jueves, 24 de junio de 2021

Vita da pulp - La lingua batte dove il Dante duole


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Uno dei grossi problemi per chi scrive in italiano è... l'italiano. Una delle persone da cui ho imparato a scrivere e a lavorare, un giornalista di notevole cultura di nome Bartolo Pieggi, diceva che nella nostra lingua è sempre in agguato il conciossiacosaché. Ovvero l'uso di espressioni solenni e arcaiche - come appunto questa, un modo inutilmente complesso per dire poiché - impiegate per dare al linguaggio un tono illustre e per sfoggiare cultura, illudendosi che siano queste le regole del bello scrivere.
Il risultato è che da una parte c'è chi si trova in difficoltà con i congiuntivi o scopiazza espressioni sentite fin troppo spesso in televisione (o sui social network che ne hanno preso il posto), dall'altra c'è chi - avendo letto qualche libro o qualche brano di antologia scolastica - si perde in esercizi linguistici che molto spesso si risolvono in frasi incomprensibili o quantomeno artificiose. Tutt'intorno c'è chi mutua parole o costruzioni a caso dall'inglese pur senza conoscerlo, crea neologismi fastidiosi o annaspa quando deve descrivere qualcosa per cui esistono parole precise ma dimenticate.
In italiano c'è sempre stato uno scollamento tra la lingua scritta e la lingua parlata; oggi però quest'ultima si impoverisce così in fretta da rendere quasi impossibile usarla per scrivere. S'intende che narrazione e dialoghi devono essere coerenti con la storia, l'ambientazione e il contesto sociale. Sarebbe poco credibile un malavitoso di periferia che dice "Vi state burlando di me?", quanto lo sarebbe un nobiluomo del Settecento che si esprimesse come un ospite della Casa del Grande Fratello.

L'amica scrittrice Giada Trebeschi, autrice e interprete su vari social network de La rubrica delle parole desuete, propone quotidianamente con i suoi brevi sketch termini a volte legati a un determinato contesto storico, a volte relativi ad attività ormai tramontate, a volte invece di uso comune ma... non più abbastanza comune. Questi ultimi sono desueti loro malgrado (e nostro malgrado), perché il loro impiego corretto arricchirebbe la lingua e il nostro modo di comunicare.
C'è insomma desueto e desueto.
Non tutti sono in grado di fare la distinzione. Rimase celebre presso la redazione de Il Giallo Mondadori un manoscritto riproposto con insistenza (e bocciato regolarmente) in cui la trama faceva acqua da ogni parte, ma dominava un presunto bello stile che ai suoi tempi Dante Alighieri avrebbe trovato datato e di maniera. Tenete presente che:
-non si "nobilita" la letteratura di genere applicandole a forza modalità espressive fabbricate a tavolino sfogliando un vecchio dizionario e pompando il testo di similitudini ritorte, nella convinzione che così, sì, sarebbe un giallo (quindi letteratura di serie B) ma grazie alla sua finezza stilistica diventa subito un capolavoro della letteratura italiana, quindi si può perdonargli di essere un giallo.
-viceversa, non si diventa più realistici e noir se ci si esprime a tutti i costi in un linguaggio "da strada", nella convinzione che i personaggi siano "veri duri" se nei loro dialoghi (improbabili) sparano parolacce a sproposito.
-In effetti, per ogni testo e, nei dialoghi, per personaggi di tipologie diverse, occorre stabilire un adeguato registro linguistico; e, già che ci siete, i dialoghi devono essere credibili (può essere d'aiuto immaginare che siano all'interno di una conversazione tra voi e altre persone: parlereste davvero in quel modo?)

Il discorso vale sia per chi scrive, sia per chi traduce. La narrazione convenzionale di eventi contemporanei in terza persona, se non è inserita in contesti particolari o sperimentali che le impongano regole diverse, dev'essere equilibrata, non troppo elaborata ma nemmeno troppo povera di vocaboli. Al tempo stesso i dialoghi e le riflessioni in soggettiva devono essere fedeli ai personaggi.
Per fare un esempio, negli anni Duemila tradussi vari romanzi di Douglas Preston & Lincoln Child in cui ricorrevano il protagonista Aloysious Pendergast e i suoi comprimari. Tradurre il loro singolare agente dell'FBI era una delizia, come spiegai allo stesso Preston, che capiva a sufficienza l'italiano da cogliere certe sfumature: Pendergast è una persona di enorme cultura, quindi dispone di un lessico molto ricco e ha sempre il vocabolo adatto per ogni circostanza, sia quando parla, sia quando segue i propri flussi di pensiero; può persino concedersi qualche finezza linguistica che sarebbe di troppo in un altro personaggio. Laddove il suo amico e compagno di indagini Vincent Dagosta non ha lo stesso bagaglio culturale e si esprime in modo meno elaborato e più diretto, anche se non certo da illetterato. Quando entrava in scena l'ottocentesca Constance Greene, cresciuta tra i libri di una vecchia biblioteca, le riservavo un linguaggio volutamente datato, quello di una persona che non aveva familiarità con il modo di parlare moderno. In inglese le distinzioni erano meno evidenti, mentre in italiano personaggi così diversi dovevano parlare in modo differente l'uno dall'altro.

Le cose cambiano quando la narrazione è in prima persona, quindi tutta la storia viene raccontata dal punto di vista di un personaggio, il cui linguaggio - non solo nei dialoghi ma anche nella narrazione - deve coincidere con la sua stessa natura. Se il personaggio è un soggetto medio, il suo modo di esprimersi sarà nella media. Le cose cambiano se ha caratteristiche insolite o addirittura un linguaggio personale: mi viene in mente Alex, il protagonista di Un'arancia a orologeria (o Arancia meccanica, se pensiamo alla versione di Kubrick). L'edizione italiana del libro e del film sono un esempio di come i traduttori abbiano dovuto rendere nella nostra lingua lo slang ideato dallo scrittore Anthony Burgess.
Bisogna sempre tenere presente chi stia parlando. Quando, molti anni fa, facevo il revisore di traduzioni per Il Giallo Mondadori, trovai in un romanzo (ritradotto) di Agatha Christie termini che nessun personaggio di Agatha Christie avrebbe mai usato. Viceversa, in un romanzo di Ian Rankin, incontrai uno sbirro che in italiano parlava come un gentiluomo di altri tempi, mentre nel testo originale si esprimeva come... uno sbirro.
Per inseguire il realismo a ogni costo, la maggior parte dei personaggi di una storia di oggi dovrebbe ormai esprimersi in un italiano senza congiuntivi, perché non capita di sentirne molti in giro. Se devo far parlare un personaggio del genere... be', nelle sue battute di dialogo cerco il più possibile di formulare frasi che non richiedano il congiuntivo, in modo da evitare problemi, a meno che non voglia evidenziare il suo modo di parlare scorretto. Questo non evita, nella narrazione in terza persona, che congiuntivi e condizionali siano dove devono essere e come devono essere.

La situazione si complica ulteriormente se la vicenda è ambientata in un'altra epoca. Claudia Salvatori, scrittrice che ha ambientato molte sue opere in periodi del passato, osserva come nella narrativa "storica" contemporanea personaggi di tempi remoti "pensino, parlino e agiscano come se fossero appena usciti da un bar di provincia". Mi viene in mente un esempio. Tempo fa, in un romanzo storico ho trovato un dialogo tra personaggi, mi pare, del Seicento, in cui uno dei due diceva all'altro "Tieni un profilo basso"... Ora, è chiaro che non possiamo far parlare personaggi del passato esattamente come avrebbero parlato al loro tempo: anche se fossero stati "italiani", prima di una certa epoca non si sarebbero nemmeno potuti esprimere in italiano, bensì in latino, in dialetto o addirittura in lingue straniere.
Dobbiamo adottare un linguaggio convenzionale, che sia accettabile per un lettore contemporaneo, ma non sia troppo estraneo al tempo in cui si svolge la vicenda, il che esclude non solo espressioni entrate da poco nella nostra lingua, ma anche concetti che in quel periodo non esistevano. Non va dimenticato che in epoche diverse si ragionava in modo diverso. Persino una storia ambientata trent'anni fa si svolge in un mondo concettualmente e quindi linguisticamente diverso da quello in cui viviamo oggi. Immaginatevi quanto può essere differente una storia che si svolge all'epoca degli antichi egizi o degli antichi romani.
E l'errore è sempre dietro l'angolo, proprio come il proverbiale centurione nel film peplum il cui interprete si è scordato di togliere l'orologio, o la ripresa dei tetti della Roma papale ottocentesca in cui si notano le antenne televisive che brillano al sole. Rimpiango l'amico Paolo Brera, attentissimo a certi dettagli, che in una pagina del nostro romanzo a quattro mani mi corresse "bicchiere di vino" in "scodella di vino", perché in quel luogo e in quel contesto il vino si beveva in ciotole, non in bicchieri (e stiamo parlando solo di centocinquant'anni fa).
Il che comporta che, per scrivere una storia credibile ambientata nel passato, ci si debba documentare a tal punto da ragionare e quindi far parlare il più possibile i personaggi come se appartenessero a quel tempo. Ma, anche in questo caso, evitate costruzioni assurde, parole incomprensibili e termini di un italiano che, nella realtà, non è mai davvero esistito.

Continua...



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker

miércoles, 23 de junio de 2021

25 giugno: Pinketts al MystFest 2021


MystFest 2021: Andrea G. Pinketts è presente in piazza I Maggio alle ore 21 di venerdì 25 giugno. Anche quest'anno "torna" a Cattolica lo scrittore che proprio qui esordì vincendo il Gran Giallo con il racconto Ah, sì? E io lo dico a Pinketts!, il giornalista investigativo qui insignito del premio "Una Remington per la strada", lo "sceriffo comunale" incaricato dal sindaco Micucci di indagare sulle infiltrazioni criminali nella zona, che portò a centosei arresti. E, naturalmente, l'autore di memorabili romanzi e raccolte di racconti, che vengono ora ripubblicati dall'Associazione Culturale Andrea G. Pinketts, in nuove edizioni corredate non solo di opportune prefazioni, ma anche di "contenuti speciali" scritti dall'autore stesso.
Pinketts non è "scomparso" il 20 dicembre 2018. Uno scrittore è presente fintanto che si possono leggere i suoi libri. 
Dopo Lazzaro, vieni fuori, ripubblicato nel 2021, esce per l'occasione Il vizio dell'agnello. Entrambi i volumi possono essere acquistati, oltre che al MystFest, direttamente presso l'Associazione Culturale Andrea G. Pinketts - inaugurata ufficialmente al MystFest 2019 - o su una libreria online di fiducia, seguendo questo link. Potete anche ordinarlo nella vostra libreria, se chi la gestisce sa il fatto suo.
Nel romanzo Il vizio dell'agnello, che fu pubblicato da Feltrinelli nel 1994 (e in Francia da Rivages), torna il detective suo malgrado Lazzaro Santandrea, che a Milano si spaccia per il Dottor Totem, specialista in tabù, coinvolto nella vicenda di un ex bambina buona convertitasi in assassina. Nei testi in appendice, Pinketts tratta di assassine celebri in Jackie la Squartatrice, spiega il suo rapporto con il maestro del noir milanese Giorgio Scerbanenco in Scerbanenco va alla guerra e racconta retroscena personali in Nato a teatro, un testo illuminante su un episodio del romanzo.
Il vizio dell'agnello viene presentato al MystFest dall'Associazione Culturale Andrea G. Pinketts, rappresentata dall'instancabile Elisabetta Friggi, già braccio destro dello scrittore per un decennio; da Rossella Marino, autrice presso Edizioni del Gattaccio della "metabiografia" di Pinketts intitolata Per qualche strana ragione io piacevo; da Andrea Carlo Cappi, che per venticinque anni ha condiviso con lui avventure culturali, editoriali e letterarie, già suo editor e ora curatore delle nuove edizioni dei suoi libri; e, in un video realizzato appositamente, da Mirella Marabese Pinketts, madre dell'autore e presidente dell'Associazione.
Nella serata sarà proiettato in prima visione il booktrailer de Il vizio dell'agnello,  
E a proposito di librai che sanno il fatto loro: quest'anno il Premio Pinketts, dopo lo scrittore Joe R. Lansdale e al cantante Morgan, viene assegnato a Rosario Esposito La Rossa, titolare della Libreria La Scugnizzeria di Scampia, detto anche lo "spacciatore di libri", che combatte con la cultura letteraria l'incultura della criminalità. Lo "sceriffo di Cattolica" è pronto a condividere la sua stella con lui.


Gli ebook gratuiti della serie Ah, sì? E io lo dico a Pinketts!

Volume 1






viernes, 18 de junio de 2021

Vita da pulp - La pelle pulp


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Premessa importante per evitare equivoci: il termine "pulp" nel titolo di questa serie di articoli parte dal significato originario della parola, non dal suo improprio uso successivo. Un secolo fa e per qualche decennio ebbero grande successo negli USA riviste da poco prezzo su carta economica, da cui il nome di pulp magazines (dove pulp sta per "pasta di legno") in cui si pubblicava narrativa popolare di ogni genere: dal noir al romance, dall'avventura al western al fantastico, qualsiasi genere... di solito con copertine allusive.
All'epoca "pulp" era un termine spregiativo e non tutto, certo, meritava di passare alla storia. Ma da quelle riviste uscì buona parte delle grandi firme americane di narrativa popolare del Novecento (comprese molte ora considerate "letterarie") e qualcuno - Hemingway, per esempio - ne trasse importanti lezioni di scrtttura. "Pulp" continuò a indicare la narrativa si intrattenimento, di qualità o meno, anche nell'era dei paperbacks, con particolare riferimento al noir, che diede molte ispirazioni per il cinema. Chi scriveva pulp fiction aveva enorme fantasia e spesso un'estesa produzione, frutto di grande lavoro ed esperienza.
Nel 1994 uscì Pulp Fiction di Tarantino, il cui stesso manifesto richiama le riviste pulp. In Italia da qualche anno era nata una interessante e variegata produzione nazionale tra giallo e noir, horror e splatter. Nel nostro paese allora l'etichetta "pulp" fu applicata mediaticamente a una parte di quella narrativa che dava "scandalo"... fabbricato ad arte per evitare che passasse inosservata. Autrici come Alda Teodorani, autori come Andrea G. Pinketts, per citare due tra i miei preferiti, furono definiti "pulp" anche se, partendo dalla letteratura di genere da loro ben conosciuta, facevano già qualcosa di personale e diverso; ma prima non se n'era accorto nessuno.
Si creò una confusione immensa che permane tuttora. Ci si dimenticò del significato precedente di pulp, si ignorarono - o si soffocarono - gli autori italiani che lavoravano nel solco della narrativa popolare del feuilleton e del pulp. Nel pezzo che segue, "pulp" è sinonimo di giallo, noir, narrativa di avventure o qualsiasi altro genere di narrativa popolare. "Loro" sono quelli che sfruttano quando fa comodo le etichette dei generi, ma si ritengono superiori: l'unica vera appropriazione culturale, che portò al suicidio del maggior autore di (vero) pulp in Italia, meno di due mesi dopo l'uscita di questo articolo.

La vita da pulp è - proprio come la letteratura pulp - un'interessante metafora della vita dell'essere umano. Nel momento in cui nasci, il tuo destino è già in buona parte segnato dal luogo e dalla famiglia in cui sei apparso rispettivamente sulla faccia della Terra e nel mondo dell'editoria. Se nasci con la pelle pulp, per molti - chiamiamoli "Loro" - sarai sempre pulp, per quante creme editoriali tu cerchi di usare.
Qualche volta Loro ti faranno entrare come spettatore nei salotti in cui tengono i loro incontri ad alto budget, con quelli che scrivono i libri veri, e tu potrai avvicinarti al loro ricco buffet (sì, anche tu, abituato a presentazioni conviviali su banchetti improvvisati tra i libri). Così loro potranno dire che hanno persino amici pulpMa Loro sanno che un pulp non è un vero scrittore. A volte per Loro può essere divertente averti intorno, questo sì, ma al momento opportuno i pulp devono tornare nel ghetto e starsene zitti al loro posto.
Poi capita che qualcuno di Loro vada oltre e decida che è bello essere pulp e adottare un po' di terminologia del ghetto. Canticchiano "Vorrei la pelle pulp". Allora Loro prendono qualcuna/o che scrive pulp - oppure lo conosce bene e ne trae ispirazione per scrivere cose personali - la/lo etichettano come pulp, si etichettano a loro volta come pulp e diventano un po' come i minstrels che si tingevano la faccia con il lucido da scarpe, ma a fine serata si ripulivano, ben lieti di tornare al loro colore naturale, il bianco.
Tuttavia, dopo essersi divertiti a mescolarsi con gli inferiori, creano nuove leggi per allontanare i quartieri pulp dal centro cittadino, perché non vogliono averti tra i piedi tutti i giorni.

Non sanno che un pulp può essere come loro. Un pulp può anche credere, sul serio, nei valori in cui Loro fingono di credere, dandosi di gomito mentre si scambiano prestigiosi premi letterari. Un pulp può persino essere migliore di Loro, anche se non lo dice in giro. Di certo Loro non lo dicono, perché si deve parlare solo di Loro e dei loro. Dei pulp non si dice una parola, se non di tanto in tanto, sottovoce e con un certo disprezzo.
I pulp vanno tenuti in questa condizione di inferiorità, in modo da essere sfruttati. Perché non hanno diritto agli stessi privilegi di Loro e devono lavorare di più per guadagnare di meno. Sono utili, perché c'è quell'altra razza che Loro considerano inferiore - i nerd, che per oscuri motivi trovano interessanti i pulp - e bisogna pur darle qualcosa in pasto. I pulp sono utili, perché possono svolgere lavori di vario genere nella macchina editoriale e hanno un innato rispetto nei confronti dei lettori. Dio non voglia, dunque, che si mettano in testa di avere gli stessi diritti di Loro.
Ma Loro non sanno bene cosa siano i pulp.
Non leggono certo quello che scrivono i pulp.
Quindi non sanno che i pulp non si vergognano di essere pulp. Non sanno che i pulp possono essere orgogliosi della loro pelle e della loro cultura. Non sanno che, mentre Loro banchettano nei salotti, i pulp mangiano in cucina, con il piatto accanto al computer su cui scrivono romanzi, racconti e traduzioni, su cui fanno editing e correzioni di bozze, su cui a volte scrivono non-fiction su commissione (ma con la stessa passione con cui scrivono tutto quanto) che furbi editori amici di Loro non pagheranno, sapendo che i pulp non possono mettersi contro una casta troppo potente, in un sistema giudiziario poco efficiente.
Ma i pulp mangiano e diventano forti. Lavorano molto e diventano ancora più forti. Forse non forti come Loro, ma i pulp non vogliono essere Loro. Vogliono restare pulp e lo resteranno. Vogliono far sentire la loro voce e la faranno sentire. E un giorno Loro si accorgeranno che i pulp, quelli veri, camminano sulle loro strade e non possono più essere fatti tacere.
Quel giorno, Loro avranno paura.

Continua...

Immagine: "Toni Black", fotografia di A. C. Cappi



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker

jueves, 20 de mayo de 2021

Vita da pulp - L'editor non fa il monaco


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Riprendiamo il discorso sull'editing cominciato con L'effetto Samsa e proseguito con La mano del cerusico. Ci sono tre tipi di autrici e autori.
Chi ha bisogno di un editor e se ne rende conto.
Chi ha bisogno di un editor ma si crede infallibile, quindi non vuole che mani impure sfiorino la sua creatura.
E chi il lavoro di editing lo sa fare in proprio, quindi ha solo bisogno di una revisione.
Un esempio. Andrea G. Pinketts è uno scrittore che non ha bisogno di "editing", ma di un'attenta revisione, questo sì, perché scrive a mano al bar, interrotto di continuo da fan, corteggiatrici o gente che gli chiede una prefazione; inoltre usa molti giochi di parole e a volte a chi gli batte i testi o a chi cerca di correggerli in redazione sfugge qualcosa. Un giorno consegna un romanzo al suo editore, che decide (per insondabili ragioni di marketing) che il libro è troppo lungo e ne affida l'editing a un grande scrittore - Alan D. Altieri - con l'ordine di tagliarne centocinquanta pagine.
Chi conosce Pinketts sa che non si può tagliare neanche una riga di ciò che ha scritto, perché ogni frase è la diretta conseguenza dell'altra. Altieri fa il proprio lavoro, consapevole dell'assurdità della situazione. Pinketts (suo amico ed estimatore) rifiuta l'editing e il libro esce così com'è. Quindi anche senza un'opportuna revisione. In effetti, Pinketts rifiuta l'editing a priori, tranne quando la casa editrice asseconda la sua richiesta di affidarlo a me, che aderisco al suo modo di lavorare. Ora che di Pinketts rimangono i libri e i ricordi, sto curando la riedizione delle sue opere applicando il mio solito metodo, anche se quando ho un dubbio non posso più andare a chiedergli precisazioni al bar.

All'inizio della mia carriera, trent'anni fa, commettevo errori e avevo bisogno di editing. Raccolsi consigli, annotai ritocchi, memorizzai osservazioni. E feci bene, perché nel 1994 non solo mi trovai in un ruolo ibrido di revisore-editor per uno speciale de Il Giallo Mondadori ma, dal momento che uno dei racconti era mio, dovetti farlo anche su me stesso. Da allora è una mia pratica abituale per tutto quello che scrivo, e vi assicuro che sono severissimo. Ma, come ho già accennato, una revisione attenta da parte di qualcun altro serve sempre.
Come editor, mi è capitato di trovare minuscole ma imbarazzanti sviste in testi di bravissimi autori (per esempio, una breve frase da cui però si intuisce troppo presto chi sia l'assassino in un giallo). In un'occasione mi è capitato di notare un problema del genere in un romanzo americano che stavo traducendo per un'uscita simultanea e ho fatto in tempo a far correggere l'errore anche nell'edizione USA (per essere poi ringraziato nel libro successivo). Però in questo caso una tirata d'orecchi all'editor dell'edizione originale andrebbe fatta.
In ogni caso, l'editor non è onnipotente e non potrà mai trasformare in un capolavoro qualcosa di illeggibile in partenza.

Che ci sia o non ci sia un editor sul vostro cammino, imparare un uso equilibrato dell'autocritica è essenziale. All'inizio, ogni volta che finivo un racconto o un romanzo, temevo di avere scritto una boiata. Non amavo incondizionatamente la mia creatura. Cambiavo idea solo quando avevo un riscontro positivo dal pubblico. A lungo andare ho imparato che il mio modo di lavorare - mettendomi il più possibile nei panni dei lettori, chiedendomi se al loro posto sarei davvero soddisfatto - è una buona garanzia.
Certo, non si può piacere a tutti. Se scrivo un tie-in su un personaggio famoso, qualche fan potrà trovarlo non corrispondente alla propria visione. Se mi avventuro su un territorio nuovo, chi è abituato alla mia produzione abituale potrà restare perplesso nel vedere un risultato diverso dal solito. C'è poi chi ti stronca senza leggerti solo perché ha pregiudizi sulla collana che ti pubblica o il genere che frequenti.
Ma, se da una parte non bisogna essere così severi da cestinare tutto ciò che si scrive - come il protagonista di Rifkin's Festival di Woody Allen - dall'altra non bisogna convincersi che qualsiasi cosa si scriva sia automaticamente perfetta. Solo perché si è riusciti a pubblicare qualche racconto o un romanzo, non è il caso di diffondere nel mondo una genia di sventurati Gregor Samsa che credono di essere Brad Pitt.

Continua...



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker

Immagine: A. C. Cappi in una foto di Clara Stella

sábado, 15 de mayo de 2021

L'uomo che non seppe tacere

Disapprovazioni di Andrea Carlo Cappi

C'è qualcosa di nuovo oggi nel web: da qualche mese la premiata ditta Haters & Trolls ha adottato un nuovo modo per combattere la libertà di espressione. E per "libertà di espressione" non mi riferisco alle reiterate e urlate invocazioni di "democrazia" da parte di persone che sono solite calpestarla, ma si infuriano quando qualcuno tenta di frenare le loro deliranti fake news o i loro fanatici messaggi di odio e discriminazione. Mi riferisco alla cara vecchia possibilità di esprimere in modo educato e civile concetti sensati e ragionevoli.
Mi rendo conto che questi ultimi possono essere fuori moda.
Il metodo di soppressione, banale ma efficace, si basa sulle nuove tecnologie. L'hater, fingendosi un onesto utente, segnala un post a una piattaforma o a un social network che lo ospita, con la falsa accusa di spam o phishing o di contenere virus e malware. Per ovvi motivi di sicurezza, la piattaforma o il social network rimuove il post segnalato, perché - se fosse vero - potrebbe fare danni. In teoria dovrebbero essere fatti controlli, ma se sono affidati ad algoritmi... be', loro cosa ne possono capire? Per cui l'ignaro autore dei post riceve dalla piattaforma un messaggio automatico in cui viene informato che dopo la segnalazione di un certo post è stato effettuato un "controllo", a seguito del quale il post è stato rimosso.

Com'è cominciata? In gennaio ho aperto un nuovo blog, Kverse - Il mondo thriller di Andrea Carlo Cappi, dedicato al mio vasto ciclo di narrativa noir e spionistica, raccontando retroscena di storia e cronaca e parlando dei miei riferimenti letterari. Ho condiviso i primi post su Facebook (sul mio profilo, la mia pagina-autore e il gruppo corrispondente, come sono solito fare). Facebook è il mio principale mezzo di comunicazione con il pubblico e i miei post sono stati condivisi da miei lettori. Ma dopo pochi giorni qualcuno ha denunciato tali post come "spam". Sono stati rimossi anche dai profili dei miei lettori, trattati a loro volta come diffusori di spam (quindi ci penseranno due volte a condividerne altri) e da quel momento non posso più condividere su Facebook un post da quel blog perché appare immediatamente una finestra che afferma che il mio contenuto sia spam.
Ho segnalato il problema a Facebook, che immagino sia bersagliata ogni giorno da milioni di richieste simili, e ovviamente non ho mai ricevuto né risposte né soluzioni.
Stamattina invece ho trovato nella posta quattro messaggi della piattaforma che ospita questo blog: quattro post de "Il Rifugio dei Peccatori" sono stati rimossi perché segnalati come contenenti malware o virus (e ovviamente non contenevano ne l'uno né gli altri). Uno dei post incriminati e rimossi era la poesia "Il buio" di Fabio Viganò (con cui divido il blog), con la fotografia dell'ultimo premio letterario da lui vinto; un altro la pagina dei link alle sue poesie sul blog; un altro un mio articolo della serie "Vita da pulp" su scrittura e lettura al femminile, in cui mi dichiaravo una volta di più contro ogni forma di discriminazione; uno, guarda caso, era un altro articolo della stessa serie in cui raccontavo dell'attacco subito su Facebook Cercherò di ripristinare i testi scomparsi, che vuol dire perdere tempo a rifare lavori già fatti... e io non ne ho molto, quindi in ogni caso è un danno. Non grave, ma fastidioso. Ma forse l'hater sperava che, accusando quattro post a caso, l'intero blog fosse cancellato per sempre dalla rete.

Non so chi sia il responsabile. So che c'è qualcuno che mi odia, che ha dichiarato di volermi morto e che oltre dieci anni fa inserì informazioni false sulla mia pagina Wikipedia (il linguaggio usato era ben riconoscibile come quello che usava nel mondo reale). Credo anche che costui non sopporti che, malgrado tutti i problemi economici che lui stesso mi ha causato a suo tempo, io continui a fare lo scrittore e stia celebrando quest'anno trent'anni di carriera.
So anche che non piaccio a una certa categoria di persone di cui ho parlato in alcuni romanzi recenti, pubblicati sotto lo pseudonimo François Torrent da Segretissimo Mondadori. Ho ricevuto insulti molto pesanti in merito in un commento pubblico su Facebook, ma esiste la libertà di parola (per qualcuno) e anche quella di parolaccia.
In ogni caso, c'è gente a cui do fastidio e che ha deciso di perseguitarmi. Il che, se non altro, mi dice che sto facendo bene il mio mestiere di scrittore, anche se aumenta il numero di persone che mi vogliono morto, o perché scrivo libri scomodi o, semplicemente, perché esisto.

Ma, a parte il mio problema personale, c'è un aspetto preoccupante in generale: lo stesso metodo può essere applicato, per esempio, a un'attività commerciale che ha bisogno di comunicare con il pubblico e reclamizzare o vendere i suoi prodotti. Se un concorrente decide di rimuoverla dal mercato, può utilizzare questo comodo espediente per boicottarne la comunicazione e mandarla in rovina. In un'era in cui i contatti via web con utenti e clienti sono essenziali, soprattutto nei casi di emergenza come quello del 2020-21, e danneggiare la pagina di un social network o un sito internet di un'azienda può farle perdere tutti gli investimenti fatti nella comunicazione, un simile boicottaggio si rivela un'arma devastante.
A mio modesto parere, i gestori di social network e piattaforme dovrebbero considerare che non solo in questo modo diventano strumenti di faide private o guerre commerciali in cui vince il peggiore, ma che tutto ciò fa loro perdere clienti, investimenti pubblicitari e attendibilità.

Aggiornamento: a seguito della mia segnalazione inviata sei ore dopo la cancellazione dei post, la piattaforma blogger ha dimostrato di essere più efficiente, seria e organizzata di altri nel settore. Al momento due dei quattro post "incriminati" sono stati riesaminati e resi di nuovo visibili. Spero che ciò accada anche per gli altri due.
Aggiornamento delle 14.41: restaurati anche gli ultimi due post, entro sette ore dal mio messaggio a blogger.com, che ringrazio per aver rimediato tempestivamente. Per una volta il gioco sporco degli hater non ha del tutto funzionato. Ma dove e come colpiranno, la prossima volta?


jueves, 13 de mayo de 2021

Vita da pulp - L'affare Disney

Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi

Interrompo il discorso sull'editing per raccontare di una questione che in apparenza sta cominciando a risolversi, ma che ha destato un certo scalpore negli Stati Uniti. Ne ho letto nelle comunicazioni di un'associazione di cui faccio parte - la IAMTW - che raccoglie autori di tie-in, categoria di professionisti particolarmente interessata dalla vicenda. Il fatto si ricollega a quanto dicevo qualche settimana fa a proposito del "costo zero" della scrittura. Lo slogan è: "gli scrittori vanno pagati", #writersmustbepaid.

Com'è noto, l'immane società chiamata Disney negli ultimi anni ha acquisito di tutto, dalla Fox ai Marvel Studios, ottenendo la proprietà di marchi, serial e franchise: l'elenco comprende Star Wars, i supereroi della Marvel, ma anche Alien e, almeno in parte, Star Trek. A tutti questi marchi sono associati prodotti derivati, in particolare i tie-in, ovvero adattamenti in forma di romanzi o fumetti di sceneggiature cinematografiche, od opere originali basate sugli stessi personaggi.
Prima che qualcuno tra voi si lanci nei soliti slogan antiamericani, ricordo che anche grandi compagnie italiane acquisiscono altre compagnie (pensate alla Fiat con la statunitense Chrysler), perché è così che funziona il capitalismo. I problemi nascono quando vengono messi a rischio posti di lavoro. O, nel caso specifico della Disney, quando si mette in dubbio il diritto dei lavoratori a essere pagati secondo il contratto... perché, come ogni tanto occorre ricordare, anche gli scrittori sono lavoratori. Qualcuno però ha pensato di sfruttarli, guarda un po', a "costo zero".
E ancora: prima che qualcuno si lanci in una fanatica crociata contro Topolino o in generale i prodotti a marchio Disney, voglio ricordare che gli stessi scrittori coinvolti chiedono di non farlo assolutamente, perché ciò pregiudicherebbe i diritti d'autore che spettano ad altri colleghi. Quello che viene chiesto, anche dal sito Writers must be paid, è il semplice e doveroso rispetto dei contratti.
Perché qualcuno alla Disney - può essere stato un megadirettore, un manager o un burocrate, ma il furbo si trova sempre - ha sostenuto che la compagnia, nell'acquisizione dei diritti delle varie serie succitate, non avesse però acquisito l'onere di pagare ciò che spettava agli scrittori le cui opere diventavano di sua proprietà. Ovvero, non era tenuta a rispettare i contratti e pagare i diritti d'autore dovuti, solo perché era cambiato il proprietario. Quando si parla di pirateria del copyright bisognerebbe includere anche casi come questo.
Tra le persone più colpite, per darvi un'idea, c'è il leggendario scrittore di fantascienza Alan Dean Foster, autore anche della novelization - il romanzo basato sulla sceneggiatura - di Guerre stellari del 1977 (benché in copertina fosse accreditato come autore George Lucas, è ben noto che a scrivere il libro è stato Foster) e del primo sequel narrativo della saga, La gemma di Kaiburr (Splinter of the Mind's Eye); ma anche della novelization dei primi tre Alien e di moltissimi altri celebri film.
Stiamo parlando di un signore che si è ammazzato di lavoro, perché realizzare una novelization efficace non è scopiazzare una sceneggiatura. Vuol dire rendere sotto forma di romanzo qualcosa che è stato concepito per un altro mezzo. Vuol dire fare propri personaggi altrui: non a caso a volte chi scrive le novelization è anche autore, prima o dopo, di romanzi originali sullo stesso universo: oltre a Foster, mi vengono in mente John Gardner e Raymond Benson per quanto riguarda James Bond 007. Occorrono maestria, inventiva e professionalità, il che non è da tutti.

Che la Disney ogni tanto abbia di queste cadute non è una novità: nel 2020 l'erede della società, Abigail Disney, si infuriò quando seppe del trattamento economico dei dipendenti dei parchi Disney e dei loro licenziamenti di massa a seguito della chiusura per Covid, a fronte di stipendi ultramilionari per certi manager della compagnia. Dopotutto, è il suo cognome a cui vengono lanciati anatemi ogni volta che qualcuno lucra sulla pelle dei lavoratori.
La levata di scudi di numerose associazioni, a partire dalla SFWA (che raccoglie gli scrittori di fantascienza), ha dato risultati. La notizia di questi giorni: per cominciare, sono stati riconosciuti dalla compagnia i diritti degli autori delle prime tre storiche novelization di Star Wars - Alan Dean Foster, James Kahn e Donald F. Glut - che verranno pagati il dovuto dalla Disney. E, almeno per ora, non è stato lasciato correre un pericoloso precedente negli Stati Uniti, ossia che gli scrittori possano anche non essere pagati.
Ma sappiamo che in Italia non è così e che oltretutto la lentezza della nostra giustizia garantisce una virtuale impunità a un editore disonesto che non rispetti i contratti e non paghi: uno scrittore dovrebbe spendere in avvocati molto più di quanto potrebbe mai riuscire a ricavare in un patteggiamento, dopo anni e infinite perdite di tempo. Ma da noi è opinione diffusa che gli scrittori non siano "lavoratori" e, com'è noto, vivano d'aria.

Continua...



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.

Immagine: copertina de "I gialli di Topolino" (Mondadori, 1960)

jueves, 6 de mayo de 2021

Vita da pulp - La mano del cerusico


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi

Ho la sensazione che la puntata precedente, L'Effetto Samsa, abbia creato qualche perplessità. Forse già dal titolo avete intuito che qualcosa non vi sarebbe piaciuto: ovvero, non è detto che la vostra opera sia un capolavoro assoluto che vi renderà ricchi e famosi e vi consegnerà alla Storia della Letteratura. Non è detto nemmeno che sappiate scrivere, anche se dopo anni di post sui social network pensate di avere una padronanza assoluta della lingua.
Supponiamo invece che non siate del tutto analfabeti, che sappiate scrivere una storia piuttosto originale e interessante, e che siate riusciti, rileggendola a distanza di tempo con lo stesso sguardo esigente che avete quando leggete un'opera altrui, a correggere da soli i difetti più evidenti. A questo punto potreste avere realizzato qualcosa di bello e, se siete alle prime armi, avete tutti i diritti a qualche imperfezione. Quindi avete bisogno di un po' di editing.

Nel campo cinematografico l'editing è il montaggio: tagliando qua e là, scegliendo, aggiungendo o spostando scene e inquadrature, si possono persino confezionare film diversi partendo dalla stessa sceneggiatura e dallo stesso materiale girato.
Nel campo letterario il lavoro ha molte più sfumature. A volte l'editing è una "semplice" revisione, una ripulitura del testo da ripetizioni, assonanze fastidiose, sviste di punteggiatura e, naturalmente, refusi. Aspetti non banali, che possono sfuggire alla più accurata rilettura e che vanno affrontati con molta attenzione. Altre volte l'editing comporta invece l'identificazione di piccole sviste (o persino grosse sviste) in una frase o in una trama. Altre volte ancora si avvicina proprio all'editing cinematografico e impone di spostare o eliminare paragrafi o interi capitoli. Oppure si rende necessario chiedere all'autrice/autore di riscrivere o correggere una o più parti, perché troppo prolisse oppure troppo sbrigative.
La mano dell'editor dev'essere quella del cerusico che sa dove intervenire ma anche dove non intervenire. L'editor migliore è quello che non fa percepire la propria presenza al lettore e, talvolta, neanche all'autore. Ma che, qualora il caso non abbia speranze, ha l'obiettività e il coraggio di dirlo al/alla paziente. Non c'è niente di offensivo: molti anni fa un medico mi disse che non avrei potuto praticare sport a livello agonistico e per fortuna non era mia intenzione farlo. Dopodiché non mi sono dedicato al calcio, aspettandomi di giocare in serie A e vincere il Pallone d'Oro.
Il problema con gli editor, però, è lo stesso che può capitarvi con la malasanità: se vi dicono che il vostro testo è in perfetta salute quando non lo è affatto, oppure se al romanzo viene amputato un paragrafo o un capitolo sano, il risultato può essere disastroso. Un po' come certi film in cui nella versione distribuita nelle sale la storia fa acqua da tutte le parti, ma poi quando se ne vede il "director's cut" si scopre che a forza di sforbiciarlo qualcuno lo ha completamente rovinato, solo perché l'ufficio marketing ha deciso che fosse meglio così ("Cosa volete che ne capisca il pubblico?")

Quando l'editor lavora su un testo che già funziona alla perfezione, si deve limitare a una revisione linguistica, non deve toccare ciò che va bene. Ma non deve nemmeno abbassare la guardia, perché tra correzioni e ripensamenti chi lo ha scritto potrebbe essersi lasciato sfuggire qualche dettaglio. Lo scorso anno ho avuto un esempio di ottima revisione da Segretissimo: nella mia storia avevo modificato date e orari di un evento, ma in un punto era rimasto un riferimento a una versione precedente; chi ha rivisto il testo se n'è accorto e me lo ha segnalato, permettendo che il romanzo fosse pubblicato senza errori.
Tempo fa, altrove, mi è capitato invece un revisore incompetente che in un libro di duecentocinquanta pagine ha ripetuto una correzione sbagliata migliaia di volte. Poiché dovevo segnalare alla redazione ogni modifica con relativi numero di pagina e numero di riga delle bozze che stavo rileggendo, ho vissuto una domenica da incubo. Avrei voluto colpire ogni volta le dita del cerusico di turno con un martelletto. Ma falangi, falangine e falangette sarebbero state sbriciolate prima ancora che arrivassi a metà romanzo.
Posso fare altre orridi esempi. L'editor che mi ha tolto i congiuntivi e ha inserito formulazioni simili all'uso della lingua in televisione, perché la riteneva più adatta ai lettori degli anni Duemila (risultato: notte insonne a riscrivere le frasi originali sulle bozze cartacee, sperando che tutte le correzioni venissero inserite senza sviste nel testo pubblicato). Oppure l'editor che, al solo scopo di far vedere ai superiori che il mio romanzo aveva bisogno di editing, tagliò pezzi di dialoghi qua e là e persino paragrafi importanti nel mezzo di una scena, creando situazioni incoerenti e incomprensibili (risultato: notte insonne a riscrivere i pezzi mancanti sulle bozze cartacee). In casi come questi, l'unica cosa da tagliare sarebbe la mano del cerusico.
E infine l'editor più pericoloso: quello che avrebbe voluto scrivere libri a sua volta, ma non ne è capace, quindi segretamente odia chi lo fa e nel suo inconscio desidera punirlo. Pertanto riscrive tutto come piace a lui. Mi è capitato anche uno di questi, per fortuna prima che il libro fosse impaginato e, con tre giorni di lavoro imprevisto in un periodo già frenetico, ho potuto ripristinare il romanzo come lo avevo scritto io. E sono stato fortunato: se uno di questi autori mancati è abbastanza in alto nella gerarchia editoriale, può anche esigere che il romanzo venga rielaborato secondo i suoi dettami. In tal caso sarebbe da tagliare, direttamente, la testa del cerusico.
Una variante è la casa editrice soggiogata da sedicenti esperti di marketing, ovvero persone che non sanno niente di libri e pertanto sono pagati per occuparsene. Costoro vedono cosa ha avuto successo di recente e cercano di accodarsi, anche se arrivano in ritardo. Sono di moda templari esoterici, maghi bambini, vampiri adolescenti o amanti sado-maso? Il sedicente esperto prende il posto dell'editor e ti ordina di riscrivere il tuo romanzo per trasformarlo in un mediocre clone del bestseller (costruito a tavolino) dell'anno prima. Oppure decide che il tuo libro - compatto e privo di lungaggini - debba essere accorciato di metà perché così sarà più vendibile. Oppure ancora non sa esattamente che cosa diavolo vuole e continua a chiederti cambiamenti in corso d'opera.
Il fatto che anche nel mondo editoriale, come dappertutto, venga conferito potere decisionale a emeriti imbecilli non permette tuttavia che lo siate pure voi. Ne riparleremo la prossima volta.

Continua...



Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.