jueves, 15 de diciembre de 2022

Vita da pulp - Il Metodo Stanislawskij


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Un paio di anni fa, in questa rubrica, pubblicai un post intitolato "Una testa piena di gente", in cui citavo il Metodo Stanislawskij come uno strumento efficace ed essenziale anche per chi scrive, non solo per chi recita. Come è noto, il metodo in questione consiste nell'approfondire la psicologia del personaggio - anche oltre ciò che appare nel testo - e collegarne le emozioni alle proprie. In sostanza, arrivare all'identificazione interprete-personaggio.
La stessa tecnica funziona anche quando si scrive, con una differenza sostanziale: l'autrice o l'autore ha l'obbligo di essere non solo tutti i personaggi di cui assume il punto di vista, ma in un certo senso anche coloro con cui questi interagiscono nel corso della vicenda.
Un'autrice/un autore (con tutte le sue caratteristiche personali, etniche, sessuali e via dicendo) può scrivere un romanzo con un proprio alter ego assoluto, narrando la vicenda dal suo esclusivo punto di vista. Ma dovrà per forza occuparsi anche di personaggi secondari più o meno diversi da quello principale. A meno che la/il protagonista non passi tutta la storia in isolamento totale, senza mai non solo avere ma nemmeno ricordare alcuna interazione con altri esseri umani; suppongo però che così l'opera risulterebbe moderatamente noiosa.

Insomma, non se ne esce: dobbiamo diventare "altro" da noi stessi. Non è né facile né immediato. Per cominciare, i personaggi devono adottare il "registro linguistico" corrispondente, ossia devono parlare come parlerebbero i loro equivalenti nella realtà. La questione dei dialoghi è molto delicata e vale anche quando si riportano come "discorso pensato" i pensieri che passano per la testa di un personaggio. Chi è? In che epoca vive? Quanti anni ha? Qual è il suo livello culturale? Quanto è ricco (o povero) il suo vocabolario? Quali sono i suoi processi mentali? Poi ci sono personaggi che devono per forza esprimersi in modo sgrammaticato: come ho già detto su queste pagine web, per evitare di scrivere frasi scorrette, quando li faccio parlare cerco di aggirare le costruzioni che richiedano congiuntivi e condizionali; ma di recente ho raccontato di un personaggio storico noto per i suoi strafalcioni linguistici e non ho potuto risparmiargli almeno un condizionale strampalato (spero che non capiti in mano a un editor che non lo capisca e lo corregga pensando che sia un mio errore...)
A volte però chi si cimenta nella narrativa o nella sceneggiatura fa parlare i personaggi con un linguaggio a metà tra gli slogan pubblicitari e la modulistica burocratica (che siano questi gli unici esempi di lingua scritta con cui l'autore/autrice ha a che fare?) Oppure, semplicemente, con dialoghi assurdi... non nel senso di Samuel Beckett, ma assurdi in quanto composti da parole scelte a caso. Giusto ieri mi è stato segnalata una frase da quello che in questo periodo sarebbe "il romanzo più venduto d'Italia" (di autrice italiana e ambientazione americana): «Ora sei diventata sorda?» latrò infastidita. «O per caso credi che lo sia io? L’aria aperta ti ha forse foderato le orecchie?» Per la mia maestra romagnola alle elementari, semmai, le orecchie erano "foderate di prosciutto", ma capisco che oggi certe espressioni mutino, per non rischiare di offendere la sensibilità dei vegani. Si noti anche l'uso del verbo "latrare", per cui rimando a un mio post di qualche tempo fa, "La lingua batte dove il Dante duole". 
Ecco il mio modesto suggerimento: immedesimatevi nei personaggi e immaginatevi nella situazione raccontata. Chiedetevi cosa direbbe chi vi sta intorno e come lo direbbe, da persona vera, non da artificioso, presunto "personaggio letterario". Ma non solo questo: cercate di percepire suoni, odori e altre sensazioni che corrispondono alla situazione. Non occorre descrivere tutto, ma bisogna sapere com'è. Se i personaggi si trovano in un campo di battaglia su cui piovono proiettili d'artiglieria, l'ambiente circostante non sarà un pascolo verdeggiante in un tranquillo giorno di primavera: tutto ciò influisce anche sul modo di pensare e di esprimersi di chi occupa la scena. Mettetevi nei loro panni.

Il discorso va applicato anche alle traduzioni. Prima di tutto, occorre entrare nella testa dell'autrice o dell'autore su cui si sta lavorando, cercando di ricreare il testo nel modo più fedele possibile... come se fosse stato concepito in italiano. Lo raccontavo qualche giorno fa durante la presentazione al Noir in Festival del romanzo "Operazione Kazan" di Vicente Vallés, rispondendo alla domanda di Luca Crovi su come mi fossi trovato a tradurlo: in questo caso è stato particolarmente semplice, perché tanto gli argomenti quanto il modo di affrontarli erano molto vicini a romanzi che scrivo io.
Dopodiché bisogna immedesimarsi quanto possibile nei singoli personaggi come li ha visti chi li ha raccontati. Ma anche qui occorre tenere presente i diversi registri linguistici. Ho già raccontato delle mie esperienze in proposito traducendo Preston & Child, nel post citato poco sopra.
Uno dei casi per me più singolari fu quello del romanzo di Ellis Weiner "Drop Dead My Lovely" (di cui tengo a precisare che non sono stato io a scegliere il titolo italiano, che fu invece deciso da una redattrice da cui mi dissocio completamente: "La strana storia del libraio cui cadde una pila di libri in testa"), Il protagonista - il libraio, appunto - si risveglia in ospedale credendo di essere un detective da vecchio romanzo hardboiled; dopodiché racconta una vicenda noir-umoristica in prima persona, nello slang americano dell'epoca della narrativa pulp, i cui termini spesso non hanno alcun equivalente nella nostra lingua. Occorreva tradurre non tanto le singole parole, quanto un intero modo di esprimersi. Per "interpretarlo" in italiano mi sono riascoltato le canzoni di Fred Buscaglione fino ad arrivare a pensare in quel linguaggio... tanto che poi ho scritto la quarta di copertina nello stesso stile. Metodo Stanislawskij, appunto. Il difficile, poi, è stato tornare a parlare in modo normale.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi in una foto di Alberto Aliverti)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

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