Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi
Chi sogna di scrivere narrativa fin dall'infanzia adotta per istinto meccanismi simili a quelli del gioco ("Facciamo finta che...") per poi applicarli alle storie che inventa: vediamo qualcosa e ci ricamiamo sopra. Così ogni piccola esperienza vissuta può diventare uno spunto che ci seguirà finché non ce ne saremo liberati. A questo proposito, ho una storiella da raccontare.
Pressappoco mezzo secolo fa, nel luogo scelto tutti gli anni dai miei genitori per le vacanze estive - la Costa de Calvià, sull'isola di Maiorca - su un molo a Son Matias si potevano noleggiare per una o due ore piccole barche a vela. Dopo avere preso qualche lezione da un istruttore britannico di nome Richard, mio padre cominciò a portarmi con sé in giro nei dintorni: lui gestiva randa e timone, io il fiocco. Fu così che, dal mare, avvistammo per la prima volta la torre.
Il termine spagnolo è atalaya (dall'arabo ṭalā'i‘, convertito nell'arabo spagnolo in at-talaya). Dal medioevo fino al XVI secolo ne furono costruite circa ottanta sulle coste dell'isola, per vigilare le incursioni dei pirati moreschi. I torrers potevano avvistarne le navi a distanza e fare segnali, visibili da una atalaya all'altra, per avvisare la popolazione del pericolo e preparare le armi per difendersi. Questa, che sorge su un promontorio fra le spiagge di Son Matias e Magaluf, è conosciuta come Torre Nueva, Torre Nova, Torre de Sa Porrassa (dal nome del terreno su cui sorge, che nel XVIII secolo era di proprietà dei marchesi de la Romana) e Torre de Na Nadala. L'intera zona ha poi preso il nome di Torrenova, toponimo che i miei lettori più fedeli hanno incontrato svariate volte nei miei libri; anche perché mi è molto familiare: è il luogo in cui sto scrivendo proprio in questo momento.
La torre di Na Nadala, come si preferisce chiamarla oggi, dovrebbe risalire al 1616: un cilindro di pietra appena rastremato, sopra una scogliera. Nel corso del Settecento pare che da qui in un paio di occasioni si sia sparato un paio di colpi di cannone, per tenere a bada rispettivamente un vascello inglese e uno genovese. Nel 1867 la torre e la tenuta circostante - 18.000 metri quadri - furono vendute. Nel Novecento i proprietari, di cui non è stato reso noto il cognome, costruirono sul terreno due chalet, seminascosti nella vegetazione: si dice che siano costruzioni degli anni Cinquanta, ma forse solo perché la prima fotografia in cui se ne scorge uno è datata 1956; poiché il tipo di architettura a me ricorda vagamente lo stile ideato da Frank Lloyd Wright negli anni Trenta, potrebbero essere anche anteriori di uno o due decenni.
Ma, come dicevo, da aspirante scrittore di spionaggio a undici anni ("Facciamo finta che...") mi immaginai che la misteriosa proprietà - di cui da terra si vedeva solo l'antica torre, di là da un cancello sempre chiuso, e dal mare solo uno dei due chalet - potesse ospitare un cattivo da film di James Bond. Nel tempo il personaggio acquisì anche un'identità parimenti fantasiosa: Alexander Rotwang, ricco e attempato playboy di origine tedesca, in realtà agente al servizio dei sovietici, che - rovesciando gli stereotipi - mi figuravo con una vaga somiglianza a Roger Moore; in casa, Rotwang ospitava la figlia Manuela - bella, bionda e pericolosa - e un manipolo di spie e sicari.
La misteriosa tenuta sul promontorio era spesso un punto di riferimento nei giri in vela con mio padre, il quale, contagiato dalle mie invenzioni, cominciò a chiamarla "la casa dei russi". Questo, curiosamente, in un'epoca in cui gli oligarchi post-sovietici erano ancora ben lontani dall'esistere, tantomeno dallo sbarcare a Maiorca per fare la spesa nel supermercato immobiliare.
La "casa dei russi" appariva in un mio romanzo di fine anni Ottanta che fu lì lì per essere pubblicato nella collana Segretissimo di Mondadori, ma non uscì; e fu meglio, perché non ero ancora arrivato alla giusta maturazione come autore di spionaggio. Nel 1991 recuperai l'ambientazione per un soggetto radiofonico, una storia di spie tra gli anni Quaranta e Cinquanta, rendendomi conto però che la vicenda sarebbe stata più adatta a un romanzo. Ma poi mi dedicai ad altro e il progetto sorto "intorno alla torre" continuò a crescere silenziosamente nel cassetto, assumendo le proporzioni di un serial ancora tutto da scrivere, collegato però al mio ciclo del Kverse cominciato nel 1994.
Poi nel 2019 Stefano Di Marino, sul punto di inaugurare presso Delos Digital Spy Game - Storie della Guerra Fredda, mi invitò a partecipare alla collana in ebook con racconti lunghi, romanzi brevi o addirittura con un serial. Fu così che ebbe inizio la saga di Dark Duet - ambientata nella Spagna di fine anni Quaranta - che per volere del destino si sarebbe sviluppata in "stagioni", come un serial tv. La morte del curatore nel 2021 impose infatti un'interruzione di quasi due anni, finché Delos non mi chiese di riprendere la collana; continuai a parteciparvi anche come scrittore, riprendendo la serie da dove l'avevo lasciata. Al termine della "prima stagione", nel sesto episodio (La baia delle spie, numero 22 della collana), i protagonisti, approdati a Maiorca, riuscivano a infiltrarsi nella "casa dei russi"; ed è lì che si svolge in buona parte la "seconda stagione", al cui sesto episodio seguì una pausa di un anno in cui diedi spazio ad altri autori e autrici. Ora però è uscito il primo episodio della mia "terza stagione" (Spie in fuga, numero 50 della collana); ed è già pronto il secondo, che apparirà prossimamente, dopo il romanzo completo di Denise Antonietti in uscita il 27 maggio 2025.
Intanto, nel mondo reale, la tenuta di Na Nadala - benché catalogata dal 1949 come "bene di interesse culturale" e dal 2015 come "monumento" - è da decenni in stato di abbandono. In base a un piano di rigenerazione urbana, il municipio locale la requisì intorno al 2000, ma pare che solo per questo debba pagare diversi milioni di euro arretrati. Si parla di lavori di restauro - che suppongo a loro volta costosi - e di una futura apertura al pubblico. Il che mi farebbe piacere, ma al tempo stesso mi inquieta, dato che io sono un fedele contribuente del Comune di Calvià (da oltre venticinque anni, fin da quando mia madre viveva qui, in un appartamento che ho ereditato dopo la sua morte). Quindi sarà bene che mi rimetta a scrivere: anche se i miei personaggi stanno lasciando la tenuta di Na Nadala per andare in cerca di avventure altrove, ho idea che la torre sarà ancora ben presente nella mia vita, sotto forma di tasse da pagare.
(Immagini: Na Nadala, fotografie di A. C. Cappi, in apertura, e C. Giovannini, in chiusura.)
Continua...
Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una settantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi. Editor, traduttore, consulente editoriale, sceneggiatore di fumetti e fiction radiofonica, fotografo, illustratore, copywriter e videomaker. Dal 1994 scrive la saga thriller Kverse, che riunisce diverse sue serie tra spy story e noir. Come autore di tie-in ha lavorato su Martin Mystère (con cui ha vinto nel 2018 il Premio Italia per il miglior romanzo fantasy), Diabolik e Profondo rosso. Membro di IAMTW, World SF Italia e dell'Associazione Andrea G. Pinketts, presiede la giuria del Premio Torre Crawford, di cui realizza le antologie annuali. Cura inoltre M-Rivista del Mistero presenta per Ardita Edizioni e la collana di spionaggio Spy Game-Storie della Guerra Fredda in ebook per Delos Digital.
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