jueves, 1 de octubre de 2020

Vita da pulp - Al buio gli scrittori sono neri

 


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto,
di Andrea Carlo Cappi

Come ho già scritto in questa serie di articoli, uno dei problemi di chi scrive è la continua dimostrazione della propria esistenza. Non è un problema da poco: se si cade nell’oblio – cosa che da noi può accadere in qualsiasi istante, data anche la scarsa memoria dei nostri connazionali – le case editrici perdono interesse.

È come ritrovarsi ogni giorno esordienti, con la differenza che certi editori possono anche puntare su un nome nuovo (salvo poi cancellarlo subito dopo, se non ha funzionato) mentre quando vedono un nome già noto commentano: «Ah, sì, lo conosco: non è famoso». Non è che vogliamo diventare popolari come se fossimo influencer, ma neppure possiamo essere tenuti nascosti ai nostri lettori e quindi costretti a smettere di scrivere.

In questo è determinante il contributo dei media. Nel senso che, omettendo sistematicamente di parlare di un’autrice o un autore, possono senza difficoltà consegnarlo alla damnatio memoriae. Ovvero: Chi è? Chi l’ha mai sentito? Boh. Gli altri non ne parlano, quindi non è uno importante. Perché dovrei parlarne io? Dopodiché anche chi ti conosce, nel silenzio generale, tende a dimenticarsi della tua esistenza.

Di autori invisibili è piena la storia. Per esempio, credo che siano sempre esistiti i ghostwriters, gli scrittori che lavorano per conto di altri autori o di celebrità che firmano i libri al loro posto. In Italia venivano chiamati negri (in Francia négres) e non perché restavano sempre nell’oscurità – anche se al buio tutti i gatti sono grigi e gli scrittori sono neri – ma perché richiamavano l’epoca della schiavitù negli Stati Uniti.

C’è il noto paradosso di Alexandre Dumas, per il quale vi rimando a un articolo del sempre prezioso Lucius Etruscus; si sa che il celebre romanziere, orgoglioso della sua quota di sangue haitiano négre, si serviva di négres per scrivere i suoi corposi libri. Ma si può aggiungere il caso di Sylvette Cabrisseau, la prima annunciatrice di colore della tv francese – poi anche cantante e attrice – la quale firmò tre romanzi di spionaggio con una protagonista modellata su di lei, in realtà scritti nientemeno che da Jean-Patrick Manchette; in Italia uscirono da Segretissimo, con splendide copertine di Carlo Jacono.

È probabile che Dumas fosse il direttore di una factory, come avviene oggi per i fumetti e le serie televisive, ma anche per la narrativa. Del resto da fine Ottocento fino agli anni Quaranta le avventure del detective Nick Carter (personaggio ripreso poi in parodia da Bonvi in una celebre serie a fumetti) furono sempre scritte da uno stuolo di autori anonimi che si firmavano collettivamente Nick Carter. La stessa modalità fu ripresa negli anni Sessanta quando un discendente del detective, l’agente segreto Nick Carter, divenne protagonista di una serie durata un trentennio, cui collaborarono nell’ombra – sotto il medesimo nome collettivo – parecchi autori, da Michael Avallone a Martin Cruz Smith.

Ma pure Erle Stanley Gardner, per reggere la richiesta di romanzi sul suo Perry Mason, ed Ellery Queen (già pseudonimo dei cugini Manfred Lee & Frederick Dannay), anche loro spinti dalla richiesta del pubblico, crearono le proprie factories in cui autori professionisti retribuiti, bravi ma anonimi, scrivevano romanzi che sarebbero stati pubblicati con il nome del marchio di fabbrica. Oggigiorno si parla invece di franchise e chi scrive nuovi romanzi di serie bestseller come quelle di Clive Cussler o James Patterson ha il suo nome in copertina come co-autrice o co-autore insieme al padre dei personaggi. Per quanto in altri casi siano stati usati pseudonimi collettivi anche per i co-autori, per esempio nel franchise di Tom Clancy.

Un’altra questione è quella degli pseudonimi. All’epoca d’oro dei tascabili statunitensi capitava che un autore, per esempio Donald E. Westlake, firmasse un contratto di esclusiva con un editore per produrre romanzi a cadenza fissa. Poi gli veniva offerta la possibilità di scrivere anche per un altro editore. Nessun problema: autori come questi hanno sempre storie da raccontare e la possibilità di scriverle (pagati) è sempre gradita. Solo che non potevano usare lo stesso nome del contratto preesistente. Ecco come nacque lo pseudonimo di Richard Stark, con cui Donald – noto soprattutto per i suoi gialli umoristici – firmò una celebre serie noir rimasta nella storia. Tanto che continuò a usare lo pseudonimo anche quando ormai si conosceva la sua metà oscura (fatto che ispirò sotto molti aspetti anche Stephen King). Nel frattempo riuscì a firmare romanzi con altri nomi ancora. Anche Jeffrey Deaver si considera allievo di Westlake-Stark e per analoghe necessità fece ricorso allo stesso espediente, firmandosi per qualche tempo William Jeffries.

Una vicenda ancora più complessa è quella di un celebre romanziere americano, sceneggiatore per Alfred Hitchcock e principale codificatore di quello che oggi si chiama police procedural. Per un aspirante scrittore, nascere negli USA con il nome italianissimo di Salvatore Lombino non pronosticava un destino favorevole. Il giovane lo fece cambiare legalmente in Evan Hunter ed ebbe successo con le sue opere mainstream. Interessato a scrivere polizieschi ma non a confondere le idee ai propri lettori su che tipo di libro stessero per acquistare, Salvatore-Evan inaugurò la serie 87mo Distretto sotto lo pseudonimo Ed McBain, destinato a diventare più famoso del nome legittimo.

Il personaggio principale dell'87mo Distretto, Steve Carella, è come l'autore di origine italiana, ma quando la serie fu pubblicata per la prima volta su Il Giallo Mondadori, per timore che non sembrasse abbastanza americano fu tradotto come... Steve Carell. Dato il suo successo nel giallo, Salvatore-Evan-Ed ebbe modo di scrivere anche altri romanzi del genere, firmati con un ampio ventaglio di pseudonimi. Quando ormai le molteplici identità dell’autore erano notissime, arrivò a pubblicare un romanzo a quattro mani... con se stesso: metà in stile Hunter, metà in stile McBain, giusto per illustrare quali fossero le differenze.

In Italia ci sono alcuni casi interessanti. Sergio D. Altieri, noto a Hollywood per la sua collaborazione con Dino De Laurentiis, sul suo primo romanzo pubblicato in Italia si vide mutato il nome in Alan D. Altieri, perché apparisse più americano; avrebbe conservato questa variante per tutta la sua produzione narrativa. Ma, sempre nel timore editoriale dell’esterofilia dei lettori italiani, persino l’americano David Baldacci sembrava troppo di casa nostra e inizialmente fu edito in Italia come David B. Ford.

Se negli anni Novanta i lettori italici cominciarono ad abituarsi al giallo di produzione nazionale, quelli dediti allo spionaggio erano ancora sospettosi, malgrado qualche autore interessante fosse già in attività dal decennio precedente. Sicché il mio amico e collega Stefano Di Marino, pur avendo già pubblicato ottimi romanzi con il suo vero nome, quando nel 1995 lanciò la sua serie Il Professionista nella collana Segretissimo di Mondadori adottò lo pseudonimo Stephen Gunn. Lo mantiene ormai – dopo venticinque anni di successo ininterrotto – come trademark e riferimento dei lettori, anche se è ormai ben nota la sua vera identità. Ma, quando nella stessa collana cominciò una serie nuova e diversa, si trasformò in Xavier LeNormand, anche perché in Segretissimo gli autori di maggior successo nei decenni sono stati quelli di scuola francese.

Come lui, vari autori italiani avrebbero adottato nomi esteri, dando vita a quella che viene chiamata Legione Straniera di SegretissimoFu in quella stagione, nel 2001, che venne approvato il mio progetto per la serie Nightshade. Pur pubblicando dal 1993 con il mio nome su Il Giallo Mondadori, per Segretissimo (la stessa redazione) dovetti scegliermi uno pseudonimo simil-francese e diventai François Torrent... anche se il nome è in realtà franco-maiorchino ed è quello di uno dei personaggi di contorno. La serie esordì nel marzo 2002 e un mese dopo in libreria pubblicavo il mio primo romanzo di Martin Mystère, autentico bestseller, firmato con il mio nome. Ma nessuno poteva collegare tra loro quelli che erano in apparenza due autori diversi. Ancora oggi, con la mia vera identità pubblicata esplicitamente nella biografia in appendice a ogni nuovo romanzo della serie Agente Nightshade in Segretissimo, c'è chi non riesce a fare due più due.

E qui emerge il problema degli pseudonimi e della settorializzazione. Ho molti lettori come autore dei romanzi originali con Martin Mystère e di quelli con Diabolik & Eva Kant, così come dei libri firmati François Torrent. Stiamo parlando di numeri che, per il mercato italiano, ancora oggi possono essere considerati da bestseller. Ma sono tuttora pochi – nonostante i titoli di Nightshade e Medina degli anni Novanta-Duemila siano in riedizione con il mio nome presso Oakmond Publishing – i lettori che collegano Cappi al suo alias. Il pubblico è frammentato e i mezzi di informazione non aiutano. E questo non vale solo per me.

Pochi giorni fa ho partecipato a un convegno pubblico su spionaggio espy-story a Treviso Giallo, un festival dove ero stato invitato per parlare, il giorno prima, di Diabolik. Per i partecipanti, compresi illustri accademici che ben ricordano gli autori classici di Segretissimo, è stata un’assoluta rivelazione l’esistenza di una scuola italiana della narrativa spionistica, nonostante questa sia cominciata quarant’anni fa. E nonostante uno dei suoi autori più significativi, Secondo Signoroni, già premiato autore di gialli, sia uscito nella collana di spy-story di Mondadori senza pseudonimo dal 1993. Perché di noi non si parla? Risparmiatemi la battuta: Be’, la collana si chiama Segretissimo, quindi voi dovete restare segretissimi, ah ah. L'ho già sentita.

Scrivo di intrighi, ma in questo caso dubito che ci sia dietro un complotto. C'è però una congiura del silenzio. Forse perché è d’oro, per qualcun altro: certi nomi devono restare nel buio, dove tutti gli scrittori sono neri.

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Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

1-Il Paradosso Strumpf

2-Fumo negli occhi

3-Una testa piena di gente

4-Giallosapevo

5-Le storie dentro di noi

6-Lo scrittore inesistente

7-Se sapeste cosa c'è dietro...

8-Al buio gli scrittori sono neri

9-Perché sono le donne...

10-Nato per perdere?

11-E' solo l'inizio


Della poesia

Fabio Viganò al Premio internazionale
di Poesia "Città di Varallo" 2020 


Riflessioni di Fabio Viganò

Son luce ed ombra; angelica
farfalla o verme immondo,
sono un caduto cherubo
dannato a errar sul mondo,
o un demone che sale,
affaticando l’ale,
verso un lontano ciel.
Arrigo Boito, Dualismo 


Mi è stato chiesto di recente se la mia poesia sia un tentativo di rifarsi alla Scapigliatura. Non è un tentativo. Mi sento decisamente scapigliato, anche se non bevo vino, non eccedo e non faccio nessun uso di sostanze strane, visto che il concetto di poet maudit alla Baudelaire o, se vogliamo, persino alla Edgar Allan Poe, prevedeva l’utilizzo dell’oppio.
Sono maledetto perché maledetta è la mia condizione. Prima di tutto perché mi attiro inevitabilmente l’ira delle persone che mi circondano, perché gliele dico chiare. E a dirle chiare, si sa, si rompono i coglioni, soprattutto ai potenti. Questo è un destino cui mi sono rassegnato ma che, bellamente e simpaticamente, con un bel sorriso sulle labbra, non voglio cambiare.
D’altro canto un pacifista come me, a volte dev’essere capace del sacro furore poetico, costi quel che costi, anche il sacrificio estremo. Ovvio: non andiamo a scadere nel kamikaze, visti i tempi. Sacrificio estremo nel senso di donare tutto se stesso, cosa che io regolarmente faccio negli ospedali, curando la gente. Per il lavoro e la professione che svolgo, devo curare chiunque, senza distinzione di classe, di ceto e di religione, nel migliore dei modi.
E già questo, oggigiorno, è qualcosa per cui ti senti dare del maledetto. Oggigiorno, se ragioni così, sei vecchio nel pensare. Se sei educato, sei vecchio nel pensare. Se rispetti le altre persone, sei vecchio nel pensare. Io non voglio smettere di essere vecchio nel pensare. Al diavolo questi nuovi saccenti, cultori del nulla! 

Il mio non è un tentativo di scindere la realtà nuda e cruda di tutti i giorni dal trascendente, dall’ideale. No. Oggigiorno viviamo il dualismo, come diceva Arrigo Boito. La società è schizofrenica.
Di questo già nell’Ottocento ce n’è prova in Giovanni Rajberti – da Monza – del quale suggerisco caldamente la lettura: Il viaggio di un ignorante ossia Ricetta per gli ipocondriaci. Rajberti era un medico, dotto. Leggete questo libro delizioso: vi aprirà la mente, vi assicuro. Perché spesso l’uomo tende a dimenticare che il passato si ripete, ma soprattutto scorda la memoria passata. Oggi più di ieri, dimentica che l’essere umano è essere umano, prima di tutto. Un paziente, prima di essere tale, è un uomo, una donna. Va trattato da essere umano. Dev’essere riconosciuto come tale.
Il dottor Rajberti fu scomodo a molti suoi colleghi, già all’epoca. Possiamo definirlo... un rompicoglioni dell’Ottocento. Ma come mai fu pubblicato in quel di Napoli e non in Lombardia? Ce n’erano, di case editrici. Giovanni Rajberti: un esempio da seguire. 

Non parliamo poi di certi cultori del nulla che dall’alto direbbero cosa fare di giusto e ingiusto, come se un uomo non sapesse distinguere il Male dal Bene. Allora in quel caso, sì, sarebbe necessario l’intervento del giudice. A me nessuno verrà mai a dire cosa sia il Bene, cosa sia il Male. Lo so da quando ero bambino. Soprattutto so che, se una persona sta annegando, mi butto in acqua e la salvo, non la lascio annegare. Se c’è una tromba d’aria, mi butto in mezzo, per cercare di salvare più gente possibile, come del resto ho fatto. E sono solo alcune cose di questo maledetto scapigliato.
Au revoir, salutando alla Baudelaire.

Il 27 settembre 2020 al Premio Internazionale di Poesia "Città di Varallo" il nuovo libro di Fabio Viganò Puro amore si è classificato quarto nella sezione volumi pubblicati.







jueves, 24 de septiembre de 2020

Vita da pulp - Se sapeste cosa c'è dietro...


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto, di Andrea Carlo Cappi

Un tempo chi scriveva faceva giusto quello: scriveva, possibilmente guadagnando da tale lavoro – perché di lavoro si tratta – un onesto compenso che lo affrancasse da altre attività a scopo alimentare. Talvolta si cominciava da racconti su riviste, facendosi un nome e creandosi un pubblico. Come ho già spiegato, il fenomeno era evidente nella letteratura pulp statunitense, ma la regola valeva per Edgar Allan Poe come per Ernest Hemingway o Charles Bukowski.

A loro volta gli editori, grandi o piccoli, si preoccupavano di pubblicare i libri, scegliendoli in base alla qualità e cercando di renderli visibili; i promotori presentavano i titoli alle librerie, che li ordinavano; i distributori consegnavano le copie; i librai le esponevano e le vendevano con cognizione di causa; i giornali ne parlavano, contribuendo a generare il passaparola. E i lettori leggevano. Sto idealizzando, beninteso: dubito che tutto funzionasse alla perfezione anche in passato. Di certo non è così che vanno le cose oggi. Per cominciare, molte case editrici hanno tre metodi per scegliere i libri.

Numero uno: comprare i diritti di libri stranieri inediti, millantati da qualche agente letterario come testi hot, ovvero sicuri bestseller che vengono contesi febbrilmente da direttrici e direttori di collana, al grido di È hot. È hot! È HOOOT!!! Spesso sono romanzi costruiti a tavolino e/o prodotti imitativi, destinati a un pubblico di massa che non ha esperienza del filone scopiazzato – pensate alla moda dei serial killer, a quella dei vampiri adolescenti, a quella dei thriller scandinavi scelti solo in base a motivazioni geografiche – ma che deludono invece gli appassionati che ne hanno già letto i maestri.

Viceversa, autori stranieri brillanti che hanno idee originalissime non vengono considerati perché non hanno un agente à la page. E, se un talent-scout li scopre tra le pubblicazioni all’estero, l’editore italiano per prima cosa controlla le vendite nel paese d’origine. Se non è un bestseller, non se ne parla. Non che un bestseller negli USA lo diventi automaticamente da noi. Ma pensate a quanti raffinati scrittori noir americani ebbero più fortuna in Europa che in patria: oggi rischierebbero di essere ignorati.

Ma intanto subdoli agenti presentano autrici e autori di media caratura come la nuova Agatha Christie, il nuovo John Le Carré e via dicendo. Se il libro non è ancora scritto per intero – o se fa acqua da tutte le parti – ne fanno leggere solo il riassunto o il primo capitolo o metà, illudendo i potenziali acquirenti che sia irresistibile fino all’ultima pagina. Ma a volte, quando capita un consulente editoriale sospettoso tipo Cappi, gli agenti concedono il libro completo.

Ricordo un thriller americano proposto alla Fiera di Francoforte come il capolavoro dell’anno. Il primo capitolo – che circolava via email – era evidentemente un bel racconto che doveva finire lì, sicché chiesi di leggere il resto. Quella sera fui chiamato a ritirare il dattiloscritto completo in via confidenziale all’aeroporto di Linate, per leggerlo in nottata. Come immaginavo, tutto il resto del libro era brodaglia allungata. Il mattino seguente la mia bocciatura echeggiò così forte fino in Germania che anche editori esteri lo lasciarono perdere. Nondimeno, oltre un anno dopo, uscì lo stesso anche in Italia. Si vede che era hot.

Un’altra volta arrivò un thriller spaventosamente mediocre e prevedibile: che l'assassino fosse lo psichiatra della protagonista si capiva dal secondo capitolo, appena entrava in scena, ma lo si scopriva ufficialmente solo quattrocento pagine di noia dopo, quando legava prevedibilmente la paziente al divano ed estraeva da un cassetto il prevedibile bisturi (tipico strumento di lavoro dello psichiatra); ma solo un attimo prima che il prevedibile poliziotto con cui l'eroina aveva un prevedibile rapporto tormentato sfondasse la prevedibile porta per abbattere il cattivo. Eppure il romanzo era così sbandierato dall’agente letterario che anche la mia stroncatura non bastò a rassicurare l’editore di turno: dopo di me dovette leggerlo anche Alan D. Altieri, che suggellò il mio giudizio con un sintetico ma esplicito Questo libro è una vera m... (immaginatelo scandito da un esperto di extreme warfare dal forte accento americano, dopodiché moltiplicate per cento e avrete una vaga idea).

Insomma, anche se il libro fa pena, le case editrici ci cascano e lottano per averlo con anticipi impossibili, fino a mezzo milione di dollari e oltre. Calcolate che alla spesa iniziale non solo va aggiunto il costo (in paragone ridicolo) della traduzione, ma soprattutto quello della stampa di innumerevoli copie con cui saturare librerie, supermercati e autogrill. Per essere efficace, l’impatto dell'uscita sulla popolazione dev’essere pari all’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest nel ‘56 e a Praga nel ‘68. Se un editore non è abbastanza potente da imporre il libro a forza sul mercato, non riesce certo a rientrare dei costi e il cosiddetto bagno di sangue è inevitabile.

Metodo numero due: l’editore italiano vede che cosa funziona sul mercato e arruola un’autrice o un autore che si immetta in un filone collaudato, fabbricando un prodotto di routine come richiesto. Viene rifiutata, beninteso, qualsiasi cosa si discosti dagli stereotipi. Per forza poi si creano equivoci: se dico a un lettore di gialli che scrivo gialli, mi sento domandare quale sia il piatto preferito del mio commissario. Vagli a spiegare che i miei personaggi non sono commissari, bensì spie e killer internazionali, e che l’unico che si dedichi ai fornelli è un detective spagnolo senza licenza, appassionato di sobrasada maiorchina.

Metodo numero tre, il più sicuro da qualche tempo a questa parte: reclutare un personaggio pubblico, una star televisiva o un’influencer, con o senza apostrofo, e pubblicarne un libro eventualmente (ma non necessariamente) scritto da un opportuno ghostwriter. Nata a scopo di finanziamento per poi pubblicare anche buoni libri, tale pratica oggi pare invece la priorità. Nulla esclude che costei o costui possa scrivere benissimo, ma è un aspetto secondario. Anzi, se si tratta di un'analfabeta funzionale è meglio, perché il pubblico si identifica di più. Tant'è che si diffonde sui social network una nuova modalità di propaganda: Guarda che schifo di libro! Condividi se sei indignato! Dal momento che il target consiste in non-lettori attratti solo dal nome e dalla foto in copertina, la pubblicità funziona anche così.

Ah, sì: di tanto in tanto l’editoria italiana pubblica anche libri di gente che sa scrivere sul serio. Vale quanto scrisse Raymond Chandler a proposito della Hollywood degli anni d’oro: forse vi sembra che produca ben poco di valido, ma se sapeste cosa c’è dietro vi stupireste che esca anche quel poco.

E questo è solo il principio della filiera. Nelle fasi successive diventa anche peggio. Ma di questo (s)parlerò un’altra volta.

A proposito... condividi se sei indignato!

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Immagine: A. C. Cappi in una foto di Effigie

Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

1-Il Paradosso Strumpf

2-Fumo negli occhi

3-Una testa piena di gente

4-Giallosapevo

5-Le storie dentro di noi

6-Lo scrittore inesistente

7-Se sapeste cosa c'è dietro...

8-Al buio gli scrittori sono neri

9-Perché sono le donne...

10-Nato per perdere?

11-E' solo l'inizio


jueves, 17 de septiembre de 2020

Vita da pulp - Lo scrittore inesistente


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto, di Andrea Carlo Cappi

Se siete autori o autrici pulp, inventare storie vi viene spontaneo. Con letture, studio, applicazione e una continua autocritica, potete maturare la capacità di scriverle in modo adeguato. Ma la parte più difficile è far sì che il mondo si accorga della vostra esistenza. E, se ciò avviene, che non se ne dimentichi subito dopo.

Primo, perché in Italia da sempre anche gli analfabeti vogliono diventare scrittori, ingolfando le case editrici di testi da esaminare. In quanto ignoranti, non sanno che scrivere non è così facile, né che farlo non comporta fama e ricchezza.

Secondo, perché nel momento in cui svelate a editori e media che scrivete pulp, è come se foste incappucciati a un raduno del Ku Klux Klan che si scoprono il volto e mostrano di essere neri.

Quando decisi che avrei messo in atto il mio piano di diventare scrittore-traduttore, non conoscevo nessuno nel mondo dell’editoria, non avevo canali privilegiati per far leggere un mio dattiloscritto tra mucchi di migliaia di dattiloscritti. Sapevo solo che quanto scrivevo poteva interessare alla redazione dei periodici Mondadori. Non dimenticate però che fin dall’età di sei anni il mio ispiratore era James Bond. Nell’estate del 1988 trovai l’agente segreta di cui avevo bisogno: una bellissima ragazza che per puro caso lavorava alla Mondadori, anche se non negli stessi uffici. Ma grazie a lei ottenni una prova di traduzione per Il Giallo Mondadori e lasciai un mio dattiloscritto in lettura a Segretissimo. Non ero certo un raccomandato: i tempi di risposta restavano lunghi, ma non geologici.

Con la traduzione non me la cavai male, ma non fui giudicato particolarmente interessante. Il romanzo ebbe invece buoni giudizi: lo lessero persino Mario Morelli, traduttore di Gérard De Villiers e autore a sua volta, e Stefano Di Marino, che stava per diventare il massimo autore di spy-story in italia. La mia storia di spionaggio fu persino considerata per una pubblicazione, anche se dopo oltre un anno mi arrivò una risposta negativa. In effetti, con il senno di poi, posso dire che ancora non ero pronto e che il libro avrebbe richiesto troppo editing. Quantomeno l’esperienza mi fu utile come esercizio e scoprii che Gian Franco Orsi, mitico direttore dei periodici Mondadori, è una persona di rare serietà e cortesia.

Il problema era che avevo avuto la mia occasione e non avevo avuto successo. Per la mia famiglia, ciò significava che stavo perdendo il mio tempo: avrei dovuto abbandonare certe distrazioni e completare gli studi. Purtroppo a quell’epoca per laurearsi all’università che frequentavo, pur studiando giorno e notte, i più brillanti impiegavano un decennio e io non ero tra quelli. Mi trovai arenato, senza un soldo, senza tempo libero e senza vie d’uscita. A salvarmi sarebbe stata proprio l’ostinata determinazione a diventare uno scrittore pulp, ma questo ve lo racconto un’altra volta.

La questione di oggi è la necessità di dimostrare la propria esistenza, una guerra che comincia quando nessuno ci conosce e che continuerà per sempre. La situazione non cambia dopo che avete pubblicato qualche racconto, un romanzo o tre. E non mi riferisco a uscite presso piccoli editori coraggiosi ma poco visibili, né tantomeno (assolutamente!) agli editori a spese dell’autore. Se non vi capita di diventare fenomeni editoriali di cui tutti parlano ogni giorno sui mezzi di informazione - preferibilmente nazionali - non pensate mai di essere arrivate o arrivati.

Uno degli equivoci più tristi di cui ho visto parecchie volte vittime autrici e autori alle prime armi riguarda una certa clausola del contratto del primo libro: l'editore esige di visionare le vostre opere successive, che non dovrete proporre a nessun altro. Questo non significa che l'editore sia interessato al vostro secondo libro. Semplicemente si tiene la possibilità di pubblicarvelo, qualora il primo abbia avuto successo. Ma l'editore non fa il minimo sforzo perché il vostro primo libro abbia successo.

Pertanto, quando vi presentate sorridenti con il vostro secondo libro, all'editore non interessa più. La clausola aveva senso ai tempi in cui una casa editrice cercava di costruirsi una scuderia di autrici e autori da far crescere, evitando però che poi arrivasse un concorrente più grosso che glieli portasse via. Ciò non capita quasi più. Quindi, se non siete diventati/e per miracolo una macchina per fare soldi, dopo un'attesa inutilmente lunga il vostro secondo libro sarà rifiutato. E vi troverete a cercare un altro editore, ricominciando da capo.

La verità è che, anche se avete pubblicato presso un grosso marchio, il mondo editoriale non aspetta altro che liberarsi di voi una volta per tutte. C'è troppa gente che scrive o cerca di farlo, occorre fare spazio e chi non vende a sufficienza viene eliminato. È per questo che, se vuole sopravvivere, lo scrittore - pulp o non pulp - dovrà diventare anche altre cose.

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Immagine: A. C. Cappi in una foto di S. Di Marino

Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

1-Il Paradosso Strumpf

2-Fumo negli occhi

3-Una testa piena di gente

4-Giallosapevo

5-Le storie dentro di noi

6-Lo scrittore inesistente

7-Se sapeste cosa c'è dietro...

8-Al buio gli scrittori sono neri

9-Perché sono le donne...

10-Nato per perdere?

11-E' solo l'inizio

viernes, 11 de septiembre de 2020

Vita da pulp - Le storie dentro di noi


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto, di Andrea Carlo Cappi

A che età si decide di diventare uno scrittore o una scrittrice pulp? Forse quando ci rendiamo conto di avere tante storie dentro di noi. Nel mio caso avvenne a sei anni, ovvero mezzo secolo fa.

Ero sotto l’influsso di esperienze diverse: i primi libri di Salgari e la scoperta di Diabolik; al cinema, il mio primo Hitchcock, il mio primo 007 e i miei primi western, spaghetti e non. Di lì a poco sarebbero arrivati Tex, i fumetti Marvel, Il Giallo Mondadori, Urania e molto altro. Per Segretissimo avrei dovuto aspettare, dato che molti romanzi di quella collana erano considerati... troppo audaci per un ragazzino.

Credo che parte della spinta a diventare scrittore si debba a James Bond. Mi fu chiaro fin da subito che i film di 007 provenivano dai romanzi di un certo Ian Fleming e intuii che lo stile di vita del personaggio coincidesse con quello dell’autore; con la differenza, pensavo, che se scrivi libri nessuno cerca di ucciderti. Ignoravo due dettagli: che Fleming veniva da una famiglia di banchieri e che a volte gli editori possono essere letali quanto la SPECTRE.

D’altro canto, poiché fin dall’infanzia la mia testa continuava a secernere storie, fare lo scrittore mi è sempre sembrata la scelta più logica. E, dato che mi interessavano detective, spie e criminali, il mio campo doveva essere il giallo ad ampio spettro, seppur con qualche occasionale deviazione nel fantastico.

Raccoglievo ritagli di giornale su tutto quello che poteva essere utile per documentarmi. Tra le medie e il liceo riempii diversi quaderni di racconti. Li avrei dimenticati e riletti nel 1991, constatando che lo stile lasciava molto a desiderare, ma sorprendendo me stesso con trame e colpi di scena inattesi. In seguito ne avrei riciclati parecchi, riscrivendoli meglio di quanto sapessi fare prima. Le basi del mio primo racconto pubblicato (su Il Giallo Mondadori, nel 1993) e delle prime storie di Carlo Medina (uscite in SuperGiallo Mondadori dal 1994, poi raccolte nel 2003 nel volume Milano da morire, riedito da Oakmond dal 4 novembre 2020) risalgono a quando avevo quattordici-quindici anni.

Alla fine degli anni Ottanta il piano era pronto. Al liceo mi ero reso conto che saper scrivere in modo dignitoso mi era d’aiuto nel fare traduzioni. Pensai dunque di propormi come traduttore, intanto che cercavo di pubblicare qualcosa, benché fossi conscio che nessuno dei due lavori sarebbe stato molto remunerativo. Ci sarebbero voluti ancora qualche anno, qualche imprevisto e, alla fine, una serie di fortunate coincidenze perché il progetto si realizzasse. E non crediate che da allora sian sempre stato tutto rose e fiori. Questo però ve lo racconterò un’altra volta.

Ciò che mi interessa sottolineare oggi è che il motore di tutto sono le storie che affollano la mente di chi scrive pulp e i personaggi che, come diceva Pirandello, vengono a cercare l'autore. Non si scrive per diventare famosi, anche se una certa notorietà – come vedremo la prossima volta – si rende necessaria per non essere rimossi dal mercato. Non si scrive per diventare ricchi, anche se scrivere è un lavoro che dovrebbe essere retribuito, non sfruttato. Si scrive perché è una necessità irrinunciabile.

Le tecniche di scrittura si possono e si devono imparare. Ma a fare la differenza sono le idee, che nascono di continuo: quando si legge una notizia oppure un racconto altrui, quando si vede un film, quando capita qualcosa di insolito. Chi scrive narrativa popolare vive simultaneamente in parecchi universi: il proprio e quelli paralleli delle sue trame, in cui fatti e persone della vita reale trasmigrano di continuo, diventando qualcos’altro.

Per chi scrive pulp non esiste l’incubo della pagina bianca, non c’è il timore dell’ispirazione che non arriva. Semmai ne arriva troppa e su di noi incombe l’angoscia dell’orologio e del calendario. Specie quando si deve condividere il proprio tempo con attività a scopo di sussistenza e non ne rimane abbastanza per scrivere tutto ciò che si vorrebbe.

Forse è una sorta di tossicodipendenza: la ricerca di paradisi o inferni artificiali attraverso la narrazione. Può anche essere il desiderio di creare mondi in cui siamo noi a fare la parte di Dio. Può persino essere un tentativo di colmare spaventose lacune affettive: se i lettori ameranno i nostri personaggi, ameranno indirettamente anche noi. Ma, a mezzo secolo dalla mia scelta di vita e dopo quasi trent’anni di attività, sono certo di due cose: è per questo che sono nato e non intendo smettere di farlo.

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Immagine: illustrazione di Giovanna Pimpinella/Piantatastorta

Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

1-Il Paradosso Strumpf

2-Fumo negli occhi

3-Una testa piena di gente

4-Giallosapevo

5-Le storie dentro di noi

6-Lo scrittore inesistente

7-Se sapeste cosa c'è dietro...

8-Al buio gli scrittori sono neri

9-Perché sono le donne...

10-Nato per perdere?

11-E' solo l'inizio



martes, 8 de septiembre de 2020

Io sono il Male


Imprecazioni di Andrea Carlo Cappi

Salve a tutti. Mi presento. Sono il Male.

Da cosa ne ho avuto conferma? Poco fa, a Milano, lavoravo fumando sul balconcino, seduto su uno sgabello con il computer appoggiato sul davanzale: una delle mie postazioni abituali. Stavo pensando che, finito il mozzicone di toscano, essendo il mio compleanno avrei potuto anche accendermi uno dei sigari centroamericani della mia scorta. Ma una signora mi ha avvistato e con molta cortesia mi ha fatto sapere che dalla finestra della sua cucina - almeno una dozzina di metri più in là, sfidando le leggi della fisica - entrava il fumo che la infastidiva.

Ora, è vero che io sono il Male, ma sono anche un gentiluomo. Se una signora mi lascia gentilmente intendere che devo spegnere il sigaro, lo spengo. Non rispondo con frasi sgradevoli tipo 'Signora, chiuda la finestra'. Non rispondo nemmeno 'Signora, già che è in cucina, apra il gas nel forno e ci metta dentro la testa', anche perché, da quando il metano ha preso il posto del gas-città, saturarne una stanza comporta non l'asfissia del singolo bensì la potenziale esplosione del caseggiato. Ma il metano, si sa, ti dà una mano.

Il problema non è il metano, che richiede prese d'aria sufficienti per non fare un cratere delle nostre case. Tant'è che non sarebbe neppure necessario tenere aperte le finestre, se non in piena estate. Del resto spesso in questa zona, dalle sette di sera alle otto del mattino, è opportuno tenere le finestre ben sigillate, a causa dei fetori che aleggiano per buona parte della notte. Non so cosa siano: sono diversi dall'odore chimico di smog che sentivo in un'altra zona della città da bambino nei primi anni Settanta, spesso abbinato a una nebbia che ricordo luminescente e fluorescente, come la rividi un decennio dopo ne Il ritorno dei morti viventi.

Questi fetori notturni sono diversi anche dalle emanazioni che sentivo salire dal cortile ai tempi del liceo e di cui, da lettore di gialli, riconoscevo il caratteristico aroma di mandorle amare. Per non parlare di quando vivevo ai margini dell'Area C, per cui il traffico si concentrava nella mia strada e oltre all'inquinamento c'erano anche le vibrazioni. Quell'odore di gas di scarico, qui lo ritrovo all'angolo della strada, dove una strettoia, con un semaforo e la fermata dei bus, si trasforma in una camera a gas. I fetori notturni invece non sono ancora identificati.

Ma il problema non è l'inquinamento. Il vero problema sono i fumatori. E ancora sono tollerati i fumatori di sigarette (convenzionali o elettroniche). Di fumatori di pipa se ne vedono pochi. Quindi la vera incarnazione del Male sono i fumatori di sigari. Capisco che il fumo ravvicinato, il fumo stantio in casa e via dicendo diano fastidio. Per questo fumo solo in ambienti dove ci sono solo io, oppure all'aperto e lontano da altre persone. Una volta ero solito fumare per strada, tenendomi a distanza dai passanti, dissimulato fra i tubi di scappamento. Ma ora all'aperto e in presenza di altri uso la mascherina, per proteggere dal mio alito mefitico e mefistofelico tutti coloro che si fermano sul marciapiede a chiacchierare a distanza ravvicinata e senza protezioni, salivando in libertà.

Ma il problema non sono gli imprudenti, né la folla che l'altra sera ho visto riempire la piazza della movida in una nota località di mare. Il problema sono i fumatori. Del resto in Spagna, sulla base di una teoria tutta da dimostrare, è stato da poco proibito di fumare all'aperto, perché: a) i fumatori sono più a rischio Covid degli altri b) il fumo trasporta il virus c) completando il sillogismo, il fumatore ti trasmette il Covid. Non lo sportivo che a fine allenamento ansima e sputacchia spompato. Non il tipo che ti si piazza davanti a cinquanta centimetri e ti parla senza mascherina, perché lui è immune e il Covid è un complotto di Big Pharma. A contagiarti è il fumatore.

In Spagna la vicina avrebbe potuto accusarmi di tentato omicidio. Be', anche in Italia, considerando il sospetto di fumo passivo. Inutile tentare di spiegare che, da quando fumo sigari, non soffro più di tutte le affezioni alle vie respiratorie che mi hanno perseguitato fino ai quarant'anni. D'accordo, è un'affermazione fenomenologica su un singolo, priva di dimostrazione scientifica. Ma, visto che su di me funziona, non voglio togliermi quella che potrebbe essere la mia barriera primaria contro il Covid, la peste suina e il gomito del tennista (i tennisti non fumano mentre giocano, infatti io non gioco a tennis).

Il fatto è che un fumatore, specie di sigaro, si vede anche a una certa distanza. E la gente ha bisogno di un capro espiatorio visibile. Ora sono in piedi alla finestra del bagno, con il computer e il posacenere sul davanzale. La persiana è semiaperta, in modo da fare da barriera al flusso di aria nella direzione della vicina ma, soprattutto, da evitare che il fumo sia visibile. Del resto si sa: il Male si nasconde ovunque.


viernes, 4 de septiembre de 2020

Vita da pulp - Giallosapevo

 


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto, di Andrea Carlo Cappi

Se, come abbiamo visto, la parola pulp è stata oggetto di equivoci, per il termine giallo l’interpretazione è ancora più ambigua, assimilando chi vi si dedica a una specie di sarchiapone.

È noto che in Italia l’impiego di giallo in relazione a misteri e delitti risale a un’usanza di Arnoldo Mondadori Editore negli anni Venti: pubblicare collane di narrativa contraddistinte da colori diversi. I Libri Verdi erano romanzi storici, I Libri Azzurri trattavano perlopiù di vicende esotiche. Nel 1929 I Libri Gialli proposero per la prima volta in modo sistematico al pubblico italiano le detective stories che ormai erano un genere consolidato all’estero. Nel 1933 nacquero anche I gialli economici, in formato rivista nelle edicole.

Gli autori erano soprattutto inglesi, primo fra tutti Edgar Wallace. Nelle due collane fecero capolino Agatha Christie con Hercule Poirot, gli americani S.S. Van Dine con Philo Vance (che inaugurò la collana) ed Erle Stanley Gardner con Perry Mason; qualche francese e persino qualche autore italiano. Il regime non amava la letteratura di delitti, né quella di provenienza straniera né tantomeno quella di produzione nazionale, tanto che l’allora esordiente Giorgio Scerbanenco dovette ambientare i propri romanzi a Boston, mentre nella traduzione di Orient Express (come fu intitolata la prima edizione di un celebre romanzo della Christie) l’autista italiano diventava... brasiliano. Gli italiani dell’Era Fascista non potevano avere a che fare con gli omicidi.

Dopo qualche tempo, perciò, la collana fu chiusa per ordini superiori, ma riaprì nel 1946 come Il Giallo Mondadori, in edicola a cadenza settimanale. C’era ancora in lista qualche pregevole autore italiano, ma la netta prevalenza era di romanzi inglesi e americani. Ed è a questo punto che si crea un primo equivoco, dovuto non solo alla diffusione in edicola, ma anche a traduzioni tagliate per ridurre la lunghezza dei libri, come capitò alle primissime pubblicazioni di Raymond Chandler nel settimanale mondadoriano, cui fu resa giustizia nelle edizioni successive.

Prima o poi, tutti gli editori vollero avere una propria collana di gialli: Garzanti, Longanesi, Feltrinelli, Rizzoli... Eppure tali libri erano considerati dalla critica un prodotto sbrigativo, semplice e di scarso valore. Letteratura ferroviaria. L’apparizione di collane imitative presso case editrici minori, che tra gli anni Cinquanta e Sessanta pubblicarono romanzi talvolta improvvisati di autori italiani sotto pseudonimo straniero o semplicemente buoni libri stranieri mal tradotti, contribuì a un’immagine negativa del genere.

Si consolidò inoltre un secondo equivoco: l’erronea convinzione che gli italiani non fossero capaci di scrivere gialli. Un sospetto che ogni tanto è venuto anche a me, esaminando dattiloscritti di aspiranti autori nazionali nel mio lavoro di lettore per case editrici. Ricordo una volta che durante un viaggio in treno dovetti leggere un testo ignobile proposto a Mondadori: nella stroncatura scrissi che, se il giallo dev’essere letteratura ferroviaria, quel romanzo invitava a guardare fuori dal finestrino; anche in galleria.

Il terzo equivoco è invece linguistico. Il Giallo Mondadori pubblicava un ampio ventaglio di romanzi che oggi potremmo classificare come giallo classico, noir, thriller, spionaggio (sottogenere che nel 1960 si guadagnò una collana a parte presso Mondadori, Segretissimo). Ma nel corso degli anni la parola giallo venne a indicare soprattutto la detective story tradizionale, il whodunit (ovvero: chi è stato?) ossia il giallo classico, per intenderci quello alla Agatha Christie.

Nel contempo, sui giornali, il vocabolo giallo cominciò a essere usato per indicare qualsiasi caso di omicidio irrisolto, in quella che peraltro si definiva cronaca nera. Mentre all’estero, con il successo mondiale dei film di Dario Argento e molti altri registi italiani alla fine degli anni Sessanta, giallo divenne la definizione di quel tipo di storie - da noi chiamate "thrilling", spesso imperniate su serial killer (ante litteram), talvolta persino con qualche elemento fantastico, un concetto assente e addirittura proibito nel giallo classico.

Altrove il percorso fu diverso: nel 1945 l’editore francese Gallimard inaugurò la collana Série Noire, che si orientò soprattutto sul filone hardboiled americano, da Dashiell Hammett in poi. Nel 1946 il critico francese (di nascita italiana) Nino Frank usò il termine film noir a proposito de Il mistero del falco, tratto appunto da Il falcone maltese di Hammett, consacrando la parola noir a definizione del sottogenere. Sicché anche in spagnolo si sarebbe poi parlato di novela negra.

Poiché in Francia tanto la collana di Gallimard quanto i film ispirati dai romanzi che questa pubblicava godevano di grande rispetto, di rimbalzo il termine noir ebbe in tutto il mondo un destino ben diverso rispetto a quello di giallo in Italia. Ancora oggi, in Italia, un autore di gialli è considerato uno scrittorucolo; non così un autore di noir, quello sì che è uno scrittore! Anche se, proprio per questo, a volte si classificano "noir" romanzi che andrebbero considerati "gialli", senza che questo significhi che sono scadenti. Ma se dici di scrivere gialli, di solito fai brutta figura in società.

«Giallosapevo che non era giallo», diceva Walter Chiari a Carlo Campanini nel leggendario sketch televisivo Il Sarchiapone, fingendo di sapere benissimo di cosa si trattasse e di che colore fosse. Se il sarchiapone è una misteriosa creatura risalente a Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, il numero di Walter Chiari si ispira invece a una barzelletta scozzese, anche questa di ambientazione ferroviaria, in cui si parlava di un imprecisato macguffin.

Guarda caso, prendendo spunto proprio dalla barzelletta, questa è la parola con cui Alfred Hitchcock indicava il motivo per cui i personaggi di un suo film fanno quello che fanno: il macguffin può essere uranio in polvere in una bottiglia nascosta in cantina, o il segreto di un trauma sepolto nell'inconscio, oppure un microfilm dentro una statuetta. Pur essendo la chiave di un mistero, per lo sceneggiatore di turno non è poi così importante che cosa sia il macguffin, ciò che conta è che i protagonisti dovranno impedire che cada in mani sbagliate e nel frattempo si evolveranno i rapporti fra loro. In sostanza, è uno dei segreti del Mago del Brivido che, anche se non era classificato noir, sapeva benissimo come si realizzava un giallo.


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Immagine: A. C. Cappi sul set del film "Quantum of Solace", foto di Riccardo Mazzoni

Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

1-Il Paradosso Strumpf

2-Fumo negli occhi

3-Una testa piena di gente

4-Giallosapevo

5-Le storie dentro di noi

6-Lo scrittore inesistente

7-Se sapeste cosa c'è dietro...

8-Al buio gli scrittori sono neri

9-Perché sono le donne...

10-Nato per perdere?

11-E' solo l'inizio