Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi
Leggo nel libro "Il fabbricante di storie" di Cecilia Scerbanenco alcuni frammenti dalla rubrica del padre Giorgio su "Grazia" ottant'anni fa. Sul numero datato 8 ottobre 1942, il grande romanziere smonta l'aura di fascino che, almeno secondo alcune sue lettrici, circonda la figura dello scrittore, perché "è un uomo come gli altri. I suoi libri potranno essere eterni, eccezionali, ma egli è un uomo, soltanto un uomo che lavora; lavora con le idee, invece che con la stoffa, ma lavora."
Vero. Oltretutto scrittori come Giorgio Scerbanenco - o come Stefano Di Marino, che per sé usava con umiltà la definizione "narratore" - di lavoro ne hanno fatto moltissimo, anche se non sempre considerato con il dovuto rispetto. Ma stavolta non mi soffermo sull'impegno, l'apprezzamento o la retribuzione della scrittura professionale, bensì sull'immagine che si ha della scrittrice o dello scrittore.
Come reagisce la gente, quando si dice "Io scrivo libri?" Se mi capita di lasciarmelo sfuggire, osservo all'istante sguardi di dubbio e sospetto intorno a me. Forse gli interlocutori mi ritengono un mitomane o un soggetto potenzialmente pericoloso. Per fortuna in Italia più o meno tutti hanno scritto un libro o stanno per farlo, quindi rientro nella media.
Credo che tutto dipenda dagli ambienti in cui ci si muove. Di solito alla domanda su cosa io faccia nella vita rispondo che lavoro nell'editoria, dato che nel settore mi occupo di parecchie cose che non sono necessariamente "scrivere". Per la gente normale è una risposta più accettabile, che non desta particolare allarme anche se non si sa cosa significhi "editoria".
Ma forse esistono contesti in cui bisogna avere scritto almeno un libro (meglio se una trilogia) per non sfigurare in società. Sono libri della cui esistenza non si accorge nessuno, come del resto capita per la maggior parte di ciò che tutti noi pubblichiamo; ma l'importante è che ci si possa presentare come "scrittore" e "scrittrice", ammantandosi di un alone mitologico e raccogliendo occhiate di ammirazione, invidia e desiderio carnale. Sospetto anzi che l'abilità di ammantarsi di un alone mitologico sia più importante della qualità del libro in sé.
In talune località forse avere un libro al proprio attivo qualifica l'autore o l'autrice come notabile del posto e crea la debita soggezione nel volgo, ignaro del fatto che il volume sia pubblicato dalla DeRubo & Saccheggio, famigerata casa editrice a pagamento. Ma, in caso di necessità economiche, l'autore a proprie spese può sempre istituire un corso di scrittura creativa (ammantandosi di un alone mitologico, beninteso).
"E lasciamoci affascinare un po' meno, anche, dall'idea di essere scrittori", continua Scerbanenco nella sua rubrica, rivolta esplicitamente a un pubblico femminile, riferendosi poi alle aspiranti autrici che "scrivono per diventare celebri, per essere ammirate, non perché abbiano qualcosa da dire", ma il discorso valeva anche per gli aspiranti autori. In un'epoca in cui lentamente l'Italia andava verso l'alfabetizzazione di massa, che si sarebbe realizzata forse solo nel dopoguerra, la gente imparava a leggere grazie alla narrativa e ambiva al ruolo sociale di "scrittore" o "scritttrice". Oggi si salta la fase della lettura e si passa direttamente a quella dell'ambizione.
In realtà, per chi fa questo come mestiere, il "successo" consiste in genere nel lavorare sempre di più a compensi sempre inferiori, del resto proporzionali al mercato. Laddove chi aspira a diventare scrittrice o scrittore si immagina subito milioni di copie vendute, fan che implorano autografi, un'enorme e immediata notorietà mediatica, denaro a palate e istantaneo adattamento dell'opera in una serie televisiva. Come se, per riprendere il paragone della sartoria, ci si aspettasse dall'oggi al domani di diventare la/lo stilista numero uno del made in Italy.
In realtà a scrivere dovrebbero essere coloro che sentono la necessità di raccontare storie e condividere emozioni. Spesso sono (siamo) lettrici e lettori che si lasciano contagiare dai mondi incontrati nei libri e vogliono a loro volta crearne di nuovi. Ne vedo parecchie di queste persone, il cui talento andrebbe coltivato con una guida opportuna e un buon editing, ma finisce confuso tra la folla di chi pubblica allo sbando. Perché, come ogni mestiere, anche quello di scrivere comporta fatica, autocritica e continua ricerca del miglioramento. Non basta qualche libro per giustificare il proprio presunto fascino.
Continua...
(immagine: A. C. Cappi)
Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker. È direttore artistico del Premio Torre Crawford. Su Radio Number One tiene la rubrica "La Boutique del Mistero" la domenica pomeriggio alle 16.20.