A. C. Cappi in una foto di Catilina Sherman |
Nota dell'autore: Salve a tutti e benvenuti al racconto del venerdì. Questa settimana recupero il racconto che vinse nel 1997 il concorso Delitto al lago e fu pubblicato in seguito in appendice a un volume di Gialllo & Nero della Hobby & Work, poi nell'antologia Luoghi non comuni e infine nell'antologia horror La sete. Fu il primo del mio ciclo di storie autoconclusive i cui titoli erano mutuati dai Carmina Burana di Carl Orff.
Partecipare a quel concorso comportava qualche problema: i racconti erano anonimi e conoscevo varie persone nella giuria (Tecla Dozio, Carlo Lucarelli, Carlo Oliva...) che già sapevano che avrei partecipato e quindi avrebbero cercato di capire quale fosse il mio, rischiando però di penalizzarlo per non fare favoritismi. Sicché scrissi due racconti: uno perfettamente riconoscibile da tutti come opera mia (che arrivò quarto), e un altro con uno stile "nuovo" rispetto alla mia produzione abituale.
Qualcosa di simile accadde in quello stesso periodo, quando su una rivista stavano per uscire due miei racconti di una pagina, uno tipicamente "mio", l'altro piuttosto diverso. Mi arrivarono le bozze delle due pagine consecutive, in cui ancora non figurava il mio nome. La mia compagna di allora le trovò in giro per casa e lesse i due racconti; poi, quasi in imbarazzo mi disse: "Il tuo racconto è carino, ma quello dell'altro autore è molto più bello."
Buona lettura e buon weekend dal vostro K
OLIM LACUS COLUERAM
Racconto di Andrea Carlo Cappi
La notte è calda e umida. Si sta preparando un temporale. Del resto, le previsioni per il week-end non sono favorevoli, ma non mi importa. Non ho deciso di passare il fine-settimana nella casa al lago per prendere il sole o per fare i bagni; tanto più che mi sono sempre tenuto alla larga da queste acque nerastre in cui le alghe si muovono lentamente, come tentacoli pronti a catturarti e a trascinarti di sotto. Se ho lasciato la città, è piuttosto per stare alla larga dai soliti impegni coi soliti amici, dai soliti "ci vediamo alle sette e mezza per l'aperitivo". Fanculo. Ne ho già abbastanza durante le settimana, di impegni, per dover rispettare orari e appuntamenti anche al sabato e alla domenica.
Così ho preso l'Audi e sono venuto su al lago, fermandomi a mangiare un panino in un posto di cui neanche ho memorizzato il nome, tanto per dare a me stesso una sensazione di smarrimento, di... come dire? Di trovarmi fuori dai soliti posti, dalle solite convenzioni, dall'obbligo quotidiano di sapere sempre quello che hai fatto e quello che stai per fare sennò i colleghi ti fottono e i capi s'incazzano. Fanculo anche a loro. Ho spento il telefonino e penso con malefica soddisfazione alla solita risposta preregistrata della Telecom che si saranno beccate un paio di tipe, cercando di telefonarmi: il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.
Esatto.
Fuori dal mondo, in questa casa in cui vengo troppo di rado, malgrado sia quella in cui trascorrevo le vacanze estive coi nonni, quando ero piccolo.
Ora è mia.
La mia casa sul lago.
All'esterno fa caldo, ma dentro si sta meglio. Le pareti hanno trattenuto il fresco dell'ultima volta che sono stato qui, a Pasqua, mi pare. O era il 25 aprile? C'era il sole, quello sì, mentre l'estate di quest'anno sembra promettere solo acqua.
Guardo dalla portafinestra. Il lago è una liscia distesa nera. Uno specchio di ardesia. Poche luci lontane, sulla riva, si riflettono sulla superficie. E' uno spettacolo molto bello, ma sono stanco e tiro giù la tapparella.
Ho sonno, vado subito a dormire. Fa quasi freddo, a pensarci bene, e io non ho portato neanche il pigiama. Dormo coi boxer, e basta. Potrei aprire le finestre, ma scommetto che là fuori ci sono legioni di zanzare che aspettano soltanto una mia mossa sbagliata. Fanculo anche a loro. Tengo le finestre chiuse, mi ficco sotto la coperta e non sento più freddo.
Mentre mi sto per addormentare ripenso alla tipa che ho visto al bar, mentre stavo mangiando il panino. Capelli neri, abbronzata, vestito scollato che lascia vedere un bel paio di tette compresse dal wonderbra. Niente male. Io ci ho provato, avevo la sensazione che ci sarebbe stata. Ma poi ha detto che aveva la sua macchina, che doveva andare, e tanti saluti.
Mi ha lasciato con la voglia, la stronza.
Mi assopisco.
Un rumore mi sveglia. Finestre chiuse che scricchiolano al vento, tapparelle che sbatacchiano nelle loro guide. Dev'essere il temporale che si avvicina. Se va avanti così, il week-end sarà una vera goduria. Fanculo.
Mi sto riaddormentando quando sento un altro suono, qualcosa di grosso e pesante che cade. Resto come paralizzato, nel silenzio irreale della casa, ad aspettare il prossimo rumore. Che sia entrato qualcuno? Una serie di pensieri comincia a girarmi freneticamente per la testa. Dopotutto è una casa isolata, in cui non viene nessuno per giorni e giorni. Sarebbe il posto ideale come nascondiglio. Per chiunque. Certo, la porta era chiusa e non portava segni di scasso, ma ci vuol poco per entrare: basta sfilare le chiavi dalla borsetta della donna che viene a fare le pulizie e rimettergliele dentro dopo aver preso il calco. Quella è così scema che non si accorgerebbe di niente. Potrebbe riuscirci chiunque.
Il rumore non arriva. In casa non c'è nessuno.
Certo che non c'è nessuno.
Mi accorgo che sono sudato fradicio. Che imbecille. Sarà venuto da fuori, il rumore.
Ma da dove?
Dal terrazzino, dove appoggiati in un angolo ci sono le pagaie della barchetta a remi. Quello è il loro posto, fin dai tempi di mio nonno. Col vento possono essere cadute. Mi pare ovvio.
Devo cercare di addormentarmi. Fuori si sta scatenando un temporale. Tuoni, pioggia scrosciante. Vento.
A pensarci bene, al terrazzino ci si arriva facilmente, arrampicandosi lungo il muretto. Lo facevo sempre quando ero piccolo. Poi basta scavalcare il parapetto. Non è difficile. Per questo ho fatto mettere i fermi alle tapparelle della portafinestra. Quando sono arrivato li ho sganciati per aprire e guardare fuori, poi non li ho rimessi.
Ho capito, mi alzo.
Vado alla portafinestra, la apro, metto i fermi alla tapparella. Fa freddo e mi si gela addosso il sudore, come tanti piccoli ghiaccioli. Vado in bagno, mi lavo e mi asciugo. Ora mi sento meglio. Mi guardo allo specchio. Non sto male, coi boxer: la palestra sta dando i suoi frutti. Vorrei che fosse qui la tipa del bar di prima, le farei vedere io. Ha perso un'occasione. E sì che le ho anche dato un'altra possibilità. Le ho detto dove sto. La strada non è difficile da seguire e la casa si riconosce facilmente: è l'unica. Non si può sbagliare: c'è l'Audi parcheggiata davanti. Ma è tardi e dubito che abbia deciso di raggiungermi per passare la notte con me.
Torno a letto. Fuori sta ancora diluviando e il vento continua a fare baccano con le tapparelle, le finestre, la porta. Cerco di riaddormentarmi e il pensiero torna di nuovo alla tipa. Eppure sembrava proprio che avesse voglia di prenderlo. Molto strano. Si è lasciata abbordare, mi ha fatto credere che ci stava e poi mi ha dato picche. Ma non subito, mi ha fatto parlare. Si è fatta raccontare chi sono, dove sto, cosa faccio. Io forse ho un po' esagerato nel darmi importanza, ma l'immagine dell'uomo coi soldi e il successo funziona sempre, in questi casi. Ha visto il telefonino ultimo modello che sbucava dalla tasca. Ha visto l'Audi parcheggiata fuori. Si sarà convinta che sono ricco.
Oh, cazzo.
Ma quella mi ha fatto parlare apposta. Mi ha fatto dire dov'è la mia casa sul lago e io le ho detto che è grande, isolata. Penserà chissà cosa: che c'è una cassaforte, che ci sono dei Picasso alle pareti. Quella è andata a raccontare tutto a qualche suo amico che adesso verrà qui per svaligiarmi la casa. Lo so come vanno queste cose: a quella gente non importa se devono ammazzare qualcuno.
Ma io l'ho chiusa bene la porta?
Ho capito, mi alzo.
Vado alla porta, controllo di averla chiusa con tutte le quattro mandate, vedo che ho messo anche il catenaccio. È una porta blindata, cazzo, mica la possono sbattere giù. Fanculo anche ai ladri. Torno a letto e ripenso a quella parola: "fanculo". Ho letto l'altro giorno un articolo su La Repubblica: un noto scrittore che diceva che "fanculo" in italiano non esiste, è una parola inventata dai doppiatori per tradurre l'equivalente fuck you nei film americani. Mio nonno non era un doppiatore e non sapeva l'inglese, ma sparava "fanculo" ogni due parole, anche all'epoca in cui nei film americani non si poteva dire niente di più hard di "poffarbacco".
Ha finito di diluviare, ma continua a scendere una debole pioggia. Mi pare di udire il rumore di una macchina in avvicinamento. Sento le ruote che attraversano la zona fangosa del vialetto d'accesso, e poi la ghiaia davanti all'ingresso.
Ho capito, mi alzo.
Vado alla porta e arrivo in tempo per sentire il campanello che, nel silenzio del dopo-temporale, risuona come le campane di Notre-Dame. E sento una voce. La riconosco: è la tipa del bar, che ha seguito fedelmente le istruzioni e ha trovato la mia casa. Sapevo che non mi voleva bidonare, la passera solitaria. Apro la porta e me la ritrovo davanti, con i capelli e i vestiti bagnati dalla pioggia, ancora più sexy di prima.
«Scusa se ci ho messo tanto. Colpa del temporale. Vedo che mi stavi aspettando», dice, chiudendo la porta alle sue spalle. Seguo il suo sguardo fino ai miei boxer. Non ci vuole molto a capire che ne ho già voglia. Chiudo le quattro mandate e non perdo tempo in chiacchiere. Tanto lo so che quello che lei vuole è l'eccitazione dell'avventura con uno sconosciuto. La spingo contro la parete e la bacio, poi mi stacco da lei e comincio ad aprirle il vestito. Le stringo le tette nel wonderbra, intanto che il vestito ricade sul pavimento. Poi le strappo via il reggiseno e la trascino verso la camera da letto. Indossa un paio di slip a perizoma, trasparenti sul davanti. Da troia, ma mi piace. Le passo le dita lungo la sottile striscia di tela e mi accorgo che è già bagnata.
Mi sfilo i boxer e la spingo sul letto, scostando la sottile striscia dello slip per penetrarla. Lei geme di piacere. Scivolo per un bel po' avanti e indietro, in attesa del momento giusto. Passo la lingua sul capezzolo destro, duro come una nocciola, poi chiudo violentemente i denti con uno scatto.
Urla.
Urlano sempre a questo punto, ma tanto nessuno le può sentire. La casa è isolata e lontana dalla strada principale. Questo è il momento che preferisco: quando lei comincia a capire e gli occhi si spalancano dal terrore, ma non riesce a divincolarsi perché le mie mani le stringono i polsi come una morsa. Così resta lì, sotto di me, rendendosi conto che ogni vano tentativo di liberarsi non fa che accrescere il mio piacere.
Fino a quando la mordo di nuovo, con violenza.
A sangue.
Cerco di farla durare. So che poi devo ucciderla, se voglio raggiungere l'orgasmo, ma mi piace sentirla viva sotto di me ancora per un po'. So anche che, come al solito, prima dell'alba, dovrò fare una gitarella in barca in mezzo al lago, per disfarmi del cadavere, e portare la sua macchina lontano da qui, anche a costo di tornare a casa a piedi. In ogni caso, ci penserò più tardi. Ho ancora tutta la notte per divertirmi.
È bello avere una casa al lago.
Dovrei venirci più spesso.
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