Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi
Uno dei grossi problemi per chi scrive in italiano è... l'italiano. Una delle persone da cui ho imparato a scrivere e a lavorare, un giornalista di notevole cultura di nome Bartolo Pieggi, diceva che nella nostra lingua è sempre in agguato il conciossiacosaché. Ovvero l'uso di espressioni solenni e arcaiche - come appunto questa, un modo inutilmente complesso per dire poiché - impiegate per dare al linguaggio un tono illustre e per sfoggiare cultura, illudendosi che siano queste le regole del bello scrivere.
Il risultato è che da una parte c'è chi si trova in difficoltà con i congiuntivi o scopiazza espressioni sentite fin troppo spesso in televisione (o sui social network che ne hanno preso il posto), dall'altra c'è chi - avendo letto qualche libro o qualche brano di antologia scolastica - si perde in esercizi linguistici che molto spesso si risolvono in frasi incomprensibili o quantomeno artificiose. Tutt'intorno c'è chi mutua parole o costruzioni a caso dall'inglese pur senza conoscerlo, crea neologismi fastidiosi o annaspa quando deve descrivere qualcosa per cui esistono parole precise ma dimenticate.
In italiano c'è sempre stato uno scollamento tra la lingua scritta e la lingua parlata; oggi però quest'ultima si impoverisce così in fretta da rendere quasi impossibile usarla per scrivere. S'intende che narrazione e dialoghi devono essere coerenti con la storia, l'ambientazione e il contesto sociale. Sarebbe poco credibile un malavitoso di periferia che dice "Vi state burlando di me?", quanto lo sarebbe un nobiluomo del Settecento che si esprimesse come un ospite della Casa del Grande Fratello.
L'amica scrittrice Giada Trebeschi, autrice e interprete su vari social network de La rubrica delle parole desuete, propone quotidianamente con i suoi brevi sketch termini a volte legati a un determinato contesto storico, a volte relativi ad attività ormai tramontate, a volte invece di uso comune ma... non più abbastanza comune. Questi ultimi sono desueti loro malgrado (e nostro malgrado), perché il loro impiego corretto arricchirebbe la lingua e il nostro modo di comunicare.
C'è insomma desueto e desueto.
Non tutti sono in grado di fare la distinzione. Rimase celebre presso la redazione de Il Giallo Mondadori un manoscritto riproposto con insistenza (e bocciato regolarmente) in cui la trama faceva acqua da ogni parte, ma dominava un presunto bello stile che ai suoi tempi Dante Alighieri avrebbe trovato datato e di maniera. Tenete presente che:
-non si "nobilita" la letteratura di genere applicandole a forza modalità espressive fabbricate a tavolino sfogliando un vecchio dizionario e pompando il testo di similitudini ritorte, nella convinzione che così, sì, sarebbe un giallo (quindi letteratura di serie B) ma grazie alla sua finezza stilistica diventa subito un capolavoro della letteratura italiana, quindi si può perdonargli di essere un giallo.
-viceversa, non si diventa più realistici e noir se ci si esprime a tutti i costi in un linguaggio "da strada", nella convinzione che i personaggi siano "veri duri" se nei loro dialoghi (improbabili) sparano parolacce a sproposito.
-In effetti, per ogni testo e, nei dialoghi, per personaggi di tipologie diverse, occorre stabilire un adeguato registro linguistico; e, già che ci siete, i dialoghi devono essere credibili (può essere d'aiuto immaginare che siano all'interno di una conversazione tra voi e altre persone: parlereste davvero in quel modo?)
Il discorso vale sia per chi scrive, sia per chi traduce. La narrazione convenzionale di eventi contemporanei in terza persona, se non è inserita in contesti particolari o sperimentali che le impongano regole diverse, dev'essere equilibrata, non troppo elaborata ma nemmeno troppo povera di vocaboli. Al tempo stesso i dialoghi e le riflessioni in soggettiva devono essere fedeli ai personaggi.
Per fare un esempio, negli anni Duemila tradussi vari romanzi di Douglas Preston & Lincoln Child in cui ricorrevano il protagonista Aloysious Pendergast e i suoi comprimari. Tradurre il loro singolare agente dell'FBI era una delizia, come spiegai allo stesso Preston, che capiva a sufficienza l'italiano da cogliere certe sfumature: Pendergast è una persona di enorme cultura, quindi dispone di un lessico molto ricco e ha sempre il vocabolo adatto per ogni circostanza, sia quando parla, sia quando segue i propri flussi di pensiero; può persino concedersi qualche finezza linguistica che sarebbe di troppo in un altro personaggio. Laddove il suo amico e compagno di indagini Vincent Dagosta non ha lo stesso bagaglio culturale e si esprime in modo meno elaborato e più diretto, anche se non certo da illetterato. Quando entrava in scena l'ottocentesca Constance Greene, cresciuta tra i libri di una vecchia biblioteca, le riservavo un linguaggio volutamente datato, quello di una persona che non aveva familiarità con il modo di parlare moderno. In inglese le distinzioni erano meno evidenti, mentre in italiano personaggi così diversi dovevano parlare in modo differente l'uno dall'altro.
Le cose cambiano quando la narrazione è in prima persona, quindi tutta la storia viene raccontata dal punto di vista di un personaggio, il cui linguaggio - non solo nei dialoghi ma anche nella narrazione - deve coincidere con la sua stessa natura. Se il personaggio è un soggetto medio, il suo modo di esprimersi sarà nella media. Le cose cambiano se ha caratteristiche insolite o addirittura un linguaggio personale: mi viene in mente Alex, il protagonista di Un'arancia a orologeria (o Arancia meccanica, se pensiamo alla versione di Kubrick). L'edizione italiana del libro e del film sono un esempio di come i traduttori abbiano dovuto rendere nella nostra lingua lo slang ideato dallo scrittore Anthony Burgess.
Bisogna sempre tenere presente chi stia parlando. Quando, molti anni fa, facevo il revisore di traduzioni per Il Giallo Mondadori, trovai in un romanzo (ritradotto) di Agatha Christie termini che nessun personaggio di Agatha Christie avrebbe mai usato. Viceversa, in un romanzo di Ian Rankin, incontrai uno sbirro che in italiano parlava come un gentiluomo di altri tempi, mentre nel testo originale si esprimeva come... uno sbirro.
Per inseguire il realismo a ogni costo, la maggior parte dei personaggi di una storia di oggi dovrebbe ormai esprimersi in un italiano senza congiuntivi, perché non capita di sentirne molti in giro. Se devo far parlare un personaggio del genere... be', nelle sue battute di dialogo cerco il più possibile di formulare frasi che non richiedano il congiuntivo, in modo da evitare problemi, a meno che non voglia evidenziare il suo modo di parlare scorretto. Questo non evita, nella narrazione in terza persona, che congiuntivi e condizionali siano dove devono essere e come devono essere.
La situazione si complica ulteriormente se la vicenda è ambientata in un'altra epoca. Claudia Salvatori, scrittrice che ha ambientato molte sue opere in periodi del passato, osserva come nella narrativa "storica" contemporanea personaggi di tempi remoti "pensino, parlino e agiscano come se fossero appena usciti da un bar di provincia". Mi viene in mente un esempio. Tempo fa, in un romanzo storico ho trovato un dialogo tra personaggi, mi pare, del Seicento, in cui uno dei due diceva all'altro "Tieni un profilo basso"... Ora, è chiaro che non possiamo far parlare personaggi del passato esattamente come avrebbero parlato al loro tempo: anche se fossero stati "italiani", prima di una certa epoca non si sarebbero nemmeno potuti esprimere in italiano, bensì in latino, in dialetto o addirittura in lingue straniere.
Dobbiamo adottare un linguaggio convenzionale, che sia accettabile per un lettore contemporaneo, ma non sia troppo estraneo al tempo in cui si svolge la vicenda, il che esclude non solo espressioni entrate da poco nella nostra lingua, ma anche concetti che in quel periodo non esistevano. Non va dimenticato che in epoche diverse si ragionava in modo diverso. Persino una storia ambientata trent'anni fa si svolge in un mondo concettualmente e quindi linguisticamente diverso da quello in cui viviamo oggi. Immaginatevi quanto può essere differente una storia che si svolge all'epoca degli antichi egizi o degli antichi romani.
E l'errore è sempre dietro l'angolo, proprio come il proverbiale centurione nel film peplum il cui interprete si è scordato di togliere l'orologio, o la ripresa dei tetti della Roma papale ottocentesca in cui si notano le antenne televisive che brillano al sole. Rimpiango l'amico Paolo Brera, attentissimo a certi dettagli, che in una pagina del nostro romanzo a quattro mani mi corresse "bicchiere di vino" in "scodella di vino", perché in quel luogo e in quel contesto il vino si beveva in ciotole, non in bicchieri (e stiamo parlando solo di centocinquant'anni fa).
Il che comporta che, per scrivere una storia credibile ambientata nel passato, ci si debba documentare a tal punto da ragionare e quindi far parlare il più possibile i personaggi come se appartenessero a quel tempo. Ma, anche in questo caso, evitate costruzioni assurde, parole incomprensibili e termini di un italiano che, nella realtà, non è mai davvero esistito.
Continua...
Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker