lunes, 11 de agosto de 2025

Andrea G. Pinketts visto da Stefano Di Marino

Andrea G. Pinketts (fotocappi, 2012)

Il 12 agosto 2025 Andrea G. Pinketts (1960-2018) compie 65 anni. Per ricordarlo, questa volta prendo a prestito la voce di un autore di cui lui non perdeva un libro: ogni volta che usciva un nuovo romanzo del comune amico Stefano Di Marino - e ne uscivano parecchi all'anno - entro poche ore glielo vedevo in mano. Nel 2020 la Biblioteca Sormani di Milano pubblicò una trilogia di ebook gratuiti curati da me in collaborazione con l'Associazione Culturale Andrea G. Pinketts, contenenti racconti e articoli di "Pink": Stefano Di Marino (1961-2021) ricordò il loro incontro nella prefazione a uno dei volumi, che ripropongo qui oggi.

Andrea G. Pinketts e Stefano Di Marino (fotocappi, 2007)

"Io e il Pink" di Stefano Di Marino (12 ottobre 2020)

Andrea lo conobbi veramente per la prima volta a Viareggio durante un Noir in Festival, manifestazione che per qualche tempo si tenne al mare d’estate. Era il 1992.
Per la verità Andrea lo avevo visto diverse volte in redazione alla Mondadori. Io stavo a Urania ma, visto che Lia Volpatti (caporedattore de Il Giallo) era la mia "compagna di banco", come diceva lei, e occupava la scrivania accanto alla mia, eravamo in famiglia.
Bei tempi…
Andrea veniva spesso perché collaborava attivamente con il "varietà" de Il Giallo Mondadori   Arrivava come un ciclone in redazione, lo sapete com’era… (N.d.R: quando la pubblicazione era settimanale, il "varietà" includeva i racconti, gli articoli e le interviste pubblicati in appendice al romanzo).
Ci eravamo presentati, guardati con un po’ di diffidenza all’inizio perché eravamo proprio due persone differenti. Io ero (allora) abbastanza schivo, concentrato sulle mie cose, lui era già una star, se non in libreria almeno nel “giro”, perché andava in tv, collaborava con Esquire ed era dotato di quella irruente carica di personalità che a me mancava.
Io avevo pubblicato un primo romanzo negli Oscar nella collana Nero Italiano dove lui avrebbe potuto entrare a testa alta, ma certe manovre di corridoio non lo avevano permesso. Ancora una volta, sapete com’è l’ambiente editoriale…
Insomma potete capire. Giovani (allora) leoni in erba, che si guardavano con quelle facce un po’ così che hanno appunto i cuccioli di felino quando scendono alla stessa pozza. Avremmo poi capito che i “nemici” nel nostro ambiente sono altri. Gli incapaci, quelli che vanno avanti a spinte e sgomitate.
Noi no. Anche se eravamo diversissimi pure nell’aspetto (lui alto e magro, io basso e tracagnotto) avevamo una cosa che ci accomunava.
La passione per il delitto. Di carta e di celluloide ovviamente.
Perché Andrea anche se i suoi scritti difficilmente sarebbero catalogabili come "gialli classici", della materia ne sapeva eccome. Bastava leggere i suoi articoli sul varietà del Giallo per rendersi conto che, dietro la continua invenzione linguistica, c’era una preparazione di ferro su autori, registi, film, storie, generi, che non era una verniciatura.
Il ragazzo aveva studiato, e non solo gialli, ne sapeva un po’ di ogni genere e ci metteva le mani con una scatenata capacità di cogliere il grottesco e l’assurdo anche nella storia più agghiacciante. Insomma faceva quello che poi ha sviluppato in una vita di presentazioni e promozioni, perché, non vorrei che si dimenticasse, con i più di vent’anni di Seminario per Giallo e Bar, Andrea è stato un bastione della narrativa popolare in Italia, ha aiutato moltissimi giovani autori e ne ha fatti scoprire altrettanti.
Come mi sarebbe piaciuto leggere una Storia del Giallo italiano firmata da lui! E chissà quali irriverenti trovate avrebbe escogitato per ridere di tutto e di tutti (prima d’ogni altro di se stesso), ma nel contempo creare un quadro vivido e realistico che non toglieva a nessuno, anzi dava a tutti ciò che era giusto.
A questo proposito mi vengono in mente due titoli di articoli che scrisse in quei tempi sulla narrativa popolare per due articoli e che sono un chiaro esempio… sì, del fatto che G stava per “Genio”.
Uno era un pezzo su H. P. Lovecraft che Giuseppe Lippi gli aveva chiesto per Urania. Lo intitolò con irriverenza: “L’Importante è non prenderlo nel Chtulhu...”. Irriverente? Forse. Provocatorio ? Di sicuro, ma il pezzo era centratissimo e lasciava capire che, al di là del burlesque, la materia la conosceva. Era così: irrefrenabile.
Come quando Davide Pulici gli chiese un pezzo di apertura per il primo numero di Nocturno, che è tutt’oggi l’unica rivista che tratta con cognizione di causa di cinema di genere, italiano e non. Con una mirabile crasi tra cinema e fumetto, tra horror e goliardico, Andrea intitolò il pezzo: “La notte che Evelyn uscì con il Tromba”, mostrando di conoscere e saper amalgamare gli elementi base della cultura popolare italiana (in questo caso esemplificati dal film di Miraglia La notte che Evelyn uscì dalla tomba e il fumetto sexy Il Tromba) che poi sarebbero stati la bandiera della rivista.
E così ci ritrovammo quella mattina davanti al Teatro Politeama di Viareggio, in attesa di partecipare a una panoramica dei nuovi giallisti italiani condotta da Raffaele Crovi. Io ero lì per il mio primo Segretissimo (N.d.R.: il titolo del romanzo era Sopravvivere alla notte, la collana era Segretissimo, sorella dedicata allo spionaggio de Il Giallo Mondadori e Urania) che era uscito da un mese e Andrea per Lazzaro vieni fuori. C’erano anche Lucarelli e Cacucci che, ai tempi, erano già famosi.
Perciò ci troviamo ben prima dell’orario di inizio (le dieci del mattino… folla oceanica…) al bar di fronte al teatro. Ora, non è che ci si potesse trovare con Andrea in un posto diverso da un bar. Io, intimidito, prendo un caffè e lui mi guarda con un divertito compatimento e mi allunga una pinta di birra per fargli compagnia (ne aveva già bevute un paio). Stomaco vuoto, poi mezzo Garibaldi… insomma mi sentivo un po’ a disagio.
Però nell’attesa (gli incontri con gli autori esordienti italiani iniziano sempre in ritardo) cominciamo a parlare di gialli, di come non ci piacevano i mystery e preferivamo gli hardboiled. Di come sarebbe stato bello che ci fosse una "Scuola dei Duri" milanesi. E scopriamo anche che, malgrado tutto, di "gialli classici" ne sapevamo parecchio tutti e due.
Sapete com’è… A volte si scoprono interessi e passioni che altri non capiscono. Si comprende di essere, pur con le rispettive differenze, a band apart. E così, tra una birra e un sigaraccio, venne l’ora dell’incontro e c’incamminammo verso il teatro.
Io e lui. Quasi l’articolo il, il corto (io) e il lungo (lui).
Il Giallo italiano…

martes, 5 de agosto de 2025

Vita da pulp - L'ideale del libro (di Stefano Di Marino)

Stefano Di Marino interpreta un suo personaggio:
ritratto di Roberta Guardascione da "I Professionisti".


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 
con un articolo completo di Stefano Di Marino (1961-2021)

Questa volta non sono io a scrivere, mi limito a riportare una testimonianza importante sulla vera "cultura popolare" (nessun riferimento al Ministero che un secolo fa volle manipolarla e soffocarla).
Dal 2021, per le moltissime persone che, per amicizia o lettura, erano legate a Stefano Di Marino, alias Stephen Gunn e molti altri pseudonimi, il 6 agosto, oltre all'anniversario di Hiroshima - quest'anno l'ottantesimo - ospita una ricorrenza più diretta e personale: il suicidio di un uomo che, come ho spiegato in passato in questa rubrica, rappresenta il massimo livello del "celebre scrittore ignoto".
Non si può definire altrimenti un autore che, con centinaia di titoli di successo, migliaia di articoli, un lavoro enorme coronato da milioni di copie vendute (perlopiù a prezzi "popolari" e accessibili), è stato reso sempre più invisibile in vita, fino a essere indotto a morire - se non altro - alle proprie condizioni.
Ho già raccontato di come e perché io abbia acquisito la proprietà delle sue opere dell'ingegno per poterle portare in salvo dall'oblio. Ho cominciato con la pubblicazione dell'antologia I Professionisti, che oltre al suo La morte tatuata e a racconti di chi ha imparato molto da lui, raccoglie una serie di brevi saggi sulla narrativa popolare e, in particolare, la spy story come epica moderna. Oggi, a quattro anni dal suo addio, propongo qui un suo articolo molto significativo datato 5 aprile 2013. Scrive Stefano Di Marino:

Prima di cominciare questo lavoro (ventitré anni fa, ma probabilmente anche un po’ prima se consideriamo gli anni di collaborazioni varie non qualificabili come professionali, diciamo di "apprendistato") (N.d.R.: l'epoca cui si riferisce è quella del suo esordio ufficiale, il 1990) avevo un’idea completamente differente del mondo editoriale e delle meccaniche che lo regolano. Avevo l’ideale del libro ben scritto, avvincente, della professionalità che paga senza aiuti e spinte. Ero anche giovane e, quando si è giovani, è giusto tendere a un mondo dove certe brutture sono relegate ad altri campi, che non ci competono.
Essendo cresciuto con la passione per l’Avventura, raccontata ma anche letta e vista nei fumetti, nei romanzi (fossero questi in hardcover o in economica, non facevo differenza) e nei film. Tutto serviva ad alimentare la mia passione, il desiderio di migliorare, di imparare. Per poter dar vita al mio mondo immaginario.
Ero anche convinto che, se mai fossi riuscito a farmi pubblicare un paio di libri, il resto della mia carriera sarebbe proseguito speditamente. Non avrei avuto vincoli nella scelta dei tempi, la casa editrice mi avrebbe promosso e sostenuto, non avrei dovuto correre dietro a contratti e pagamenti come se uno chiedesse l’elemosina. Insomma stavo "studiando" per diventare narratore e ci mettevo tutto il mio impegno.
In seguito ho capito qual è la realtà. Non mi lagno. Alla fine, se mi guardo indietro, ho fatto tante e tali cose da poter essere realmente soddisfatto; e tutto ciò che di brutto, meschino, poco professionale che ho visto in seguito ben poco conta rispetto alla soddisfazione che ho avuto di poter vivere del lavoro che avevo scelto. A volte devo anche ricordarmelo perché, in tempi bui, è sin troppo facile lasciarsi prendere dallo scoraggiamento, vedere solo il bicchiere mezzo vuoto e lamentarsi perché altri godono di privilegi che vorremmo per noi.
Io sono ciò che sono. Un narratore (più che uno scrittore, l’ho detto più volte), ma anche un amante di viaggi, avventure di vario genere vissute nella realtà e rielaborate con la fantasia. Non mi interessa realmente essere inserito nella letteratura. Certo, mi fa piacere vedere il mio nome stampato in copertina, riterrei giusto ricevere qualche riconoscimento (e qualche soldino) in più, però, di fatto, ammettiamolo: io sono nato con la Cultura Popolare e credo di averla praticata con passione e successo. E ancora voglio continuare a farlo.
Non si tratta neanche di considerarlo un lavoro, anche se nel mio caso lo è diventato. Meno male, perché le difficoltà di oggi hanno un po’ azzerato la distanza tra "impiego normale" e "attività creativa". Pensate cosa vorrebbe dire fare un mestiere di routine con il rischio di perdere il posto, ma senza tutte le soddisfazioni derivanti dall’aver fatto ciò che si desiderava… È un’esperienza molto più totalizzante. Io credo che un po’ bisogna esserci nati.
Personalmente, non ricordo un periodo della mia vita in cui non sono stato immerso in questo mondo che mescola fantasia e realtà. Anche senza saperlo, mi stavo preparando per svolgere l’attività di oggi. Che si protrae per ventiquattr'ore al giorno, tutti i giorni. A volte anche senza che uno se ne accorga, perché tutto finisce per arrivare al momento creativo del tuo lavoro. E uno lo fa perché è la passione, il desiderio di esprimersi in questo modo, rielaborando esperienze personali esuggestioni fantastiche in un modo "suo", che è gusto e professionalità insieme.
Certo, se diventa un lavoro, la parte economica è importante ma alla fine non è essenziale. Io finisco per scrivere moltissimo, partecipo a eventi anche gratuitamente. Mi farebbe piacere che a livello economico ci fosse un adeguato riconoscimento per tutto. Ma, se a volte non succede e non è possibile, non è una ragione sufficiente per mollare. Sarà perché, di carattere, detesto l’ignavia, gli atteggiamenti rinunciatari.
Ovvio che a volte capitano batoste che per un poco ti lasciano al tappeto. Però poi la voglia di riprendere e di cercare una strada nuova riemerge sempre. Chiaro che un atteggiamento del genere in alcune occasioni ti porta a essere facile preda di chi sfrutta il tuo entusiasmo. Ma non avere entusiasmo è molto più meschino. Quasi come pubblicare una cosina e autodefinirsi anche pubblicamente "scrittori". Lo so, più volte ho affermato che questo lavoro andrebbe lasciato ai professionisti e sempre mi vien fuori il collega più giovane che magari ha pubblicato un libro e si sente già arrivato ma non può lasciare la sua altra attività, che si sente chiamato in causa.
So perfettamente che in Italia, oggi e agli inizi, se non si è dei geni o dei fortissimi raccomandati non si può vivere esclusivamente di scrittura. E che agli esordi tutti hanno un’altra professione. L’esclusività di cui parlo ha una radice diversa, più mentale che materiale. È, appunto, quel concetto di cui parlavo precedentemente: una professione, quella del narratore, che coinvolge ogni minuto. Perché la mente creativa non smette mai di cercare, di osservare, di elaborare, magari senza che ce ne accorgiamo, elementi che ci verranno utili in futuro.
A tutti quelli che vogliono intraprendere questo lavoro (che, ripeto, non è facile e forse riserva prove durissime più che soddisfazioni) vorrei raccomandare di farsi un bell’esame di coscienza. Se lo fate solo per diventare qualcuno, per vedere il vostro nome in copertina o addirittura per diventare ricchi…ripensateci. State sprecando tempo e basta. Se invece come me avete sviluppato un interesse quasi maniacale per la Cultura Popolare, per i racconti, le esperienze che vi portano a contatto con quel mondo che è dominato dal vostro gusto particolare, allora non abbiate paura di cercare, di sperimentare, anche se quello che preferite è "controcorrente".
Magari per tirar su un po’ di soldi sarò costretto a scrivere altro, a tradurre, a consigliare quel che si vende; ma dentro di me devo avere la coscienza del perché mi piace una cosa invece che un’altra. Di ciò che voglio leggere, vedere o raccontare. E crederci. Così sono nati i miei libri migliori, i saggi, le riviste, i fumetti. Ma è stata anche la linea guida che mi ha spinto di occuparmi di fotografia, di viaggi, di sport, di storia, a legarmi con alcune persone invece che altre, in modi e tempi che all’esterno possono essere apparsi poco produttivi.
Che importa? La mia attività creativa è un’espressione di me stesso. Mi fa un immenso piacere condividerla con altri e di certo mi sento lusingato quando ricevo degli apprezzamenti. Però, alla fine, sono sempre io quello che decide la strada da percorrere per quanto impervia essa sia. E sono sempre scelte che risalgono indietro nel tempo, a stimoli e cose viste e vissute da ragazzino che poi si sono sviluppate, approfondite.
Che senso ha scrivere un saggio su generi cinematografici magari dimenticati e poco praticati oggi? O intestardirsi a raccontare avventure con un piglio che appare controcorrente? Be’, alla fine lo stesso senso che ha andare a cercare un sentiero su una montagna lontanissima, o un vicolo in una vecchia città lontano dai quartieri turistici, a frequentare certe donne invece che altre, a praticare come permette l’età una disciplina che oggi non è più di moda. Sono tracce di me. E la Cultura Popolare che anima chi la produce e chi ne usufruisce di passioni ed emozioni dovrebbe essere così. Libera, semplice, personale.