miércoles, 4 de enero de 2023

Vita da pulp - Dal racconto all'antologia


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Quando la volta scorsa ho parlato del racconto, ho accennato alla questione delle raccolte. Dal punto di vista editoriale, esistono due tipi di antologie: quella di "autori vari" (curate da una o più persone) e quella "personale", contenente racconti che portano un'unica firma, con una selezione fatta dall'autrice/autore oppure da un/un'editor. È noto che, specie quando riguardano autori italiani esordienti, vige lo slogan: “I libri di racconti non si vendono”, pertanto non andrebbero pubblicati. Il che è vero per i brutti libri di racconti, ma nulla esclude a priori che ne esistano di belli. Ce ne sono stati in passato, ce ne sono anche oggi. Altrimenti non sarebbero mai esistiti i Racconti del mistero di Edgar Allan Poe o I quarantanove racconti di Ernest Hemingway. Ma persino le antologie di autori vari, anche stranieri, pare non siano viste di buon occhio, a meno che non contengano un racconto di Stephen King o una prefazione di Jeffery Deaver: in quel caso l’Astuto Editore Italico scrive sulla copertina a caratteri cubitali il nome più famoso, al fine di turlupinare l’acquirente, facendogli credere che si tratti di un nuovo romanzo.
Una volta per un numero di M-Rivista del Mistero – all’epoca di fatto una serie di antologie a tema in formato libro – ci provò anche l’ufficio marketing della casa editrice che la pubblicava: avevo acquisito e tradotto una novelette inedita di Joe R. Lansdale, per uno speciale sul western tra racconti classici americani e contemporanei italiani; i furbacchioni volevano mettere in copertina solo il nome di Lansdale e far passare il volume per un suo romanzo; mi opposi con tutte le mie forze (dopotutto figuravo ancora come direttore editoriale) e lo speciale Nero West ebbe grande successo con i nomi di tutti gli autori in copertina. Beninteso, quello di Lansdale bene in vista: sono onesto, non cretino.
Certe antologie di autori vari sono vere lezioni di scrittura. Come quelle etichettate “Alfred Hitchcock presenta” pubblicate negli anni Settanta dagli Oscar Mondadori. Perlopiù si trattava di short stories dall’Alfred Hitchcock’s Mystery Magazine, con alcuni dei grandi nomi dell’epoca: alcuni mi erano già noti, altri li memorizzavo per andare alla ricerca di loro romanzi o raccolte reperibili in giro. Potrei dire lo stesso delle selezioni dell’Ellery Queen’s Mystery Magazine pubblicate come speciali stagionali da Il Giallo Mondadori o delle antologie di fantascienza di Urania.

Cominciamo proprio dall'antologia di "autori vari", da cui emergeranno alcuni aspetti validi anche per le antologie "personali". Supponiamo che tu ne sia il curatore o la curatrice, quindi abbia il compito di scegliere chi vi partecipa, contattando autrici e autori... possibilmente perché sanno il fatto loro, non solo perché appartengono alla cerchia delle tue amicizie. Nondimeno, nella maggior parte dei casi le antologie sono pubblicate da case editrici piccole o medie, che non possono permettersi di pagare i racconti e, se va bene, compensano solo chi l'ha curata con i diritti dalle vendite... sempre che se ne ricavi una somma sufficiente a fare un bonifico; quindi finisci per chiedere un racconto gratuito a persone che conosci direttamente o indirettamente e che, appunto, accettano di partecipare per amicizia. C'è chi decide di curare un'antologia perché ha avuto un'idea sul tema da seguire e dopo cerca un editore, ma io preferisco sapere prima chi intenda pubblicarla, perché la linea editoriale influirà anche sulla scelta dei testi. In qualche caso a un certo punto interviene la casa editrice, che stabilisce che l'antologia è troppo lunga e dovete tagliare i "racconti di troppo", spesso con il seguente criterio: vanno conservati i nomi che l'editore considera "famosi" e cestinati gli altri, da relegare nella non-esistenza. In quanto "celebre autore ignoto", in qualche caso sono finito anch'io tra i nomi da cestinare, tuttavia ricordo che un mio racconto - commissionato da un curatore ma poi espulso dall'editore - ha avuto una vita ben più lunga di quella dell'antologia ed è stato pubblicato almeno tre volte. Rammento del resto una redattrice che in analoghe circostanze cestinò un brillante racconto di Pinketts - già famosissimo e di richiamo - e poi, non paga, cambiò anche il titolo dell'antologia, mettendocene uno idiota e insensato; per l'antologia successiva l'illustre curatore preferì cambiare casa editrice, suppongo per non aver più a che fare con costei..
Aldilà dei singoli racconti, un aspetto importante è come si componga un’antologia, che sia personale o a più mani. Una raccolta di racconti è un libro che può essere letto in maniere diverse. Come un disco in vinile si può ascoltare sollevando la puntina e spostandola da un brano o un altro, così in un’antologia si può scegliere una storia a caso e cominciare da quella, oppure partire dall’ultima e tornare all’indietro, oppure ancora saltare qua e là senza un particolare criterio. Poiché tuttavia il modo più spontaneo è cominciare dalla prima pagina per arrivare all’ultima, l’ordine proposto dall’editor per la lettura deve rappresentare, a suo modo, una sequenza narrativa. Quindi non ci devono essere di seguito due racconti troppo simili per argomento o per ritmo o per tono, e quello conclusivo deve fare, se possibile, l’effetto della ciliegina sulla torta. L’ordine dei racconti quindi non dev’essere né casuale, tantomeno “dal più bello al più brutto” (anche perché, se io curo un’antologia, non includo racconti che ritengo brutti).
Ci sono quindi opzioni che, come editor, non mi trovano mai d’accordo. Nel caso di autori vari, seguire banalmente l’ordine alfabetico dei cognomi (oppure la posizione in classifica, quando si tratta di racconti selezionati da un concorso), rinunciando a scegliere una sistemazione intenzionale delle varie storie. Anche quando qualche autore vanitoso ritiene di avere più importanza se appare per primo nell'antologia (non è vero, e il primo racconto dev'essere quello più adeguato ad aprire il libro). Nel caso di un’antologia personale – a meno che non sia un Tutti i racconti – non sempre giudico conveniente riempirla con tutte le storie brevi a disposizione, scelte senza particolare criterio. Si pensi ad Andrea G. Pinketts, che per le sue antologie ha sempre selezionato o scritto appositamente i racconti in modo che andassero a comporre una narrazione complessiva.

Devo anche segnalare un aspetto fondamentale: quando si assemblano racconti altrui, li si sottopone a editing (beninteso, limitato solo al necessario) e, dal momento che ognuno degli "autori vari" seguirà norme grafiche diverse di punteggiatura (per esempio, nei dialoghi: virgolette alte, trattini, caporali, etc.) li si uniforma secondo un criterio comune. Ho sempre creduto che fosse ovvio, ma di recente ho sentito parlare di antologie realizzate da incompetenti, ficcando racconti a casaccio in un libro senza revisionarli né uniformarli.
Per riprendere il paragone con il vinile, una persona un tempo molto saggia paragonava l'antologia di racconti al concept album, in cui l’insieme dei singoli brani racconta una storiaIn qualche caso l’ordine è dettato dalla natura stessa dell’argomento. Di recente miei racconti sono apparsi nelle antologie di autori vari Menegang, curata da me, e Come d’Arco scocca a cura di Giancarlo Narciso, entrambe edite da Borderfiction Edizioni: la prima contiene storie noir che si svolgono a Milano dagli anni Cinquanta a oggi, la seconda racconti del mistero ambientati ad Arco di Trento dal Medio Evo alla Seconda guerra mondiale. L’ordine di apparizione è, inevitabilmente, quello cronologico, perché già in questo modo si ottiene una storia dalla somma dei racconti. Ma, quando ho curato antologie personali altrui o mie, per esempio Prove tecniche di trasgressione, ho deciso di lasciarne fuori alcuni racconti, per il semplice fatto che non si accordavano allo stile e al tono della raccolta.
Da questo punto di vista, ci sono esempi molto più importanti di me da seguire: prima della sua morte, Charles Bukowski stabilì quali suoi racconti, in quale ordine e in quali volumi sarebbero dovuti uscire come sue raccolte future, e quali invece – anche se già pubblicati singolarmente – tornare a dormire per sempre nei cassetti. Poi ci fu, puntuale il critico letterario italiano che stroncò la prima raccolta bukowskiana postuma scrivendo: “Ecco che gli eredi pur di fare soldi raschiano il fondo del barile”. Non aveva letto l’antologia, quindi neanche la prefazione, dove si spiegava come questa fosse nata... in un conciso paragrafo riportato chiaramente pure in quarta di copertina. Ma il critico non aveva letto neppure quella.

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(immagine: A. C. Cappi)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

jueves, 29 de diciembre de 2022

Vita da pulp - Il racconto


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Il racconto è una forma narrativa dallo strano destino. Occupa poco spazio, richiede poco tempo per la lettura, quindi dovrebbe essere di più facile fruizione. Ma nel contempo è anche disprezzato perché troppo breve («Quand’è che ti decidi a scrivere un romanzo?») e se viene unito ad altri per farne un libro, porta inevitabilmente a una raccolta di racconti («Le raccolte di racconti non vendono, quand’è che ti decidi a scrivere un romanzo?»)
Beninteso, se ti presenti con un romanzo, quasi nessuno ha tempo e voglia di leggerlo, e se prima hai scritto solo racconti... be’, c’è una replica anche per quello: «Non so se hai il fiato per scrivere un romanzo»
Eppure il racconto è senz’altro un esercizio importante, sia che si intenda continuare a scrivere sulla stessa misura, sia che si voglia passare a qualcosa di più lungo. È ciò che viene chiesto a volte per una rivista o per un’antologia. Inoltre, se si è esordienti o emergenti, esistono numerosi concorsi per racconti inediti che offrono la possibilità di mettersi alla prova e farsi conoscere. Per me, come ho già scritto da queste parti, cominciò proprio così più di trent’anni fa. Oltretutto la percezione di avere qualcuno che ti legge aumenta – o dovrebbe aumentare – il tuo senso di responsabilità quando scrivi.

Da molti anni sono dall’altra parte della barricata: sono io a far parte della giuria di concorsi per racconti di vario genere. È sempre un’esperienza interessante e istruttiva ma, per dirla tutta, se ne vedono di tutti i colori. Per esempio, in un concorso con centinaia di partecipanti mi passarono tra le mani fogli scritti a mano con grafia delirante e indecifrabile, di cui uno con incollati ritagli di un sussidiario delle elementari (almeno presumo: ho un confuso ricordo di illustrazioni di galline).
Ma in generale non è frequente il proverbiale racconto scritto così male fin dalle prime righe da poterlo bocciare senza indugio: nella maggior parte dei casi bisogna leggerlo per intero prima di constatare che non c’è purtroppo alcuna possibilità di redenzione.
La vera minaccia per la salute mentale del giurato è però il Concorrente Seriale: ha un unico, bruttissimo racconto nel cassetto, che invia metodicamente a ogni concorso; ci riprova l’anno dopo anche con lo stesso concorso, nella speranza che da un’edizione all’altra siano cambiati i giurati. Se non altro, quando ti capita per la seconda o terza volta, sai già che puoi bocciarlo senza pietà. Quando ho posto le basi per il Premio Torre Crawford (qui il bando della quarta edizione), di cui dal 2020 presiedo la giuria, ho preso subito un mio accorgimento abituale: tutti i testi devono seguire a un tema preciso, ogni anno una diversa frase dallo scrittore Francis Marion Crawford, precisata nel bando. Quindi, se il racconto nel cassetto non corrisponde proprio a quel tema, bisogna scriverne uno apposta.

Come giurato sono fin troppo tollerante. Perdono gli errori di ortografia imputabili a refusi o cattive abitudini linguistiche invalse nell'uso comune, e fino a oggi non ho bocciato racconti solo per errori nel punto di vista o scarsa familiarità con la consecutio temporum; ma dopo i miei ultimi articoli in proposito (ai link evidenziati in giallo) mi riprometto maggiore severità, perché non avrete più scuse. Sopporto a stento, invece, i racconti basati esclusivamente su un linguaggio aulico fuori luogo: per questo vi rimando al mio articolo La lingua batte dove il Dante duole.
C’è anche chi vuole far passare per racconto il riassunto di una storia più lunga, oppure il primo capitolo di un romanzo. Ma il racconto, per essere tale, è una narrazione compiuta in sé: inizio, svolgimento e conclusione, in un numero di battute limitato.
Al di fuori dei concorsi, un caso tipico è quello del racconto da proporre all’ultima lezione di un corso di scrittura: l’allievo o l’allieva non si presenta perché si vergogna, oppure compare a mani vuote, oppure arriva con un racconto il cui tema è “Devo scrivere un racconto per l’ultima lezione del corso di scrittura e non ho nessuna idea”. Se vuoi scrivere, puoi e devi imparare le tecniche, ma se sei una scrittrice o uno scrittore, non puoi davvero non avere alcuna idea, con tutte le storie che abbiamo intorno e che aspettano solo noi per vedere la luce. A volte basta davvero solo una frase per cominciare una storia.

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(immagine: A. C. Cappi in una foto di Oskar Felix Drago, 2013)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

jueves, 22 de diciembre de 2022

Vita da pulp - Punti di vista (una volta per tutte)


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Un aspetto fondamentale della scrittura creativa, su cui vedo di continuo cadere non solo chi è alle prime armi ma anche autrici e autori qualificati come "bestseller", è quello del punto di vista, altrimenti noto con la sigla PDV. Oso dire che non potete scrivere narrativa se non sapete bene di cosa si tratti e come funzioni. Non è immediato: anche a me per averne un'idea precisa, pur avendo letto centinaia di libri, una trentina di anni fa fu necessario un opportuno chiarimento da parte dello scrittore Davide Pinardi, che ringrazio tuttora. Bisogna innanzitutto porsi la domanda: "Dal punto di vista di chi racconto una certa situazione?"
Un tempo si usava il cosiddetto "narratore onnisciente", vale a dire: "Chi racconta la storia sono io che scrivo; dall'alto della mia posizione io so tutto quello che è avvenuto prima, durante e dopo, e so cosa pensano, fanno e desiderano i personaggi; quindi seguitemi fiduciosi, miei piccoli lettori, mentre vi dico cosa succede nel mondo e quel che passa per la testa di ciascuno". Può ancora funzionare in un racconto breve in cui occorra sintetizzare in modo conciso sfondo e contesto, e ovviamente diventa necessario in un saggio. Ma in una narrazione lunga e complessa è meglio astenersene.
Se raccontiamo una storia in prima persona, non è difficile: il punto di vista coincide con quello del personaggio narrante, che quindi esprime solo ciò che vede, sente, pensa, ricorda; dunque chi scrive assume la posizione unica di questo personaggio e chi legge potrà vedere tutto solo attraverso i suoi occhi, ovvero nella soggettiva del personaggio-narratore (esiste anche la possibilità di più narratori in prima persona, ma non affrontiamo l'argomento in questa sede). Laddove in una vicenda raccontata in terza persona - pur evitando il ruolo di "narratore onnisciente" - non siamo obbligati a un singolo punto di vista, ma abbiamo la possibilità di assumere di volta in volta quello di diversi personaggi, cambiandolo a seconda delle necessità: è la cosiddetta soggettiva multipla. E qui le cose si complicano.

L'errore più ricorrente: in una scena cui partecipano due personaggi A e B, raccontare ciò che pensa, ricorda, vede o sente A dal suo punto di vista... e alla riga successiva ciò che pensa, ricorda, vede o sente B dal proprio punto di vista. In pratica saltellare di continuo tra la mente di A e la mente di B. Se poi - come vedo capitare spesso - non precisate nemmeno se l'uno o l'altro pensiero appartenga ad A o B (a volte è opportuno specificare il soggetto di una frase), di lì a poco chi legge non capisce più a quale personaggio ci si riferisca. Per voi che scrivete può essere perfettamente chiaro, perché lo sapete già, ma chi legge non è nella vostra testaSe non prestate attenzione a come raccontate una scena, non riuscirà più a seguirvi.
Qualche anno fa mi è capitato di tradurre un autore spagnolo, fresco vincitore di un premio letterario a suo tempo prestigioso, che da quel momento per me ha perso qualsiasi valore... perché non si può premiare un romanzo scritto così male e pubblicarlo senza un editing rigoroso. Costui non solo continuava a passare a ogni riga dalla soggettiva di un personaggio a quella di un altro, ma spesso ometteva il soggetto di una frase, rendendo incomprensibile il testo e costringendomi a rileggerlo più volte per capire chi stesse facendo o pensando cosa. Anche perché, se l'avessi tradotto alla lettera, tutti avrebbero pensato che l'incapace fossi io. Senonché, costretto a specificare a ogni frase di chi fosse il mutevole punto di vista, dovevo anche evitare di ripetere continuamente il nome del personaggio di turno.
La mia raccomandazione: quando scrivete una scena, assumete la posizione di un unico personaggio (e a questo proposito vi rimando all'articolo precedente) e seguite l'intera scena dal suo punto di vista. Se avete necessità di informare chi legge anche di qualcosa che passa per la testa di un personaggio diverso, a tempo debito fate un bello stacco di una riga e vi trasferite in un altro punto di vista, ma senza correre di continuo tra A e B. Vi assicuro che per chi legge diverrà tutto molto più chiaro. E aggiungo che ci sono editori che, quando si trovano di fronte a un testo che non rispetta questa regola, lo spostano nel cestino senza perderci tempo, consci che renderlo leggibile richiederebbe un eccessivo lavoro di editing.

Detto questo, ci sono eccezioni che mi permetto io stesso, a patto che chi legge riesca a seguire tutto senza avere dubbi. Prendo due esempi su cui mi sono state fatte domande precise. Nel prologo al romanzo Eva Kant - Il giorno della vendetta, metto in scena un immaginario evento storico avvenuto secoli prima: all'inizio, come narratore onnisciente, racconto una battaglia tra due eserciti; quindi il duello conclusivo tra i rispettivi condottieri, esponendo il necessario punto di vista dell'uno e dell'altro; infine, di nuovo come narratore onnisciente, quali saranno le conseguenze nel futuro. Lo stile da cronaca antica, con tanto di elencazione di stampo medioevale, legittima il rapido passaggio da una modalità di narrazione all'altra; mentre il resto del romanzo sarà esposto in soggettiva multipla.
Un altro caso: nel romanzo Martin Mystère-Le guerre nel buio racconto in flashback il drammatico episodio di un incidente minerario realmente avvenuto (a cui aggiungo un elemento che si collega alla vicenda) dal punto di vista di un personaggio (immaginario, ma plausibile) presente alla tragedia. Dopo l'esplosione e il crollo della galleria, come narratore onnisciente riassumo invece in poche righe il bilancio delle vittime: non potevo mantenere il punto di vista di un minatore ormai morto nel disastro e sarebbe stato inopportuno fare uno stacco per inserire solo una brevissima conclusione dell'episodio. Viceversa, in Nightshade-Missione Cuba apro un capitolo da "onnisciente" con la storia dei cocktail dell'isola prima di "entrare" in un bar dell'Avana e raccontare l'incontro tra due personaggi dalla soggettiva della protagonista. Si può fare il paragone con una sequenza cinematografica in cui, all'inizio e/o alla fine, si assiste a una panoramica dall'alto che permette di comprendere meglio la scena.
Un altro caso tipico: una scena di omicidio viene seguita dal punto di vista della vittima; ma dopo la sua morte, nelle ultime due righe, la soggettiva passa a quella dell'assassino che si allontana indisturbato. Anche in questa situazione - a patto, vi ricordo, di specificare il soggetto delle frasi -  chi legge non avrà dubbi su quale sia il punto di vista del momento. Ma, pure se vogliamo concederci qualche eccezione come quelle che ho appena esposto, ribadisco l'importanza della comprensibilità del testo, che fa parte del rispetto che chiunque scriva deve mantenere nei confronti di chi legge. A questo scopo, un uso corretto del punto di vista è e rimane una necessità irrinunciabile.

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(immagine: A. C. Cappi in una foto di Alfredo Martinelli dal Festival Torre Crawford 2022)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

jueves, 15 de diciembre de 2022

Vita da pulp - Il Metodo Stanislawskij


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Un paio di anni fa, in questa rubrica, pubblicai un post intitolato "Una testa piena di gente", in cui citavo il Metodo Stanislawskij come uno strumento efficace ed essenziale anche per chi scrive, non solo per chi recita. Come è noto, il metodo in questione consiste nell'approfondire la psicologia del personaggio - anche oltre ciò che appare nel testo - e collegarne le emozioni alle proprie. In sostanza, arrivare all'identificazione interprete-personaggio.
La stessa tecnica funziona anche quando si scrive, con una differenza sostanziale: l'autrice o l'autore ha l'obbligo di essere non solo tutti i personaggi di cui assume il punto di vista, ma in un certo senso anche coloro con cui questi interagiscono nel corso della vicenda.
Un'autrice/un autore (con tutte le sue caratteristiche personali, etniche, sessuali e via dicendo) può scrivere un romanzo con un proprio alter ego assoluto, narrando la vicenda dal suo esclusivo punto di vista. Ma dovrà per forza occuparsi anche di personaggi secondari più o meno diversi da quello principale. A meno che la/il protagonista non passi tutta la storia in isolamento totale, senza mai non solo avere ma nemmeno ricordare alcuna interazione con altri esseri umani; suppongo però che così l'opera risulterebbe moderatamente noiosa.

Insomma, non se ne esce: dobbiamo diventare "altro" da noi stessi. Non è né facile né immediato. Per cominciare, i personaggi devono adottare il "registro linguistico" corrispondente, ossia devono parlare come parlerebbero i loro equivalenti nella realtà. La questione dei dialoghi è molto delicata e vale anche quando si riportano come "discorso pensato" i pensieri che passano per la testa di un personaggio. Chi è? In che epoca vive? Quanti anni ha? Qual è il suo livello culturale? Quanto è ricco (o povero) il suo vocabolario? Quali sono i suoi processi mentali? Poi ci sono personaggi che devono per forza esprimersi in modo sgrammaticato: come ho già detto su queste pagine web, per evitare di scrivere frasi scorrette, quando li faccio parlare cerco di aggirare le costruzioni che richiedano congiuntivi e condizionali; ma di recente ho raccontato di un personaggio storico noto per i suoi strafalcioni linguistici e non ho potuto risparmiargli almeno un condizionale strampalato (spero che non capiti in mano a un editor che non lo capisca e lo corregga pensando che sia un mio errore...)
A volte però chi si cimenta nella narrativa o nella sceneggiatura fa parlare i personaggi con un linguaggio a metà tra gli slogan pubblicitari e la modulistica burocratica (che siano questi gli unici esempi di lingua scritta con cui l'autore/autrice ha a che fare?) Oppure, semplicemente, con dialoghi assurdi... non nel senso di Samuel Beckett, ma assurdi in quanto composti da parole scelte a caso. Giusto ieri mi è stato segnalata una frase da quello che in questo periodo sarebbe "il romanzo più venduto d'Italia" (di autrice italiana e ambientazione americana): «Ora sei diventata sorda?» latrò infastidita. «O per caso credi che lo sia io? L’aria aperta ti ha forse foderato le orecchie?» Per la mia maestra romagnola alle elementari, semmai, le orecchie erano "foderate di prosciutto", ma capisco che oggi certe espressioni mutino, per non rischiare di offendere la sensibilità dei vegani. Si noti anche l'uso del verbo "latrare", per cui rimando a un mio post di qualche tempo fa, "La lingua batte dove il Dante duole". 
Ecco il mio modesto suggerimento: immedesimatevi nei personaggi e immaginatevi nella situazione raccontata. Chiedetevi cosa direbbe chi vi sta intorno e come lo direbbe, da persona vera, non da artificioso, presunto "personaggio letterario". Ma non solo questo: cercate di percepire suoni, odori e altre sensazioni che corrispondono alla situazione. Non occorre descrivere tutto, ma bisogna sapere com'è. Se i personaggi si trovano in un campo di battaglia su cui piovono proiettili d'artiglieria, l'ambiente circostante non sarà un pascolo verdeggiante in un tranquillo giorno di primavera: tutto ciò influisce anche sul modo di pensare e di esprimersi di chi occupa la scena. Mettetevi nei loro panni.

Il discorso va applicato anche alle traduzioni. Prima di tutto, occorre entrare nella testa dell'autrice o dell'autore su cui si sta lavorando, cercando di ricreare il testo nel modo più fedele possibile... come se fosse stato concepito in italiano. Lo raccontavo qualche giorno fa durante la presentazione al Noir in Festival del romanzo "Operazione Kazan" di Vicente Vallés, rispondendo alla domanda di Luca Crovi su come mi fossi trovato a tradurlo: in questo caso è stato particolarmente semplice, perché tanto gli argomenti quanto il modo di affrontarli erano molto vicini a romanzi che scrivo io.
Dopodiché bisogna immedesimarsi quanto possibile nei singoli personaggi come li ha visti chi li ha raccontati. Ma anche qui occorre tenere presente i diversi registri linguistici. Ho già raccontato delle mie esperienze in proposito traducendo Preston & Child, nel post citato poco sopra.
Uno dei casi per me più singolari fu quello del romanzo di Ellis Weiner "Drop Dead My Lovely" (di cui tengo a precisare che non sono stato io a scegliere il titolo italiano, che fu invece deciso da una redattrice da cui mi dissocio completamente: "La strana storia del libraio cui cadde una pila di libri in testa"), Il protagonista - il libraio, appunto - si risveglia in ospedale credendo di essere un detective da vecchio romanzo hardboiled; dopodiché racconta una vicenda noir-umoristica in prima persona, nello slang americano dell'epoca della narrativa pulp, i cui termini spesso non hanno alcun equivalente nella nostra lingua. Occorreva tradurre non tanto le singole parole, quanto un intero modo di esprimersi. Per "interpretarlo" in italiano mi sono riascoltato le canzoni di Fred Buscaglione fino ad arrivare a pensare in quel linguaggio... tanto che poi ho scritto la quarta di copertina nello stesso stile. Metodo Stanislawskij, appunto. Il difficile, poi, è stato tornare a parlare in modo normale.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi in una foto di Alberto Aliverti)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

lunes, 12 de diciembre de 2022

Catarsi in volume e ebook!


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viernes, 9 de diciembre de 2022

Vita da pulp - Che Cappi regali?


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di
 Andrea Carlo Cappi 

Questa volta le riflessioni sono prenatalizie. No, non temete, non intendo trattare il significato profondo del Natale, solo il lato biecamente commerciale della ricorrenza e una sua conseguenza inaspettata.
Come amo ricordare, chi scrive non vive d'aria e ha bisogno di vendere le sue opere. Se il pagamento è in royalties, più copie vende più può sperare in un compenso adeguato alle sue fatiche; se invece il pagamento è a forfait, con buone vendite c'è la possibilità di scrivere ancora per lo stesso editore. Be', non è detto: di recente ho visto un editore rifiutare il seguito di un bestseller, che per fortuna è stato subito acquisito da un concorrente e venduto come previsto in migliaia di copie.
In ogni caso, per continuare a scrivere, occorre vendere. E per vendere bisogna fare promozione, soprattutto nel periodo natalizio, nell'eventualità che qualcuno decida che regalare libri è più sano ed economico.

Sotto Natale, tuttavia, si deve battere la concorrenza del thriller-rivelazione dell'anno e del libro abbinato al fenomeno mediatico del momento. Se quest'ultimo è un personaggio antipatico a molti, scatta un metodo alternativo di campagna promozionale, che funziona così: sui social newtwork appare un post con la copertina del libro, in cui si dice che è una vergogna che sia stato pubblicato; dopodiché migliaia di persone si uniscono allo sdegno, diventando loro stesse inconsapevoli veicoli pubblicitari gratuiti. La copertina del libro compare dappertutto per giorni e diventa impossibile ignorarne l'esistenza. Dal momento che questo - a differenza di molti altri - ha già riempito tutte le librerie, molti lo compreranno anche solo per vedere che c'è scritto.
Come ho già spiegato tempo fa, ci sono modi ben più efficaci per impedire che un libro venda: l'invisibilità e il silenzio. Il primo è facilissimo: in mezzo a centinaia di migliaia di titoli, chi si accorge di un libro in più o in meno? Il secondo è ancora più semplice. Basta non parlarne. Di tanto in tanto l'omertà si spezza, ma solo ogni tanto, quindi non occorrono sforzi perché il pubblico si dimentichi di qualcuno o lo ignori - letteralmente - fino alla morte, con situazioni tragiche come quella che ho raccontato lo scorso anno.
L'unico modo per far conoscere l'esistenza del proprio libro è ormai l'autopromozione attraverso i social network, il che comporta cercare di essere visibili - possibilmente in modo elegante - in un mercato in cui i lettori sono in continua diminuzione.

Ed è quello che cerco di fare in questo periodo - hashtag #checappiregali - accorgendomi però solo ora di un dettaglio: quando nelle mie biografie compare la scritta "autore di una sessantina di titoli", nemmeno io mi rendo più conto di cosa significhi. Questo perché certi esistono solo in ebook, altri sono fuori commercio da anni e di quelli sul mercato si parla il meno possibile.
Ma in questi ultimi tempi tornano disponibili miei vecchi libri scomparsi, come i primi volumi di Nightshade e Medina (e stiamo parlando di bestseller che hanno venduto anche fino a 100.000 copie); sono reperibili i miei titoli di Diabolik & Eva Kant (dai romanzi originali alle novelization dei film); escono raccolte di racconti e romanzi brevi (come la nuova antologia Neri amori, a quattro mani con Ermione); e sono ordinabili online anche titoli usciti solo in edicola, come i miei romanzi di Martin Mystère, uno dei quali dopotutto ha vinto il Premio Italia 2018 come miglior romanzo fantasy. E non bisognerebbe scordare le varie antologie di cui sono curatore o semplice ospite con un mio racconto.
A questo punto noto che, anche trascurando i miei titoli disponibili solo in ebook, sono presente in almeno una trentina di volumi cartacei attualmente in commercio... e regalabili per Natale. Ma anche che il silenzio mediatico è così efficace che alla fine pure io mi dimentico di tutto quello che ho fatto in oltre trent'anni di lavoro. Figuriamoci voi.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi in una foto di S. Di Marino, Christmas card by Gehrard from Pixabay)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.

sábado, 3 de diciembre de 2022

Vita da pulp - Il thriller rivelazione


Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi 

Lo ammetto, sono passati quasi quattro mesi dall'ultimo post di questa rubrica, ossia da quando ho finito di scrivere il romanzo "Diabolik-Ginko all'attacco" ora in edicola e prima di altri impegni che non mi hanno lasciato il tempo di fare altro. Ma ogni tanto qualche commento su ciò che passa sulla mia scrivania può essere istruttivo per chi intende avventurarsi nel mondo della scrittura.
Vent'anni fa quasi ogni notte mi toccava leggere il dattiloscritto di un romanzo in lingua straniera da valutare entro il mattino per conto di una casa editrice. Oggi ogni tanto mi viene ancora chiesto di fare una "scheda di lettura", leggendo direttamente i pdf sul computer. Mi è successo lo scorso lunedì, trovandomi davanti il peggior "thriller" del decennio, che spero sia risparmiato al pubblico italiano. Non rivelerò di che libro si tratti, mi limito ai concetti generali.
Dopo un inizio perdonabilmente tirato in lungo, la trama prende slancio e fa sperare bene. Si incontra qualche cliché, che tuttavia non stona. Purtroppo nella seconda metà del libro tutto cambia: lo scioglimento della trama principale è raffazzonato, i déja vu si accavallano e ciò che accade sarebbe perfetto per una parodia di Mel Brooks, ma è disastroso per un romanzo che si prende sul serio.

La storia in breve: in una piccola località di mare un sequestro di persona viene mascherato da morte accidentale; si presume che il cadavere, irreperibile, sia stato trascinato chissà dove dalle correnti. Il caso è chiuso, ma un buon poliziotto del posto non si convince e continua le indagini, pur senza successo. Dopo tre anni una collega di città esperta in "casi freddi", brillante ma tormentata, decide di riaprire l'inchiesta. I due uniscono le forze e, grazie al solito esperto informatico, recuperano un video della notte del fattaccio in cui trovano conferma che si è trattato di un rapimento. Una nuova pista conduce a una figura insospettabile e fin qui va tutto bene...
Ma ecco che di colpo arrivano nuove rivelazioni, tutte nello stesso istante. Perché proprio ora, dopo ben tre anni di indagini? Be', perché bisogna arrivare allo showdown! In combutta con il primo insospettabile ce n'è un altro: un prete cattolico che ha agito in nome della fede e di punto in bianco - pur non essendoci prove a suo carico - fa il pazzo furioso per poi suicidarsi in modo spettacolare. Ma l'esperto informatico preme un paio di tasti (?!?) e ci fa riascoltare l'ultima telefonata del prete, il quale raccomanda al complice di andare nel luogo convenuto; poi spiega qual è il luogo convenuto benché il complice lo sappia già... Ah, è vero, se no come fanno i buoni a scoprire il luogo convenuto? Però la spiegazione è un enigma così arduo da decifrare che io ci ho messo un secondo, i brillanti investigatori un paio di capitoli.
E così tutti i buoni, poliziotti e parenti del rapito, corrono nel luogo convenuto, in cui se io fossi un latitante non mi nasconderei di sicuro, perché significa mettersi in trappola da solo... ma bisogna arrivare allo showdown! Quindi l'insospettabile fa il pazzo furioso, spara contro i buoni, confessa tutto tra una detonazione e l'altra, infine butta in acqua il rapito con una pietra al collo... Ma non poteva sparargli? No, se no come farebbero i nostri eroi a tuffarsi e salvarlo? Alla fine tutto finisce bene... be', il poliziotto buono è morto, pazienza, tanto la poliziotta si è fidanzata con un altro. Ma... aspetta, ecco, ci siamo: proprio ora la protagonista rivive un trauma rimosso... e finalmente riscopre la verità su se stessa!

Nulla delude più di un romanzo che sta andando bene ma crolla miseramente. Cosa sarà successo? Chi ha scritto il libro era in ritardo con la consegna e ha abbozzato in fretta la seconda parte? Oppure tutta la storia era approssimativa e l'editor ha fatto in tempo a sistemarne solo la prima parte, pur lasciandosi dietro qualche svista anche lì? Ma allora... perché pubblicarlo, oltretutto presso una casa editrice fino a ieri di tutto rispetto?
Ogni tanto capita il romanzo mediocre che ingannevoli agenti letterari propongono a editori di mezzo mondo come "il thriller-rivelazione dell'anno". Una volta ne lessi uno in cui una poliziotta a caccia di un serial killer ha una relazione complessa con un collega e va da uno psichiatra perché traumatizzata in passato da un maniaco... Siamo a pagina cinque e si capisce subito che lo psichiatra è sia il maniaco del passato, sia il serial killer di oggi; ma solo dopo quattrocento pagine di banalità lui la lega al lettino e tira fuori dal cassetto il bisturi (tipico strumento dello psichiatra); per fortuna accorre in soccorso il collega con cui la protagonista ha una relazione complessa. Ricordo che un mese dopo una ragazza del mio staff, incaricata di leggere un altro "thriller-rivelazione dell'anno", mi chiamò per accennarmene la trama: "Comincia con una poliziotta che ha una relazione complessa con un collega e va dallo psichiatra perché..."
"Il serial killer è lo psichiatra", la precedetti io.
"Come fai a saperlo?"
Tutto ciò mi risveglia antiche paure: e se capitasse anche a me di scrivere un libro in cui tutto diventa banale e prevedibile, il finale si sfalda, i personaggi diventano incoerenti, lo scioglimento è approssimativo... senza rendermene conto? Per questo mi sforzo sempre di esaminare le mie storie da ogni parte, cercando eventuali falle, passaggi forzati o situazioni poco plausibili, con la stessa severità che applico quando leggo un presunto "thriller-rivelazione dell'anno". Finora, direi, mi è andata bene.

Continua...

(immagine: A. C. Cappi in una foto di Stefano Gerosa, 2013)




Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford.