A. C. Cappi in una foto di GialloLatino |
Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi
Come sa qualcuno dei miei lettori, sono anche un autore di tie-in, per la precisione di romanzi con protagonisti famosi personaggi del fumetto italiano: Martin Mystère, il detective dell'impossibile creato da Alfredo Castelli, e la coppia Diabolik & Eva Kant delle sorelle Giussani. In questo periodo, in appendice agli albi a fumetti mensili in edicola di Martin Mystère, esce un mio insolito romanzo a episodi: insolito perché non è esattamente "un romanzo a puntate", ma una storia in cui ogni episodio è (quasi) un racconto autonomo, benché collegato a una continuity che si concluderà in occasione del quarantennale del personaggio, nell'aprile 2022.
Qualche giorno fa, sulla pagina Facebook di Sergio Bonelli Editore, mi ha fatto piacere leggere tra i commenti dei lettori che uno di loro aveva ricominciato a comprare gli albi di Martin Mystère proprio perché c'era la mia storia in appendice. Ma ho trovato anche il commento di un altro lettore che chiedeva di togliere dagli albi "l'inutile raccontino di Cappi" e metterci dieci pagine in più di fumetti. Verrebbe istintivo spiegare che, se non ci fosse il "raccontino", semplicemente l'albo sarebbe più corto di dieci pagine. E pure di suggerire di leggere cos'ho scritto senza pregiudizi perché, se si sfoglia qualcosa con fastidio premeditato, difficilmente si può cogliere il lavoro dell'autore per scrivere una "storia a puntate" che possa essere letta agevolmente una decina di pagine alla volta, con un mese di distanza l'una dall'altra, senza far perdere né il filo della vicenda né l'interesse.
Ma la verità è semplice.
Non si può piacere a tutti.
Non si può piacere, in particolare, a chi legge qualcosa avendo deciso a priori quale sarà la sua opinione. Come certi critici cinematografici che stroncano un film senza averlo neanche visto, con frasi prefabbricate del tipo "la trama è solo un pretesto per gli effetti speciali" oppure "ormai la serie mostra la corda". C'è stato un periodo in cui, per scegliere i film thriller o d'azione da vedere, mi basavo sistematicamente su quelli che una nota rivista di cinema bollava con una faccina triste (all'epoca non si chiamava ancora "emoticon"). Raramente restavo deluso. Mentre a volte lo ero da qualche thriller esaltato dalla critica come qualcosa di diverso dal solito: non vedendo mai pellicole del genere, quando il recensore di turno ne trovava una fatta passare per un'opera d'autore, scambiava per originalità qualcosa che per il cultore era solo aria fritta.
Amo citare il caso di una colta giornalista e scrittrice che qualche anno fa lesse e recensì un mio romanzo uscito da Mondadori in Segretissimo. che trattava temi vicini ai suoi interessi. Era la prima volta che leggeva un romanzo di quella collana - su cui gravano pesanti pregiudizi che ne sconsigliano la lettura agli intellettuali in generale e alle donne in particolare - e scoprì con sorpresa che quella pubblicazione non era il sottoprodotto ignobile di cui si parlava in giro e che il romanzo era un thriller che, usando la formula accessibile della narrativa popolare, toccava tematiche molto importanti. A volte leggere o vedere qualcosa prima di giudicarlo apre orizzonti sconfinati.
Ma non si può piacere a tutti.
Per limitarsi alla letteratura, ci sono cose che non piacciono neanche a me. Per esempio, i romanzi che pensano di "nobilitare" la narrativa di genere utilizzando una lingua inutilmente complessa; non sofisticata, si badi bene, bensì un'accozzaglia di frasi contorte e parole desuete non coerenti con il registro linguistico, il cui unico scopo è far vedere quanto si sia colti ed essere dunque riconosciuti come Grandi Autori. Di solito, quando chi scrive opere di questo genere si manifesta in un festival del giallo, si presenta subito come "autore noir" (il giallo, notoriamente, non può aspirare alla "vera letteratura") e tiene a precisare che il suo "non è davvero un noir" e che la trama "è un pretesto per affrontare problematiche molto più profonde", così da distinguersi dalla plebaglia come me.
Non ho nulla contro una lingua corretta e una prosa elegante, anzi ho una morbosa predilezione per l'uso opportuno dei congiuntivi e un rispetto assoluto per il trapassato (strumento fondamentale ma trascurato per raccontare un evento passato all'interno di una narrazione già al passato). Non sono prevenuto - come si vede dal mio articolo su Lo spettacolo delle desuete - contro le parole perdute od obsolete della lingua italiana, a patto che siano usate nel giusto contesto: tanto per fare un esempio, in un romanzo storico due amici si possono incontrare in una taverna, un'osteria o una locanda, non "al bar", e persino abbandonarsi alla crapula, vocabolo che può essere utilizzato anche in un contesto moderno, a patto che sia impiegato in modo ironico o sia consono al modo di esprimersi di un certo personaggio.
Insomma, come vedete, anch'io non sono immune dai pregiudizi. Più volte mi sono reso colpevole di avere impedito agli editori per cui lavoravo come consulente o direttore editoriale di prendere in considerazione testi che trovavo insostenibili fin dalla prima pagina. Un giorno, in una montagna di dattiloscritti, me n'è capitato uno talmente inaccettabile che l'ho gettato sul pavimento e mi sono messo a saltarci sopra insultandone (in assenza) l'autore, che pensava di avere scritto un capolavoro immortale.
L'unica differenza è che, se trovo qualcosa che non mi piace, in genere non ne parlo, pensando che possa piacere invece ad altri. Non vado su Amazon a scrivere critiche negative o ad abbassare apposta la media dei voti di un libro o di un ebook, come invece pare si usi adesso. Stefano Di Marino mi raccontava che un anonimo "lettore" (si presume sempre lo stesso) assegnava in modo sistematico un solo punto ai suoi romanzi, tanto da far pensare che seguisse puntuale le uscite solo per bocciarle. Se un autore o un genere non ti piacciono, si suppone che tu smetta di leggerli, no? Verrebbe quasi da credere che certi autori vengano boicottati con la precisa intenzione di farli sparire. In un mondo in cui escono migliaia e migliaia di libri, è fin troppo facile diventare invisibili.
Ma cosa vado a pensare?
La verità è solo che non si può piacere a tutti.
Continua...
Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.