jueves, 26 de enero de 2023

Vita da pulp - Seriamente serial


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Come dicevo la volta precedente, dalla "serie", in cui le storie sono autoconclusive e possono essere lette singolarmente, si passa a un "serial" quando i singoli episodi sono collegati da una trama orizzontale sviluppata su un arco più esteso. Ne abbiamo parlato a proposito di cinema e televisione, ora torniamo alla narrativa "scritta", dove talvolta siamo al confine con il classico "romanzo a puntate", modalità con cui sono stati pubblicati grandi capolavori come Madame Bovary e Delitto e castigo. Beninteso, qui non mi sto occupando di alta letteratura, ma di narrativa di intrattenimento. E, visto che lavoro spesso così in tale campo, posso parlare anche sulla base della mia esperienza diretta.
Per poter realizzare un serial occorre innanzitutto avere un contenitore fisso in cui pubblicare tutte le storie con una certa regolarità... e reperibilità. Oggi, con le uscite in digitale, online o in ebook, di nirma non si pongono nemmeno severi vincoli di lunghezza, come potrebbe capitare, per esempio, nell'ambito di una rivista cartacea in cui non si possa superare un certo numero di pagine.
Ne trassi vantaggio per "Black", serial apparso nel 2016 online per varie settimane su "Fronte del Blog" (poi incluso con storie inedite nella raccolta "Black Zero"): gli episodi erano di lunghezza più o meno simile, ma senza restrizioni rigorose; alcuni erano autoconclusivi, altri erano capitoli di storie che si chiudevano nell'arco di due o tre puntate (per chi leggeva, dunque, il tempo di attesa per la soluzione era di poche settimane); tutte insieme però raccontavano una storia che andava oltre quella dei singoli episodi.

Dal 2019 lavoro a un serial con varie sottotrame che si sviluppano in parallelo, costituito da racconti nettamente più lunghi, ciascuno dei quali potrebbe essere quasi un romanzo breve: "Dark Duet", nella collana di autori vari Spy Game creata da Stefano Di Marino e pubblicata in ebook da Delos Digital. Mentre altri autori della collana scrivono storie "stand-alone", io sono tra quelli che scrivono un vero e proprio serial: ogni volta arrivo più o meno a un punto fermo, ma posso concludere con le premesse del capitolo seguente o addirittura con il classico cliffhanger.
Scrivere in questo modo è molto interessante, a patto di avere spazio per un congruo numero di puntate: mentre si lavora, non è detto che si sappia per quanti altri episodi si possa continuare, se si debba arrivare in fretta al finale o si possa prendere una strada più lunga e appassionante. In questo caso si è presentato un fattore tragico e imprevisto: la morte dell'ideatore e curatore della collana che, oltre al dolore per la scomparsa di un amico e maestro, ha imposto anche una lunga interruzione nei lavori, ripresi nel 2022. Inoltre, come capita quando si lavora simultaneamente a parecchi progetti seriali che durano anni o decenni, una delle difficoltà è ricordarsi con precisione la continuity ogni volta che si riprendono in mano le storie dopo qualche tempo. Prima o poi ne parleremo.
Un altro dei fattori di maggiore rischio per i "prodotti a puntate" (per semplicità chiamiamoli così) è che il pubblico attenda l'esistenza di una serie completa prima di cominciare ad acquistarli. Non è un problema per le grosse produzioni tv internazionali che possono contare già in partenza su grandi numeri di vendita; ma può esserlo nell'editoria, soprattutto italiana, dove le cifre sono moto più basse. Anni fa dovetti spiegarlo a un paio di sedicenti esperti di marketing: quando deve uscire una storia che si svolge in due volumi se l'editore pensa di essere furbo e aspetta l'esito del primo per decidere se pubblicare il secondo, il pubblico sospetta, diffida e attende che esista anche il secondo volume prima di acquistare il primo, per evitare di trovarsi a leggere solo la metà pubblicata della storia. Così il secondo volume non viene pubblicato e, proprio per questo, il primo rimane invenduto. Bisognerebbe sapere qualcosa di editoria prima di occuparsi di marketing nell'editoria. Ma al tempo stesso il pubblico tenga presente che, se non "consuma" le prime puntate di un serial, rischia di affossare il progetto e non avere mai quelle successive e, in sostanza, la serie.

Ci sono casi in cui - non diversamente dal minutaggio prestabilito di un episodio di una serie tv - ogni capitolo deve rientrare in limiti rigorosi. Ritmi e lunghezza della storia sono dettati dal numero di pagine per ogni episodio e dal numero totale di puntate. Anni fa lavorai ai fascicoli in edicola dalla DeAgostini legati alle uscite video di "X-Files": in appendice ai miei articoli, scrivevo un serial originale di fantascienza (con personaggi miei) da due pagine per ogni puntata... ma quando stavo per arrivare alla fine fui informato che la pubblicazione era prolungata per almeno altre sedici uscite. Nessun problema: avevo già in mente il seguito (è così che lavorano gli autori di vero pulp) e sono andato avanti... e sarei stato pronto a continuare anche se l'editore avesse pubblicato l'intera serie tv, cosa che purtroppo non fece.
Mi capita di lavorare a serial di narrativa (oltre che a romanzi completi) con Martin Mystère, il personaggio di Alfredo Castelli. Nel 2000 scrissi "Il Codice dell'Apocalisse", di cui uscivano cinque brevi puntate alla settimana in appendice al primo quotidiano online italiano. Dal 2021 invece ho cominciato a scrivere serial in appendice agli albi mensili di "Martin Mystère". Ogni episodio occupa una decina di pagine. C'è chi preferisce leggere tutto quando viene pubblicata la conclusione (per il primo serial al dodicesimo episodio, per il secondo al quattordicesimo). Ma io lavoro innanzitutto per chi legge gli episodi di mese in mese. Ecco perché, anche se la pubblicazione dell'intera storia si prolunga per un anno o più, ogni singola sottotrama si chiude nell'arco di uno o al massimo due episodi, pur lasciando ogni volta un breve cliffhanger che rinvia al mese successivo.
S'intende che non è facile inserire una narrazione al tempo stesso seriale e compiuta in spazi così ristretti. In una raccolta di racconti, ogni storia può essere più o meno breve. In un romanzo, anche con un numero totale di pagine prefissato, la lunghezza di ogni capitolo viene decisa da chi scrive in base alle sue necessità narrative. Ma un serial non è né un "raccontino" buttato lì per riempire un buco, né un "romanzo spezzettato" in cui la storia si tronca bruscamente e casualmente quando si esauriscono le pagine di quel mese. Il serial è una vicenda costruita su misura. Occorrono inventiva, passione, mestiere, pianificazione (ma non troppa), pazienza e autoediting, perché ogni episodio deve cominciare, svilupparsi e finire nello spazio disponibile, in un limitato numero di battute, salvaguardando però i tempi giusti della narrazione complessiva. Insomma, bisogna lavorarci serialmente e seriamente, conciliando tutto quanto si è imparato scrivendo sia racconti, sia romanzi.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

jueves, 19 de enero de 2023

Vita da pulp - Tra serie e serial


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di
 Andrea Carlo Cappi 

C'erano una volta gli autori seriali di narrativa popolare che scrivevano, romanzi a puntate, cicli, saghe, epopee che appassionavano i lettori: Alexandre Dumas, Jules Verne, Emilio Salgari, Robert E. Howard, Dashiell Hammett... citando giusto solo un po`di nomi a caso. Padri e figli della narrativa chiamata, a seconda dei tempi, "feuilleton" o "pulp", poi trasmigrata nei fumetti e nei tascabili anni '60-'70, che da noi apparvero soprattutto nelle collane da edicola di Mondadori: Il Giallo Mondadori, Urania e Segretissimo. 
Quando dico "pulp", come sempre intendo la narrativa popolare sviluppatasi quasi un secolo fa sulle riviste omonime, non l'accezione italiana, diversissima, di metà anni '90. Gli/le artefici del pulp hanno una spinta innata a scrivere parecchio e spesso a prolungare la vita di certi loro personaggi ben oltre la singola storia. Chi scrive pulp spesso non si limita solo a un racconto, ma si immagina un intero universo che può intrattenere il pubblico a lungo.
I libri di intrattenimento scritti da gente capace sono del resto la base o l'ispirazione di uno dei passatempi prediletti di oggi: le serie tv, che non fanno altro che riprendere vecchie regole che risalgono al feuilleton e che sono ancora efficaci.

Diciamo che "la serie" propriamente detta, in tv o altrove, è costituita da singoli episodi autoconclusivi. Vale la tradizione della maggior parte dei telefilm dagli anni '50 ai '70: alla fine di ogni episodio la situazione di base si mantiene o viene ripristinata, e il pubblico può perdersi una puntata senza trovarsi cambiamenti radicali a quella successiva.
Giusto ogni tanto si può assistere alla ricomparsa di un comprimario o di un cattivo, o, sullo schermo, alla sparizione di personaggi tra una stagione e l'altra, per scadenza dei contratti degli interpreti o cambiamenti di format. Ma per il pubblico non c'è da prestare troppa attenzione alla "continuity", ossia a legami di causa-effetto tra gli episodi.
Si definisce "serial", invece, una storia continuativa che va seguita di puntata in puntata (perdersene una può creare problemi), in cui alle sottotrame occasionali che possono risolversi in un singolo episodio se ne aggiungono altre che riguardano a livello personale protagonisti, antagonisti e comprimari. Ogni volta possono cambiare gli equilibri. E il finale può lasciare qualcosa - o tutto - in sospeso per l'episodio o la "stagione" seguente. Come molti di voi sapranno, oggi non solo le serie (più correttamente i "serial") tv ma anche parecchi film lasciano finali aperti per creare aspettative.

Ai vecchi tempi, al cinema, chi non era entrato a metà film e doveva ancora vedere come fosse cominciato, usciva dopo la scritta "Fine". Negli anni '80, ammaestrato da Canale 5 che troncava con la pubblicità i titoli di coda dei film trasmessi (anche sulle note di canzoni da Premio Oscar), prese l'abitudine di accalcarsi all'uscita come se la sala andasse a fuoco. Poi cominciarono le sequenze a sorpresa dopo i titoli di coda e, sparsasi la voce (ci volle qualche decennio) il pubblico imparò a trattenersi in sala con più calma.
E così al cinema tornò il "cliffhanger".
Il nome deriva da una situazione tipica del finale degli episodi dei serial cinematografici della vecchia Hollywood, abbinati alla proiezione del film. Coincidevano con l'era letteraria del pulp e a volte derivavano dai fumetti (Dick Tracy, Flash Gordon, Captain America... i "cinecomics" esistono da molto tempo). Nell'ultima scena i protagonisti restavano sospesi sull'orlo di un precipizio o in altre situazioni di pericolo e, se si voleva sapere come se la cavassero, occorreva tornare al cinema la settimana successiva, pagando di nuovo il biglietto. Fidelizzazione, insomma. Oggi l'espediente viene ripreso in film seriali in cui si vuol dare impulso all'episodio successivo.
La serialità attirava il pubblico ai tempi di Omero e lo attira ancora oggi. Se qualcosa piace, si ha voglia di riviverne l'atmosfera, rivedere luoghi familiari e vecchie conoscenze. Per questo i sequel funzionano e le stagioni dei serial sono seguite. Certo, i capitali in gioco al cinema o in televisione sono tali che ogni tanto qualcuno alla produzione fa conti, stime e proiezioni, per poi decidere di non girare il seguito o la nuova stagione (e tanti saluti all'ultimo cliffhanger, che non sarà mai risolto). Ma per scrivere storie seriali, per lo schermo o altri mezzi meno costosi e più accessibili, bisogna conoscerne e rispettarne le regole. Ne parliamo la prossima volta.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

miércoles, 11 de enero de 2023

Vita da pulp - Dal racconto alla serie


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Dopo avere introdotto la questione del "racconto" nel senso di "storia breve", qualcuno si chiederà: "Ma quanto dev'essere breve?" La risposta, banale, è: "Dipende".
Può capitarvi di proporre un racconto a un concorso (e colgo l'occasione per ricordarvi il bando della nuova edizione del Premio Torre Crawford) o per una pubblicazione in cui si impongono precisi limiti di lunghezza: non si deve superare un numero prestabilito di battute, spazi inclusi. Tenete presente che i programmi di videoscrittura calcolano come "battuta" (o "carattere") ogni pressione dei tasti e non le righe bianche (cioè le righe in cui non c'è scritto niente, ma sono essenziali per sottolineare un cambio di scena, di tempo o di punto di vista), il cui ingombro come numero di battute va stimato a occhio, perché anche quello conta. In ogni caso, è chiaro: non dovete superare i limiti indicati, pena l'esclusione.
Ma, a parte questo, il racconto stesso dovrebbe dirvi quanto dev'essere lungo. Ascoltatelo e assecondatene i tempi e i ritmi: non cercate né di abbreviarlo troppo - a meno di esservi costretti - perché potrebbe risultare troppo sbrigativo; né di dilatarlo in eccesso, pensando che "più lungo" sia anche "più letterario", quando potrebbe essere solo prolisso. Ci sono racconti cui può bastare una pagina: qualcuno ricorda le postcard stories, cioè lunghe lo spazio di una cartolina, proposte qualche decennio fa da Urania con la definizione "microstorie"? Ci sono racconti che invece richiedono uno sviluppo più articolato e altri che si strutturano come un romanzo in miniatura, fino ad arrivare al vero e proprio "romanzo breve". Alcuni possono assumere la forma di un monologo o di un dialogo, altri invece richiedono una narrazione in terza persona, da diversi punti di vista.

Nella narrativa mainstream il racconto può essere una storia breve ma completa, un tranche de vie, o addirittura un semplice frammento... da cui si può intuire l'antefatto e immaginare gli sviluppi successivi: di solito a questo punto cito l'esemplare Colline come elefanti bianchi di Hemingway, il cui vero argomento non è neppure dichiarato esplicitamente, ma nell'apparente assenza di eventi nasconde in realtà un colpo di scena. Per brevità bisogna lasciare molto all'intuito di chi legge, ma senza per questo non fornire tutti gli elementi necessari alla comprensione.
Il colpo di scena conclusivo - diciamo pure il "finale a sorpresa" - è frequente nella narrativa di genere, in cui spesso la trama conduce a un twist, ossia il ribaltamento inaspettato della situazione: non a caso, per due sue antologie personali, Jeffery Deaver ha usato i titoli Twisted e More Twisted. S'intende che chi frequenta abitualmente il genere si aspetta che ci sia una sorpresa e cerca di prevederla, quindi dovete riuscire a farla arrivare prima che venga scoperta e smetta di essere una sorpresa. Pertanto occorre preparare il twist in modo che sia coerente con la trama, ma senza che diventi prevedibile, il proverbiale "finale telefonato". Il racconto deve quindi porre le basi per lo scioglimento conclusivo, ma non protrarsi troppo a lungo da dare a chi legge il tempo di indovinare di cosa si tratti.
Il racconto fulmineo nasce da un'idea, che può anche non essere nuovissima, ma conta il modo in cui viene sviluppata ed esposta. Quanto più la narazione è lunga, invece, tanto più impone le stesse regole e le stesse problematiche di un romanzo. Qualcuno ogni tanto cerca di definire esattamente a quale taglio vada applicata la definizione di novelette o "romanzo breve": l'ho vista usare per storie da una trentina di pagine come per storie da cento e passa. In realtà, a mio avviso, è la costruzione narrativa a fare la differenza: non a caso, specie per novelettes che richiedevano anche una certa dose di ricerca, mi sono trovato a impiegare quasi lo stesso tempo che mi occorreva per un romanzo molto più lungo.

Ci sono due casi particolari con cui ho spesso a che fare come scrittore: uno è quello del "personaggio fisso", nel senso di un/una protagonista che appare in diversi racconti autoconclusivi (o anche romanzi) della propria produzione, arrivando a costituire "una serie". Un personaggio fisso con cui chi scrive ha già una certa familiarità permette di avere a disposizione una figura già collaudata che può essere semplice testimone della vicenda oppure intervenirvi in modo risolutivo. Fenomeno molto comune nella narrativa di genere, non è estraneo neppure a quella mainstream: cito di nuovo Hemingway, con il suo alter ego Nick Adams, apparso in molti racconti, e con Harry Morgan nelle tre storie di Avere e non avere.
S'intende che, a meno che non godiate già di una fama tale da poter presumere che i vostri personaggi siano universalmente noti (tutti conoscono Sherlock Holmes o James Bond, ma dubito che milioni di persone in tutto il mondo conoscano la mia Mercedes Contreras) non potrete dare per scontato che il pubblico sappia già chi siano. Se i racconti appaiono di volta in volta in contesti diversi (uno su una rivista, uno in un'antologia, uno su un'altra rivista due anni dopo...) a ogni apparizione sarà necessario presentare almeno in poche righe la figura centrale a lettrici e lettori che, molto probabilmente, non l'hanno mai incontrata prima d'ora.
Il caso è simile quando una storia - pur non avendo gli stessi protagonisti apparsi altrove - appartiene allo stesso universo di cui fanno parte altre vostre storie. Pensate ai racconti di Isaac Asimov sulle Tre Leggi della Robotica: diverse figure ricorrenti, un unico universo, ma finché le storie non appaiono in una raccolta l'autore deve spiegare ogni volta al pubblico le regole del gioco. Anche in questo caso, dunque, sarà opportuno fornire a chi legge le informazioni necessarie per entrare in quel mondo e, chissà, farle/gli venire voglia di approfondire la conoscenza e andarsi a cercare le altre storie a esso collegate. Se però, oltre a una trama autoconclusiva, ce n'è in parallelo un'altra che si sviluppa da una storia all'altra, cominciamo a parlare non di "serie" ma di "serial"... Questo però sarà oggetto del prossimo articolo.

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(immagine: A. C. Cappi in una foto di Stefano Di Marino, 2015)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

domingo, 8 de enero de 2023

Black, gennaio 2013: il primo racconto

 

Anniversario di Andrea Carlo Cappi

L'11 gennaio 2013 usciva su Facebook il primo racconto di quella che, a seguito dell'inaspettato successo del suo protagonista, sarebbe diventata una mia serie narrativa molto apprezzata.
Era nato Toni Black.
Tutto era cominciato due giorni prima, il 9 gennaio, con un episodio insolito e il rischio dell'arresto dell'autore, vicenda che potete scoprire a questo link sul blog Kverse.
In occasione del decimo anniversario e in attesa della ripubblicazione dei libri della serie nella collezione di Oakmond Publishing a me dedicata. ho qui riproposto quel racconto di esordio solo per ventiquattr'ore a partire dalla mattina del 10 gennaio 2023, insieme a una presentazione di Andrea G. Pinketts.
L'una e l'altro aprono la nuova edizione del volume Black Zero, disponibile da Oakmond Publishing su Amazon a partire dal 4 luglio 2023.


miércoles, 4 de enero de 2023

Vita da pulp - Dal racconto all'antologia


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Quando la volta scorsa ho parlato del racconto, ho accennato alla questione delle raccolte. Dal punto di vista editoriale, esistono due tipi di antologie: quella di "autori vari" (curate da una o più persone) e quella "personale", contenente racconti che portano un'unica firma, con una selezione fatta dall'autrice/autore oppure da un/un'editor. È noto che, specie quando riguardano autori italiani esordienti, vige lo slogan: “I libri di racconti non si vendono”, pertanto non andrebbero pubblicati. Il che è vero per i brutti libri di racconti, ma nulla esclude a priori che ne esistano di belli. Ce ne sono stati in passato, ce ne sono anche oggi. Altrimenti non sarebbero mai esistiti i Racconti del mistero di Edgar Allan Poe o I quarantanove racconti di Ernest Hemingway. Ma persino le antologie di autori vari, anche stranieri, pare non siano viste di buon occhio, a meno che non contengano un racconto di Stephen King o una prefazione di Jeffery Deaver: in quel caso l’Astuto Editore Italico scrive sulla copertina a caratteri cubitali il nome più famoso, al fine di turlupinare l’acquirente, facendogli credere che si tratti di un nuovo romanzo.
Una volta per un numero di M-Rivista del Mistero – all’epoca di fatto una serie di antologie a tema in formato libro – ci provò anche l’ufficio marketing della casa editrice che la pubblicava: avevo acquisito e tradotto una novelette inedita di Joe R. Lansdale, per uno speciale sul western tra racconti classici americani e contemporanei italiani; i furbacchioni volevano mettere in copertina solo il nome di Lansdale e far passare il volume per un suo romanzo; mi opposi con tutte le mie forze (dopotutto figuravo ancora come direttore editoriale) e lo speciale Nero West ebbe grande successo con i nomi di tutti gli autori in copertina. Beninteso, quello di Lansdale bene in vista: sono onesto, non cretino.
Certe antologie di autori vari sono vere lezioni di scrittura. Come quelle etichettate “Alfred Hitchcock presenta” pubblicate negli anni Settanta dagli Oscar Mondadori. Perlopiù si trattava di short stories dall’Alfred Hitchcock’s Mystery Magazine, con alcuni dei grandi nomi dell’epoca: alcuni mi erano già noti, altri li memorizzavo per andare alla ricerca di loro romanzi o raccolte reperibili in giro. Potrei dire lo stesso delle selezioni dell’Ellery Queen’s Mystery Magazine pubblicate come speciali stagionali da Il Giallo Mondadori o delle antologie di fantascienza di Urania.

Cominciamo proprio dall'antologia di "autori vari", da cui emergeranno alcuni aspetti validi anche per le antologie "personali". Supponiamo che tu ne sia il curatore o la curatrice, quindi abbia il compito di scegliere chi vi partecipa, contattando autrici e autori... possibilmente perché sanno il fatto loro, non solo perché appartengono alla cerchia delle tue amicizie. Nondimeno, nella maggior parte dei casi le antologie sono pubblicate da case editrici piccole o medie, che non possono permettersi di pagare i racconti e, se va bene, compensano solo chi l'ha curata con i diritti dalle vendite... sempre che se ne ricavi una somma sufficiente a fare un bonifico; quindi finisci per chiedere un racconto gratuito a persone che conosci direttamente o indirettamente e che, appunto, accettano di partecipare per amicizia. C'è chi decide di curare un'antologia perché ha avuto un'idea sul tema da seguire e dopo cerca un editore, ma io preferisco sapere prima chi intenda pubblicarla, perché la linea editoriale influirà anche sulla scelta dei testi. In qualche caso a un certo punto interviene la casa editrice, che stabilisce che l'antologia è troppo lunga e dovete tagliare i "racconti di troppo", spesso con il seguente criterio: vanno conservati i nomi che l'editore considera "famosi" e cestinati gli altri, da relegare nella non-esistenza. In quanto "celebre autore ignoto", in qualche caso sono finito anch'io tra i nomi da cestinare, tuttavia ricordo che un mio racconto - commissionato da un curatore ma poi espulso dall'editore - ha avuto una vita ben più lunga di quella dell'antologia ed è stato pubblicato almeno tre volte. Rammento del resto una redattrice che in analoghe circostanze cestinò un brillante racconto di Pinketts - già famosissimo e di richiamo - e poi, non paga, cambiò anche il titolo dell'antologia, mettendocene uno idiota e insensato; per l'antologia successiva l'illustre curatore preferì cambiare casa editrice, suppongo per non aver più a che fare con costei..
Aldilà dei singoli racconti, un aspetto importante è come si componga un’antologia, che sia personale o a più mani. Una raccolta di racconti è un libro che può essere letto in maniere diverse. Come un disco in vinile si può ascoltare sollevando la puntina e spostandola da un brano o un altro, così in un’antologia si può scegliere una storia a caso e cominciare da quella, oppure partire dall’ultima e tornare all’indietro, oppure ancora saltare qua e là senza un particolare criterio. Poiché tuttavia il modo più spontaneo è cominciare dalla prima pagina per arrivare all’ultima, l’ordine proposto dall’editor per la lettura deve rappresentare, a suo modo, una sequenza narrativa. Quindi non ci devono essere di seguito due racconti troppo simili per argomento o per ritmo o per tono, e quello conclusivo deve fare, se possibile, l’effetto della ciliegina sulla torta. L’ordine dei racconti quindi non dev’essere né casuale, tantomeno “dal più bello al più brutto” (anche perché, se io curo un’antologia, non includo racconti che ritengo brutti).
Ci sono quindi opzioni che, come editor, non mi trovano mai d’accordo. Nel caso di autori vari, seguire banalmente l’ordine alfabetico dei cognomi (oppure la posizione in classifica, quando si tratta di racconti selezionati da un concorso), rinunciando a scegliere una sistemazione intenzionale delle varie storie. Anche quando qualche autore vanitoso ritiene di avere più importanza se appare per primo nell'antologia (non è vero, e il primo racconto dev'essere quello più adeguato ad aprire il libro). Nel caso di un’antologia personale – a meno che non sia un Tutti i racconti – non sempre giudico conveniente riempirla con tutte le storie brevi a disposizione, scelte senza particolare criterio. Si pensi ad Andrea G. Pinketts, che per le sue antologie ha sempre selezionato o scritto appositamente i racconti in modo che andassero a comporre una narrazione complessiva.

Devo anche segnalare un aspetto fondamentale: quando si assemblano racconti altrui, li si sottopone a editing (beninteso, limitato solo al necessario) e, dal momento che ognuno degli "autori vari" seguirà norme grafiche diverse di punteggiatura (per esempio, nei dialoghi: virgolette alte, trattini, caporali, etc.) li si uniforma secondo un criterio comune. Ho sempre creduto che fosse ovvio, ma di recente ho sentito parlare di antologie realizzate da incompetenti, ficcando racconti a casaccio in un libro senza revisionarli né uniformarli.
Per riprendere il paragone con il vinile, una persona un tempo molto saggia paragonava l'antologia di racconti al concept album, in cui l’insieme dei singoli brani racconta una storiaIn qualche caso l’ordine è dettato dalla natura stessa dell’argomento. Di recente miei racconti sono apparsi nelle antologie di autori vari Menegang, curata da me, e Come d’Arco scocca a cura di Giancarlo Narciso, entrambe edite da Borderfiction Edizioni: la prima contiene storie noir che si svolgono a Milano dagli anni Cinquanta a oggi, la seconda racconti del mistero ambientati ad Arco di Trento dal Medio Evo alla Seconda guerra mondiale. L’ordine di apparizione è, inevitabilmente, quello cronologico, perché già in questo modo si ottiene una storia dalla somma dei racconti. Ma, quando ho curato antologie personali altrui o mie, per esempio Prove tecniche di trasgressione, ho deciso di lasciarne fuori alcuni racconti, per il semplice fatto che non si accordavano allo stile e al tono della raccolta.
Da questo punto di vista, ci sono esempi molto più importanti di me da seguire: prima della sua morte, Charles Bukowski stabilì quali suoi racconti, in quale ordine e in quali volumi sarebbero dovuti uscire come sue raccolte future, e quali invece – anche se già pubblicati singolarmente – tornare a dormire per sempre nei cassetti. Poi ci fu, puntuale il critico letterario italiano che stroncò la prima raccolta bukowskiana postuma scrivendo: “Ecco che gli eredi pur di fare soldi raschiano il fondo del barile”. Non aveva letto l’antologia, quindi neanche la prefazione, dove si spiegava come questa fosse nata... in un conciso paragrafo riportato chiaramente pure in quarta di copertina. Ma il critico non aveva letto neppure quella.

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(immagine: A. C. Cappi)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

jueves, 29 de diciembre de 2022

Vita da pulp - Il racconto


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Il racconto è una forma narrativa dallo strano destino. Occupa poco spazio, richiede poco tempo per la lettura, quindi dovrebbe essere di più facile fruizione. Ma nel contempo è anche disprezzato perché troppo breve («Quand’è che ti decidi a scrivere un romanzo?») e se viene unito ad altri per farne un libro, porta inevitabilmente a una raccolta di racconti («Le raccolte di racconti non vendono, quand’è che ti decidi a scrivere un romanzo?»)
Beninteso, se ti presenti con un romanzo, quasi nessuno ha tempo e voglia di leggerlo, e se prima hai scritto solo racconti... be’, c’è una replica anche per quello: «Non so se hai il fiato per scrivere un romanzo»
Eppure il racconto è senz’altro un esercizio importante, sia che si intenda continuare a scrivere sulla stessa misura, sia che si voglia passare a qualcosa di più lungo. È ciò che viene chiesto a volte per una rivista o per un’antologia. Inoltre, se si è esordienti o emergenti, esistono numerosi concorsi per racconti inediti che offrono la possibilità di mettersi alla prova e farsi conoscere. Per me, come ho già scritto da queste parti, cominciò proprio così più di trent’anni fa. Oltretutto la percezione di avere qualcuno che ti legge aumenta – o dovrebbe aumentare – il tuo senso di responsabilità quando scrivi.

Da molti anni sono dall’altra parte della barricata: sono io a far parte della giuria di concorsi per racconti di vario genere. È sempre un’esperienza interessante e istruttiva ma, per dirla tutta, se ne vedono di tutti i colori. Per esempio, in un concorso con centinaia di partecipanti mi passarono tra le mani fogli scritti a mano con grafia delirante e indecifrabile, di cui uno con incollati ritagli di un sussidiario delle elementari (almeno presumo: ho un confuso ricordo di illustrazioni di galline).
Ma in generale non è frequente il proverbiale racconto scritto così male fin dalle prime righe da poterlo bocciare senza indugio: nella maggior parte dei casi bisogna leggerlo per intero prima di constatare che non c’è purtroppo alcuna possibilità di redenzione.
La vera minaccia per la salute mentale del giurato è però il Concorrente Seriale: ha un unico, bruttissimo racconto nel cassetto, che invia metodicamente a ogni concorso; ci riprova l’anno dopo anche con lo stesso concorso, nella speranza che da un’edizione all’altra siano cambiati i giurati. Se non altro, quando ti capita per la seconda o terza volta, sai già che puoi bocciarlo senza pietà. Quando ho posto le basi per il Premio Torre Crawford (qui il bando della quarta edizione), di cui dal 2020 presiedo la giuria, ho preso subito un mio accorgimento abituale: tutti i testi devono seguire a un tema preciso, ogni anno una diversa frase dallo scrittore Francis Marion Crawford, precisata nel bando. Quindi, se il racconto nel cassetto non corrisponde proprio a quel tema, bisogna scriverne uno apposta.

Come giurato sono fin troppo tollerante. Perdono gli errori di ortografia imputabili a refusi o cattive abitudini linguistiche invalse nell'uso comune, e fino a oggi non ho bocciato racconti solo per errori nel punto di vista o scarsa familiarità con la consecutio temporum; ma dopo i miei ultimi articoli in proposito (ai link evidenziati in giallo) mi riprometto maggiore severità, perché non avrete più scuse. Sopporto a stento, invece, i racconti basati esclusivamente su un linguaggio aulico fuori luogo: per questo vi rimando al mio articolo La lingua batte dove il Dante duole.
C’è anche chi vuole far passare per racconto il riassunto di una storia più lunga, oppure il primo capitolo di un romanzo. Ma il racconto, per essere tale, è una narrazione compiuta in sé: inizio, svolgimento e conclusione, in un numero di battute limitato.
Al di fuori dei concorsi, un caso tipico è quello del racconto da proporre all’ultima lezione di un corso di scrittura: l’allievo o l’allieva non si presenta perché si vergogna, oppure compare a mani vuote, oppure arriva con un racconto il cui tema è “Devo scrivere un racconto per l’ultima lezione del corso di scrittura e non ho nessuna idea”. Se vuoi scrivere, puoi e devi imparare le tecniche, ma se sei una scrittrice o uno scrittore, non puoi davvero non avere alcuna idea, con tutte le storie che abbiamo intorno e che aspettano solo noi per vedere la luce. A volte basta davvero solo una frase per cominciare una storia.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi in una foto di Oskar Felix Drago, 2013)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

jueves, 22 de diciembre de 2022

Vita da pulp - Punti di vista (una volta per tutte)


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Un aspetto fondamentale della scrittura creativa, su cui vedo di continuo cadere non solo chi è alle prime armi ma anche autrici e autori qualificati come "bestseller", è quello del punto di vista, altrimenti noto con la sigla PDV. Oso dire che non potete scrivere narrativa se non sapete bene di cosa si tratti e come funzioni. Non è immediato: anche a me per averne un'idea precisa, pur avendo letto centinaia di libri, una trentina di anni fa fu necessario un opportuno chiarimento da parte dello scrittore Davide Pinardi, che ringrazio tuttora. Bisogna innanzitutto porsi la domanda: "Dal punto di vista di chi racconto una certa situazione?"
Un tempo si usava il cosiddetto "narratore onnisciente", vale a dire: "Chi racconta la storia sono io che scrivo; dall'alto della mia posizione io so tutto quello che è avvenuto prima, durante e dopo, e so cosa pensano, fanno e desiderano i personaggi; quindi seguitemi fiduciosi, miei piccoli lettori, mentre vi dico cosa succede nel mondo e quel che passa per la testa di ciascuno". Può ancora funzionare in un racconto breve in cui occorra sintetizzare in modo conciso sfondo e contesto, e ovviamente diventa necessario in un saggio. Ma in una narrazione lunga e complessa è meglio astenersene.
Se raccontiamo una storia in prima persona, non è difficile: il punto di vista coincide con quello del personaggio narrante, che quindi esprime solo ciò che vede, sente, pensa, ricorda; dunque chi scrive assume la posizione unica di questo personaggio e chi legge potrà vedere tutto solo attraverso i suoi occhi, ovvero nella soggettiva del personaggio-narratore (esiste anche la possibilità di più narratori in prima persona, ma non affrontiamo l'argomento in questa sede). Laddove in una vicenda raccontata in terza persona - pur evitando il ruolo di "narratore onnisciente" - non siamo obbligati a un singolo punto di vista, ma abbiamo la possibilità di assumere di volta in volta quello di diversi personaggi, cambiandolo a seconda delle necessità: è la cosiddetta soggettiva multipla. E qui le cose si complicano.

L'errore più ricorrente: in una scena cui partecipano due personaggi A e B, raccontare ciò che pensa, ricorda, vede o sente A dal suo punto di vista... e alla riga successiva ciò che pensa, ricorda, vede o sente B dal proprio punto di vista. In pratica saltellare di continuo tra la mente di A e la mente di B. Se poi - come vedo capitare spesso - non precisate nemmeno se l'uno o l'altro pensiero appartenga ad A o B (a volte è opportuno specificare il soggetto di una frase), di lì a poco chi legge non capisce più a quale personaggio ci si riferisca. Per voi che scrivete può essere perfettamente chiaro, perché lo sapete già, ma chi legge non è nella vostra testaSe non prestate attenzione a come raccontate una scena, non riuscirà più a seguirvi.
Qualche anno fa mi è capitato di tradurre un autore spagnolo, fresco vincitore di un premio letterario a suo tempo prestigioso, che da quel momento per me ha perso qualsiasi valore... perché non si può premiare un romanzo scritto così male e pubblicarlo senza un editing rigoroso. Costui non solo continuava a passare a ogni riga dalla soggettiva di un personaggio a quella di un altro, ma spesso ometteva il soggetto di una frase, rendendo incomprensibile il testo e costringendomi a rileggerlo più volte per capire chi stesse facendo o pensando cosa. Anche perché, se l'avessi tradotto alla lettera, tutti avrebbero pensato che l'incapace fossi io. Senonché, costretto a specificare a ogni frase di chi fosse il mutevole punto di vista, dovevo anche evitare di ripetere continuamente il nome del personaggio di turno.
La mia raccomandazione: quando scrivete una scena, assumete la posizione di un unico personaggio (e a questo proposito vi rimando all'articolo precedente) e seguite l'intera scena dal suo punto di vista. Se avete necessità di informare chi legge anche di qualcosa che passa per la testa di un personaggio diverso, a tempo debito fate un bello stacco di una riga e vi trasferite in un altro punto di vista, ma senza correre di continuo tra A e B. Vi assicuro che per chi legge diverrà tutto molto più chiaro. E aggiungo che ci sono editori che, quando si trovano di fronte a un testo che non rispetta questa regola, lo spostano nel cestino senza perderci tempo, consci che renderlo leggibile richiederebbe un eccessivo lavoro di editing.

Detto questo, ci sono eccezioni che mi permetto io stesso, a patto che chi legge riesca a seguire tutto senza avere dubbi. Prendo due esempi su cui mi sono state fatte domande precise. Nel prologo al romanzo Eva Kant - Il giorno della vendetta, metto in scena un immaginario evento storico avvenuto secoli prima: all'inizio, come narratore onnisciente, racconto una battaglia tra due eserciti; quindi il duello conclusivo tra i rispettivi condottieri, esponendo il necessario punto di vista dell'uno e dell'altro; infine, di nuovo come narratore onnisciente, quali saranno le conseguenze nel futuro. Lo stile da cronaca antica, con tanto di elencazione di stampo medioevale, legittima il rapido passaggio da una modalità di narrazione all'altra; mentre il resto del romanzo sarà esposto in soggettiva multipla.
Un altro caso: nel romanzo Martin Mystère-Le guerre nel buio racconto in flashback il drammatico episodio di un incidente minerario realmente avvenuto (a cui aggiungo un elemento che si collega alla vicenda) dal punto di vista di un personaggio (immaginario, ma plausibile) presente alla tragedia. Dopo l'esplosione e il crollo della galleria, come narratore onnisciente riassumo invece in poche righe il bilancio delle vittime: non potevo mantenere il punto di vista di un minatore ormai morto nel disastro e sarebbe stato inopportuno fare uno stacco per inserire solo una brevissima conclusione dell'episodio. Viceversa, in Nightshade-Missione Cuba apro un capitolo da "onnisciente" con la storia dei cocktail dell'isola prima di "entrare" in un bar dell'Avana e raccontare l'incontro tra due personaggi dalla soggettiva della protagonista. Si può fare il paragone con una sequenza cinematografica in cui, all'inizio e/o alla fine, si assiste a una panoramica dall'alto che permette di comprendere meglio la scena.
Un altro caso tipico: una scena di omicidio viene seguita dal punto di vista della vittima; ma dopo la sua morte, nelle ultime due righe, la soggettiva passa a quella dell'assassino che si allontana indisturbato. Anche in questa situazione - a patto, vi ricordo, di specificare il soggetto delle frasi -  chi legge non avrà dubbi su quale sia il punto di vista del momento. Ma, pure se vogliamo concederci qualche eccezione come quelle che ho appena esposto, ribadisco l'importanza della comprensibilità del testo, che fa parte del rispetto che chiunque scriva deve mantenere nei confronti di chi legge. A questo scopo, un uso corretto del punto di vista è e rimane una necessità irrinunciabile.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi in una foto di Alfredo Martinelli dal Festival Torre Crawford 2022)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.