|
Foto di A.C.Cappi da "Medina-A Milano non c'è il mare" |
Riflessioni di un celebre autore ignoto, di Andrea Carlo Cappi
Confrontarsi con il pubblico è molto importante per chi scrive, anche e soprattutto se si occupa di narrativa di evasione, ma ha la pretesa di realizzare intrattenimento intelligente, oltre che di livello professionale. Tempo fa ho trovato per caso su Internet un'osservazione di una lettrice che chiameremo X, la quale pone genericamente al mondo del web un quesito che riguarda un mio libro.
"Ho davvero bisogno", domanda X, "di sapere che l'elicottero si chiama Bell494843 o quello che è? Aggiunge qualcosa alla storia? Quante persone sanno di che tipo di elicottero si tratta? Mi interessa che il cattivo sta sparando con un calibro 45 piuttosto che 37?"
Poiché un dubbio di questo genere può finire sotto gli occhi di chi vuol mettersi a scrivere e dare l'impressione fuorviante che certi dettagli siano superflui, è bene soffermarci sulla questione e spiegare perché, sì, ce n'è davvero bisogno.
Anni fa, agli inizi della mia carriera, un grande editor della Mondadori (poi di Rizzoli) di nome Stefano Magagnoli mi spiegò che, se un personaggio in un libro vede un albero, questo non può essere semplicemente "un albero", bensì, un pioppo, un ulivo, un salice e via dicendo.
Il che ci fa capire perché un romanziere come Emilio Salgari studiasse con cura la vegetazione (e la fauna) dei luoghi in cui ambientava le sue storie, permettendo a Sandokan di liberarsi dalle sabbie mobili aggrappandosi ai paletuvieri e non a "chissà che".
O perché Jeffery Deaver, ambientando parte di un suo thriller in una foresta nordamericana, si sia sentito in dovere di precisare quali alberi la popolassero. Ironia della sorte, l'ultima volta che incontrai Magagnoli - prematuramente scomparso un anno e mezzo fa - fu proprio alla presentazione di quel libro, in cui raccontai a Deaver e ai presenti quanto fosse stato difficile tradurre i capitoli della foresta, perché si trattava di vegetazione locale di cui non esistevano termini in italiano, solo i nomi in inglese o i termini scientifici in latino.
Così un'auto, un aereo, una pistola non possono essere "qualsiasi". Occorre quanto possibile specificare di cosa si tratta. In primo luogo, perché se hanno un "ruolo" all'interno della storia, fa un'enorme differenza di quale marca e modello siano.
Facciamo un esempio sulle armi da fuoco: posto che non esiste il calibro trentasette (ma esistono il .357 e il .375), sparare con un'arma da 6,35 millimetri è diverso dallo sparare con un'arma da 9 millimetri o da 45 centesimi di pollice (che corrispondono a circa 11 millimetri), perché cambiano le dimensioni della pistola e dei proiettili, di conseguenza anche il danno che possono procurare a un essere umano. Ma fa già una bella differenza minacciare qualcuno con una semiautomatica di piccolo calibro o con la 44 magnum dell'ispettore Callaghan.
Specificare la natura di mezzi, attrezzi e oggetti fornisce a chi legge informazioni supplementari su ambientazione, atmosfera e personaggi. Per questo a volte si inseriscono dettagli sui prodotti impiegati. Prima ancora che Bret Easton Ellis usasse le firme dell'abbigliamento come uno strumento narrativo in American Psycho, sono rimaste celebri le menzioni non solo di armi e automobili, ma anche di etichette di champagne o tipologie di cocktail (e persino la marca di uno shampoo) nei romanzi di James Bond, di cui Ian Fleming descriveva con cura cosa mangiasse a colazione o come si preparasse le uova strapazzate per dare al suo pubblico la sensazione di "vivere" con 007 tanto i momenti di quiete quanto quelli di pericolo.
Nel caso di un altro autore di spionaggio, Gerard De Villiers, i riferimenti a un particolare brand scivolano nel product placement: in uno stesso romanzo tanto buoni quanto cattivi usano lo stesso tipo di orologi o accendini, e bevono la stessa marca di champagne o di cognac, cosa piuttosto improbabile. Ma, come dico spesso, il vero motivo di interesse dei romanzi di De Villiers è la sua analisi delle situazioni critiche della politica internazionale.
Nel caso invece del grande Manuel Vázquez
Montalbán, sono inscindibili dalla sue opera tanto le ricette che caratterizzano le esperienze gastronimiche del suo protagonista seriale Pepe Carvalho, quanto i titoli dei libri da questi letti in passato, che ora sceglie di ardere nel caminetto.
Ma torniamo alla questione di partenza. Tra chi legge, ci può essere anche qualcuno che è in grado di riconoscere mezzi e armi citate. Per la lettrice X può non fare differenza che pistola usa il personaggio, ma una categoria di pubblico, che l'amico Stefano Di Marino (il più grande narratore di genere in Italia) chiamava scherzosamente "i bullonari", conosce in profondità la materia e pretende che i dettagli tecnici siano descritti in modo corretto.
Un altro grande romanziere italiano, Alan D. Altieri, quando raccontava storie ambientate nel prossimo futuro arrivava a descrivere minutamente armi che non sono ancora state realizzate, trasformando anche l'aspetto tecnico in una componente epica e drammatica.
Qualche tempo fa ambientai un capitolo di un mio romanzo in una reale cittadina degli Stati Uniti in cui erano accaduti alcuni fatti che si collegavano alla trama. Per renderne più verosimile la descrizione, non solo esplorai via Internet scorci del luogo e toponomastica, ma consultai la pagina Facebook dello Sheriff Department locale per sapere quale modello di veicoli utilizzasse.
Del resto uso spesso Google Maps per visitare luoghi in cui non sono mai stato o nei quali non ritorno da tempo. La funzione Street View mi permette non solo di sapere che se la protagonista svolta a destra si trovi in via Taldeitali, ma anche cosa si vede dalla strada.
E non faccio questo solo per il mondo reale. Le avventure di Diabolik ed Eva Kant sono ambientate in un mondo tutto loro in cui solo occasionalmente sono inseriti anche luoghi veri. Quando nei miei romanzi che li vedono protagonisti scrivo capitoli ambientati nella fittizia città di Clerville, mi servo della preziosa "Guida turistica di Clerville" (che considero un vero gioiello di geografia immaginaria), munita sia di una mappa topografica della capitale, sia di una carta stradale dell'intero stato, ricostruite con meticolosità in base a decenni di storie a fumetti. Anche i Manetti Bros., registi del film "Diabolik" di recente successo al cinema, hanno fatto tesoro della "Guida": l'inseguimento iniziale a Clerville si svolge rispettando nel dettaglio i nomi delle vie, come se si trattasse di una città che esiste davvero.
Tale necessità di realismo non mi impedisce, all'occorrenza, di creare luoghi immaginari anche nel mondo reale, o alterare luoghi esistenti in funzione delle necessità della trama. Una volta ho ambientato una sparatoria in un bar sulla spiaggia di una località in Liguria, cambiando il nome del locale per non fargli cattiva pubblicità, ma ringraziando in appendice i proprietari di quello vero. In alcune mie storie appare un albergo di Madrid che in realtà non esiste, ma posso farci capitare di tutto senza che nessuno si offenda. Di recente ho ambientato alcuni capitoli di un romanzo in un museo che ho visitato a Berlino, modificando però alcuni dettagli dell'interno secondo le mie esigenze narrative.
C'è, insomma, un enorme lavoro di ricerca, elaborazione e ricostruzione dei dettagli, per consentire a chi legge di vivere la vicenda "dall'interno". Quindi ecco la mia risposta alla lettrice X: il modello di elicottero o il calibro della pistola aggiunge qualcosa alla storia. Anche se mi costa fatica, non posso limitarmi a scrivere "la cosa che fa bang bang".
Continua...
Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.