Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi
Riprendiamo il discorso sull'editing cominciato con L'effetto Samsa e proseguito con La mano del cerusico. Ci sono tre tipi di autrici e autori.
Chi ha bisogno di un editor e se ne rende conto.
Chi ha bisogno di un editor ma si crede infallibile, quindi non vuole che mani impure sfiorino la sua creatura.
E chi il lavoro di editing lo sa fare in proprio, quindi ha solo bisogno di una revisione.
Un esempio. Andrea G. Pinketts è uno scrittore che non ha bisogno di "editing", ma di un'attenta revisione, questo sì, perché scrive a mano al bar, interrotto di continuo da fan, corteggiatrici o gente che gli chiede una prefazione; inoltre usa molti giochi di parole e a volte a chi gli batte i testi o a chi cerca di correggerli in redazione sfugge qualcosa. Un giorno consegna un romanzo al suo editore, che decide (per insondabili ragioni di marketing) che il libro è troppo lungo e ne affida l'editing a un grande scrittore - Alan D. Altieri - con l'ordine di tagliarne centocinquanta pagine.
Chi conosce Pinketts sa che non si può tagliare neanche una riga di ciò che ha scritto, perché ogni frase è la diretta conseguenza dell'altra. Altieri fa il proprio lavoro, consapevole dell'assurdità della situazione. Pinketts (suo amico ed estimatore) rifiuta l'editing e il libro esce così com'è. Quindi anche senza un'opportuna revisione. In effetti, Pinketts rifiuta l'editing a priori, tranne quando la casa editrice asseconda la sua richiesta di affidarlo a me, che aderisco al suo modo di lavorare. Ora che di Pinketts rimangono i libri e i ricordi, sto curando la riedizione delle sue opere applicando il mio solito metodo, anche se quando ho un dubbio non posso più andare a chiedergli precisazioni al bar.
All'inizio della mia carriera, trent'anni fa, commettevo errori e avevo bisogno di editing. Raccolsi consigli, annotai ritocchi, memorizzai osservazioni. E feci bene, perché nel 1994 non solo mi trovai in un ruolo ibrido di revisore-editor per uno speciale de Il Giallo Mondadori ma, dal momento che uno dei racconti era mio, dovetti farlo anche su me stesso. Da allora è una mia pratica abituale per tutto quello che scrivo, e vi assicuro che sono severissimo. Ma, come ho già accennato, una revisione attenta da parte di qualcun altro serve sempre.
Come editor, mi è capitato di trovare minuscole ma imbarazzanti sviste in testi di bravissimi autori (per esempio, una breve frase da cui però si intuisce troppo presto chi sia l'assassino in un giallo). In un'occasione mi è capitato di notare un problema del genere in un romanzo americano che stavo traducendo per un'uscita simultanea e ho fatto in tempo a far correggere l'errore anche nell'edizione USA (per essere poi ringraziato nel libro successivo). Però in questo caso una tirata d'orecchi all'editor dell'edizione originale andrebbe fatta.
In ogni caso, l'editor non è onnipotente e non potrà mai trasformare in un capolavoro qualcosa di illeggibile in partenza.
Che ci sia o non ci sia un editor sul vostro cammino, imparare un uso equilibrato dell'autocritica è essenziale. All'inizio, ogni volta che finivo un racconto o un romanzo, temevo di avere scritto una boiata. Non amavo incondizionatamente la mia creatura. Cambiavo idea solo quando avevo un riscontro positivo dal pubblico. A lungo andare ho imparato che il mio modo di lavorare - mettendomi il più possibile nei panni dei lettori, chiedendomi se al loro posto sarei davvero soddisfatto - è una buona garanzia.
Certo, non si può piacere a tutti. Se scrivo un tie-in su un personaggio famoso, qualche fan potrà trovarlo non corrispondente alla propria visione. Se mi avventuro su un territorio nuovo, chi è abituato alla mia produzione abituale potrà restare perplesso nel vedere un risultato diverso dal solito. C'è poi chi ti stronca senza leggerti solo perché ha pregiudizi sulla collana che ti pubblica o il genere che frequenti.
Ma, se da una parte non bisogna essere così severi da cestinare tutto ciò che si scrive - come il protagonista di Rifkin's Festival di Woody Allen - dall'altra non bisogna convincersi che qualsiasi cosa si scriva sia automaticamente perfetta. Solo perché si è riusciti a pubblicare qualche racconto o un romanzo, non è il caso di diffondere nel mondo una genia di sventurati Gregor Samsa che credono di essere Brad Pitt.
Continua...
Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker
Immagine: A. C. Cappi in una foto di Clara Stella