviste, i fumetti. Ma è stata anche la linea guida che mi ha spinto di occuparmi di fotografia, di viaggi, di sport, di storia, a legarmi con alcune persone invece che altre, in modi e tempi che all’esterno possono essere apparsi poco produttivi.
Che importa? La mia attività creativa è un’espressione di me stesso. Mi fa un immenso piacere condividerla con altri e di certo mi sento lusingato quando ricevo degli apprezzamenti. Però, alla fine, sono sempre io quello che decide la strada da percorrere per quanto impervia essa sia. E sono sempre scelte che risalgono indietro nel tempo, a stimoli e cose viste e vissute da ragazzino che poi si sono sviluppate, approfondite.
Che senso ha scrivere un saggio su generi cinematografici magari dimenticati e poco praticati oggi? O intestardirsi a raccontare avventure con un piglio che appare controcorrente? Be’, alla fine lo stesso senso che ha andare a cercare un sentiero su una montagna lontanissima, o un vicolo in una vecchia città lontano dai quartieri turistici, a frequentare certe donne invece che altre, a praticare come permette l’età una disciplina che oggi non è più di moda. Sono tracce di me. E la Cultura Popolare che anima chi la produce e chi ne usufruisce di passioni ed emozioni dovrebbe essere così. Libera, semplice, personale.