lunes, 29 de octubre de 2018

Wine&Words con Cronaca Vera



L'appuntamento a Marina di Andora (Savona) di sabato 3 novembre alle 18.30. Tutte le informazioni qui.

Elisabetta Viviani, artista polivalente

Elisabetta Viviani in una fotografia di Fabio Viganò

Intervista di Fabio Viganò


Abbiamo incontrato Elisabetta Viviani nella sua Milano, che tanto ama e dove vive. Abbiamo colto l’occasione per intervistarla.
Sappiamo dei suoi trascorsi artistici come attrice: teatro, varietà televisivi, cinema. Qual è il ricordo di quegli anni passati a interpretare i ruoli più disparati?

Un ricordo bellissimo, perché quando lavoravo in televisione, specialmente in RAI, era un paradiso per me. Mi sentivo a casa. La RAI per me era proprio come una seconda mamma. Mi accoglievano tutti bene. Potevo fare quello che mi piaceva: recitare, cantare, eccetera. E poi interpretavo quei ruoli... è stata sempre la mia passione fare televisione e cinema.

Dal "Radiocorriere"

Ha cantato al Festival di Sanremo, nell’anno in cui si esibirono anche Vasco Rossi e Zucchero “Sugar” Fornaciari. 

Nel festival cui ho partecipato io non c'erano solo Zucchero e Vasco ma anche Fiordaliso, ha debuttato Michele Zarrillo. E c'erano tanti altri personaggi: anche Mal, che aveva vissuto un periodo più occultato ed è tornato al successo. 

Sanremo è ancora da considerarsi un trampolino di lancio per i nuovi talenti?

Penso di sì, per molti ragazzi. Pensiamo a Elisa, qualche anno fa, una grande artista. La Pausini... ne sono usciti tantissimi. Forse oggi un po' meno, perché non c'è più solo la RAI, ci sono tanti canali, ci sono molti talent show e Sanremo non è più l'unico trampolino di lancio, ma è sempre una vetrina molto forte.


A un certo punto della sua carriera, però, s’imbatte in Heidi. Il disco vende tantissimo ma… cosa accade a Elisabetta Viviani?

Accade che improvvisamente non faccio più le cose che mi piaceva fare in televisione. Faccio solo la cantante di Heidi. Per un periodo questo mi ha penalizzato moltissimo. Però diciamo che Heidi poi si è fatta perdonare, perché negli anni è diventata un cult, che mi porta comunque a essere ancora sulla cresta dell'onda.



Soltanto oggi, alla mostra  dal titolo Emozioni pittoriche presso il Centro Culturale San Protaso a Milano,scopro che Lei dipinge. E’ un’ottima pittrice. I suoi quadri, realisti, dalla cromia vivace, dal tratto gioioso, inducono a pensare al desiderio di una dimensione più consona per la Milano in cui vive. Si direbbe la speranza torni a essere una città a misura d’uomo. Mi sbaglio?

Una volta un critico ha fatto un'osservazione molto bella su una mia mostra su Milano: ha detto che la vedo come una città luminosa, colorata, piena di gioia e di vita. E' vero, io la vedo così. C'è chi la vede invece grigia, nebbiosa, triste, con la gente che corre. Io, dal mio punto di vista, la vedo così.


Sappiamo anche che è uscito un suo nuovo cd.

E' tutto merito di Claudio Damiani, il mio produttore. Siamo amici da più di venticinque anni e lavoriamo insieme da tantissimo tempo.

Non posso che ringraziarla, sia per l’ospitalità che per la disponibilità a nome di tutti i lettori del Rifugio. Lei è davvero un’artista polivalente!


sábado, 27 de octubre de 2018

Il morto (una storia vera di Fabio Viganò)

Tempus fugit, composizione di Giaco (2018), fotografia di A. C. Cappi

Premessa di Andrea Carlo Cappi: in aggiunta ai riconoscimenti che ha mietuto in questi ultimi mesi, Fabio Viganò riscuote a breve, in occasione del Premio Internazionale Agenda dei Poeti, una nuova menzione d'onore per il suo libro di poesie Rime perse (Otma2), un quarto posto per la poesia dialettale, un ruolo di finalista per la poesia a tema libero e - proprio grazie al racconto che segue - un'ulteriore menzione d'onore per la narrativa inedita!


IL MORTO
Racconto di Fabio Viganò (una storia vera)


Se c’è una certezza nella vita, questa è la morte. A tutti è data tale indiscutibile, ineluttabile, inevitabile fine. Il ricordo, a differenza della morte è ben altra cosa!
Mi occorreva solo un certificato per la famiglia. Dopo l’incidente, col braccio al collo, mi avviai mesto e ciondolante verso il Municipio, immerso nei miei pensieri. Destinazione: Ufficio Anagrafe.
All’ingresso del piazzale antistante il Comune incontrai i Vigili Urbani. Il comandante, appena mi scorse, domandò: "Ma non eri morto?"
Sbalordito - e ignaro di ciò che mi stesse per accadere da lì a poco - risposi ad alta voce, sorridendo: "Ma no!"
"Nemmeno in coma?" ribatté l’altro vigile.
Lo guardai con commiserazione. Scossi la testa esclamando: "Ecco l’effetto che fa bere di primo mattino!"
Risentiti, mi ripresero facendomi notare i gradi esottolineando persino il fatto di essere pubblici ufficiali.
Borbottai qualcosa simile a delle scuse, per niente sentite, e mi imbucai in Anagrafe.
La segretaria mi porse il certificato. Mi guardò fisso negli occhi.
L’anticipai dicendo: "Non è giornata! Ho appena incontrato i vigili. Fanno scherzi da prete!"
Mi rispose il silenzio.
Strano! Qualcosa mi parve di aver intuito, a buona ragione. Non sapevo ancora cosa fosse… ma nei suoi occhi avevo intravisto uno strano bagliore, come una sorta di lama di luce. Aveva la pupilla dilatata, felice, quasi da risata. Di sicuro sembrava divertita. Almeno così mi sembrò. Fu un attimo. Poi ritornò a essere la seria segretaria dell’Ufficio Anagrafe comunale che conoscevo da una vita.
Pagai le cinquecento lire e mi avviai verso casa, per nulla convinto dell’accaduto.
"Stammi bene…" fu il commiato della segretaria.
Mi voltai di scatto.La vidi! Stava palesemente sorridendo, anche se di nascosto. Il motivo? Oscuro. Non capivo il perché. Sapevo soltanto che era giunto il momento di porre un argine a tutte quelle stranezze.
Ancora non potevo sapere, dato che non conoscevo. Ma si sa: nemmeno la notte può immaginare ciò che possa accadere al mattino.
Sempre con il braccio al collo, esito dell’incidente in motocicletta, uscii dal Comune.

Era trascorso del tempo. Il sinistro - non a caso vien detto così - era stato tremendo. Una fatalità. Mi ero recato a salutare una suora, la mia insegnante delle elementari. C’erano le prove del Gran Premio D’Italia di Formula Uno, a Monza. Essendo brianzolo e del luogo, conoscevo le strade meglio delle mie tasche. Ero arrivato a destinazione smanettando il più velocemente possibile, percorrendo tutte le viuzze secondarie e alternative a viale Regina Margherita, a bordo della mia Vespa PK50, in modo da evitare il traffico. I pochi soldi che mi giravano in tasca li avevo spesi per Lei. Avevo comprato dei fiori!
La monaca si era fatta attendere in portineria. Sulle prime aveva sorriso nel vedermi. Un attimo dopo si era rabbuiata in viso. Aveva notato i fiori. Lilium regalis… mi eran costati una cifra! "Non posso accettarli. Dovresti saperlo! Comunque, grazie. Li offriremo alla Madonna", era stata la sua reazione, dopo due lustri che non mi vedeva.
Ricordo le sue parole una volta in Chiesa. "Diciamo una Ave Maria perché non ti accada nulla in moto durante il ritorno a casa."
Tra me e me pensai: I fiori…alla Madonna e ora la preghiera. E’ peggio del gatto nero!
Quindi, terminato di pregare, ero partito in vespa alla volta del paese. Non ci ero arrivato subito. Ero finito dritto in Pronto Soccorso dell’Ospedale San Gerardo di Monza, codice rosso, con una frattura all’omero destro e un trauma cranico. Una signora di Roma, ferma allo stop, non mi aveva visto e prontamente aveva accelerato. Nonostante gli occhiali e le lenti spesse un dito, non aveva sbagliato il bersaglio. Centro! Colpito e …fratturato. Mi aveva fatto volare per venti metri, nel blu dipinto di blu, mentre sull’autodromo, a mia insaputa, Senna e Prost duellavano contro il tempo. Il mio volo era durato poco, attratto verso il suolo dalla forza di gravità. Atterraggio sull’asfalto, cruentissimo! Il primo che mi era apparso, appena rinvenuto, era stato un prete. Credevo d’esser passato a miglior vita.
Una volta in Pronto Soccorso, la prassi era stata la solita: dimesso dopo gli accertamenti e le cure del caso. Non sapevo, nemmeno immaginavo, cosa si fosse scatenato in quelle due orette. Due orette infime, subdole, a dir poco maledette!
A dir la verità, qualcosa mi aveva insospettito sin da subito.A casa arrivavano decine e decine di telefonate. Mia madre mi aveva vietato di rispondere. "E’ il lavoro, Fabio… Vai via!” Nella sua decisione pareva un corazziere. Scendevo le scale e andavo a studiare in lavanderia.
Questi i fatti, prima di aver incontrato i vigili.

Tornato a casa - erano passati circa una decina di giorni dall’incidente - raccontai l’aneddoto a mia madre che, seria in volto, sentenziò il suo ricatto. "Se stai calmo, ti racconto tutto!"
Stavo per iniziare, mio malgrado, un triste e incredibile cammino nel delirio. Mettetevi nei miei panni: non so niente, mi si chiede se sia morto - semmai in coma - e ora mi si invita alla calma.
Perché dovrei agitarmi?

"Fabio, ricordi l’incidente?" chiese mia madre con tono mesto.
Risposi di sì, anche perché - incredibile - ma c’ero!
Lei continuò nel racconto. Dopo poche parole capii come mai Dante avesse scritto all’ingresso dell’Inferno Lasciate ogni speranza o Voi che entrate!
Ci stavo entrando.
“Vedi,  figliolo… quel giorno, due furono gli incidenti a Monza. Uno mortale, l’altro con un ferito. La Polizia invertì i nomi. Tu fosti dichiarato morto. Il morto divenne il ferito. Quindi comunicarono al Comune il tuo decesso!”
Stavo precipitando nell’assurdo. Un baratro mi stava inesorabilmente inghiottendo. Era il baratro dell’incredulità. Non stavo facendo quattro passi nel delirio: ero stato sparato nell’orbita dell’assurdità. D’un tratto tutto fu chiaro. Mi tornò alla mente la segretaria dell’Ufficio Anagrafe e quello che avevano detto i Vigili Urbani.
Chiesi soltanto: "Scherzi?".
Lei non rispose e continuò nella narrazione. "Fabio, il messo comunale è venuto fino a casa. Poi, non essendoci i paramenti, si è insospettito. Ha pensato fosse strano che la casa non fosse bardata a lutto e…”
La interruppi con un: "Eee…? Non c’erano i paramenti?Strano non si sia stupito della mancanza dell’annucio funebre! Ma voi scherzate… Ditemi che state scherzando!"
Mia madre aggiunse che a quel punto il messo comunale, amico di famiglia, per comunicare il mio decesso si era recato da mio padre in laboratorio,sperando di trovarlo…
Era troppo! Mi scappò un: "Ma noooo, così gli ha fatto venire un infarto! L’ha trovato?"
La risposta di mia madre fu laconica. "No. Ha trovato gli zii, che alla notizia hanno pianto per la tua dipartita. Morire a ventisei anni… è prematuro! Pensa: lo zio Ambrogio, poveretto, ha persino esclamato: 'Così giovane! Sono sempre i migliori che se ne vanno! Come faccio a dirlo a mio fratello?'"
Mia madre tratteneva il fiato in attesa della mia reazione.
"Mamma, una cosa non mi quadra", incalzai.
"Dimmi figliolo…"
“Mi avete tenuto all’oscuro di tutto?" chiesi con fare interlocutorio.
Non rispose.
Non insistetti. Il fatto era evidente.
Ricordo di aver soggiunto soltanto: "Ma sono vivo o morto?Giusto per saperlo!" La lasciai a bocca aperta. Era una domanda lecita, che a questo punto nasceva spontanea.
"Sei vivo… e non ti hanno cancellato dall’anagrafe”, mi fece notare, sorridente.
"Ah! Bene! Buono a sapersi! E le centinaia di telefonate che arrivarono a casa appena tornati dal Pronto Soccorso cui mi hai vietato di rispondere?" domandai incuriosito.
"Condoglianze! Erano condoglianze. Tutte condoglianze... Condoglianze persino dal Cile. Sai… i parenti.”
Il mondo, non solo l’Italia, mi aveva creduto morto.
Mi aveva spacciato per morto.
Per lo Stato ero morto.
Lo scoprivo solo ora. Il morto lo scopriva solo adesso! E dire che ero il morto!
Sospirai profondamente.Quindi rivolto a mia madre conclusi: "E’ uno schifo! Pensa a quella povera donna, ora vedova, madre di due figli. E’ andata in ospedale per accompagnare a casa il marito e si è vista condurre in obitorio. Non mi dovrei adirare? Volete un santo, non un uomo! Si,lo so, calma. Ti ho dato la mia parola. Lo so di aver giurato…"
In definitiva, però, avevo giurato di non arrabbiarmi.
Non avevo giurato di non indignarmi!

Monsieur Le Pop presenta: Wine & Words con Cronaca Vera



Primo appuntamento: sabato 3 novembre dalle 18.30, Momart Guest House, via Trieste 14, Andora (Savona), ingresso gratuito; aperitivo Wine & Words con Giuseppe Biselli, direttore del settimanale Cronaca Vera. Conduce Andrea Carlo Cappi. Degustazione di vini a cura della FISAR.


Sabato 3 novembre 2018 ad Andora (Savona) si inaugura un nuovo ciclo di eventi sul tema della cultura popolare. A idearlo è stato il romanziere Andrea Carlo Cappi, a trovargli un nome azzeccato - e non poteva essere altrimenti - il suo illustre collega Andrea G. Pinketts. Gli incontri saranno organizzati e ospitati da Momart Guest House e da Hotel Galleano, e realizzati in collaborazione con la prestigiosa associazione di sommelier FISAR e la galleria d'arte La Spirale di Milano. Si tratterà infatti della cultura popolare in tutte le sue forme: dal giornalismo alla narrativa, dal fumetto alla televisione e al cinema, dall'arte al vino. Sopratutto, di chi ha saputo comunicare con la gente, senza limitare la cultura a un livello elitario. Il primo appuntamento è con il settimanale di attualità "popolare" per eccellenza: Cronaca Vera, in edicola da mezzo secolo.



Ottobre 1969: arriva nelle edicole italiane una rivista popolare e rivoluzionaria. Si chiama Cronaca vera ed è diretta da Antonio Perria, cronista, saggista e romanziere. La prima copertina è dedicata alla ripresa di una vicenda celebre della cronaca nera italiana, il caso Fenaroli-Ghiani.


Titoli a sensazione, carta economica, stampa in bianco e nero, rubriche di divulgazione, un occhio attento alla cronaca nera e, spesso, copertine sexy con modelle semisvestite che turbano l'Italia ancora democristiana e perbenista ma fanno oltrepassare il mezzo milione di lettori a settimana. Cronaca Vera è un settimanale indipendente e quindi, spesso, controcorrente, come dimostra la sua obiettività nei confronti di Pietro Valpreda, innocente ma all'epoca additato da tutti i media quale responsabile della strage di Piazza Fontana.


Novembre 2018: Cronaca Vera è entrata nel cinquantesimo anno di attività ininterrotta. Sotto la direzione di Giuseppe Biselli, è passata a immagini a colori e a copertine più aderenti al contenuto, mantenendo il taglio di giornalismo popolare – anche investigativo e sempre indipendente – e dando spazio inoltre a narrativa e cultura. Dalla scorsa estate sulla rivista cinquanta scrittori si susseguono a raccontare l'importanza di Cronaca vera nel giornalismo e nel costume italiani.


Il direttore Giuseppe Biselli parlerà della storia e dei traguardi del settimanale sabato 3 novembre alle 18.30, in un appuntamento con degustazione di vini a cura della FISAR, presso Momart, via Trieste 14. Sarà il primo incontro di Monsieur Le Pop, che si appresta a diventare un appuntamento fisso ad Andora, tra il Momart Guest House e l'Hotel Galleano. Sabato primo dicembre sarà la volta di un incontro con il regista e scrittore Aldo Lado, maestro del cinema italiano degli anni Settanta. A condurre i primi due incontri sarà Andrea Carlo Cappi (qui sotto, in una foto di Alberto Aliverti).




viernes, 26 de octubre de 2018

Cacciatore di canzoni (racconto del venerdì)

A. C. Cappi in una foto di Stefano Di Marino

Nota dell'autore: Salve a tutti e benvenuti al racconto del venerdì. Sto finendo di scrivere un racconto della mia serie dedicata al Cacciatore di Libri che uscirà prossimamente e mi sono reso conto che sono passati ben dieci anni dall'ultima volta che ho raccontato una storia di quel personaggio. Per la precisione da quando scrissi il racconto che segue, per l'antologia di Todaro Editore Delitti & Canzoni, a cura di Fabrizio Canciani (prematuralmente scomparso) e Stefano Covri. Se è vero che negli anni 2000 aveva abbandonato il suo lavoro di Cacciatore di Libri per l'attività poco più sicura di consulente editoriale, è anche vero che gli ultimi due racconti aprivano nuovi potenziali sviluppi per la serie. Prima o poi dovrò tornarci. Intanto qui facciamo un balzo indietro all'estate del 2008, quando ancora il social network di maggior successo era MySpace, con tutte le caratteristiche dei suoi profili. Buona lettura e buon weekend dal vostro K

CACCIATORE DI CANZONI
Racconto di Andrea Carlo Cappi

L'ultima canzone che avevo sentito in lontananza quella notte d'estate, quando mi ero addormentato, era la stessa che udii al momento di riprendere conoscenza la mattina dopo. Ebbi vagamente la sensazione che il disco, al piano di sotto, si fosse incantato e stesse ripetendo lo stesso ritornello da ore. Ma non avevo tempo di preoccuparmene: quel giorno avevo parecchio da fare e uscii di corsa. Rientrai dopo le sei, quando la portineria era già chiusa. Alle sei e trenta qualcuno parve voler buttare giù la mia porta a forza di bussare. “Polizia!” gridava.
Ero sicuro di non aver fatto niente di male. O niente di peggio del solito. Quando aprii la porta, mi trovai davanti un individuo che sembrava un boy scout vittima di un incantesimo: camicia sahariana, pantaloncini corti della stessa sfumatura, altezza media, fisico grassoccio, occhiali e folti capelli ricci. Il viso paffuto e giovanile, su un corpo che doveva avere almeno quarant'anni e un tasso di colesterolo persino superiore al mio, creava l'effetto di un bambino da cartone animato improvvisamente ingigantito da un colpo di bacchetta magica.
Ispettore Biondi”, si presentò. “Perché il suo campanello non funziona?”
Non ha mai funzionato. Mi piace mantenere vive le tradizioni.”
Perché non c'è il suo nome sulla porta?”
Le consegne le fanno in portineria. E chi mi conosce sa dove trovarmi.”
Perché non mi fa entrare?”
Mi venivano in mente parecchie risposte, ma nessuna che sarebbe stata gradita a un poliziotto. Lo feci entrare. Biondi si muoveva come se fosse già stato in casa mia, conosceva la disposizione delle stanze. In realtà, mi spiegò, aveva passato l'intera giornata in un appartamento identico, quello del piano di sotto, dove la notte precedente era stato commesso un delitto. Il mio vicino Martino Cornati era stato assassinato, colpito alla testa con un grosso posacenere.
Mio Dio. A che ora?” domandai.
Tra le dieci e mezzanotte. Perché me lo chiede?”
Perché... perché...
Stanotte ho avuto la sensazione che al piano di sotto si fosse incantato un disco”, risposi. “Si sentiva di continuo lo stesso ritornello. Cornati è un collezionista di dischi in vinile. Non credo che ne lascerebbe uno a girare a vuoto per tutta la notte senza togliere la puntina. A meno che non gli sia successo qualcosa.”
Lo conosceva bene?” Mi suonava strano l'uso del passato nei confronti del mio vicino del piano di sotto. Maledizione, mi era pure simpatico.
Non molto. Due chiacchiere in ascensore ogni tanto. Una volta mi ha visto con indosso la maglietta di un concerto di Bruce Springsteen e mi ha raccontato della sua collezione. Era tutta la sua vita. Per il resto era un solitario, non vedeva molta gente e le uniche ragazze che frequentava erano conoscenze occasionali su MySpace.”
Su cosa?” fece Biondi.
Internet. Si apre una pagina e si fa amicizia con le pagine degli altri.”
Ieri sera c'era una donna con lui, c'erano tracce di rossetto su un bicchiere. Ma nessuno l'ha vita entrare o uscire. Ha idea di chi potesse essere?”
No, ma forse possiamo scoprirlo. Venga.” Lo portai nel mio studio. “Non faccia caso al disordine”, gli dissi, scavalcando una pila di Diabolik sul pavimento. La mia casa sembra sempre in preda a un interminabile trasloco.
Cornati era più ordinato”, commentò il poliziotto, scuotendo il capo.
Accesi il computer, mi collegai a Internet e cercai il profilo di “Marty, the 7th Beatle”, come si faceva chiamare su MySpace. Faceva una strana impressione visitare la pagina web di un morto, rimasta esattamente come lui l'aveva lasciata l'ultima volta che l'aveva aggiornata.
Intanto l'ispettore guardava con sospetto la mia collezione di action figures, che comprendeva personaggi come Elvis Presley e il Dottor Octopus.
Nel giro di qualche secondo si caricò il brano musicale che Cornati aveva scelto come propria colonna sonora: Nowhere Man. “I Beatles erano i suoi preferiti”, dissi. “Aveva tutto, compresi album e 45 giri incisi dopo lo scioglimento.” Indicai lo schermo: “Ecco, qui si vedono tutti i suoi 'amici' di MySpace. Per la maggior parte sono gruppi musicali emergenti che cercano pubblicità, pagine ufficiali di band e cantanti, e, uhmmm, un altro collezionista di vinili...” Dei trecento e passa amici, le uniche donne erano tre. “Ho idea che, dopo avere passato una serata con lui a sentir parlare di gruppi rock degli anni Sessanta, le ragazze lo cancellassero dalle loro amicizie.” Controllai i commenti più recenti alla pagina di Cornati: si intuivano tentativi di corteggiamento nei confronti delle tre donne: Glenda, Padme e Mary (o almeno così si facevano chiamare su MySpace). “Intanto vediamo le loro pagine”, dissi all'ispettore, che mi guardava come se fossi un alieno.
Aprii la pagina di Glenda e gli spiegai: “In questa sezione si vedono i loro interessi, compresi i gusti musicali e i loro 'eroi'. Si può capire la loro personalità.”
Biondi prese di tasca un block-notes ciancicato e si mise a prendere appunti. Nel giro di mezz'ora ricostruimmo il profilo delle ragazze, tutte e tre di Milano.
Glenda, trent'anni, un tipo dark. Canzone preferita: Where the Wild Roses Grow di Nick Cave e Kylie Minogue, Interessi: letteratura e cinema horror, musicalmente piuttosto raffinata. Alcool: sì. Fumo: sì. Religione: non precisata. Eroe: H. P. Lovecraft.
Potrebbe essere lei”, commentò Biondi.
Padme, trentadue anni, era un tipo dai gusti rétro, la foto che usava come avatar era virata al seppia e la canzone preferita era Uomo mio bambino mio cantata da Ornella Vanoni. Interessi: fantascienza. Alcool: sì. Fumo: no. Religione: buddista. Eroe: il Dalai Lama.
La scelta della Vanoni doveva aver fatto scattare qualcosa nel cuore del poliziotto, che fu immediatamente propenso a escludere Padme dalla lista degli indiziati.
Mary, ventitré anni, era la più colta delle tre. Tra gli autori preferiti indicava Alessandro Manzoni. Come brano musicale aveva Gesù mia gioia eseguito all'organo da Virgil Fox (e non sembrava conoscere nessun musicista posteriore al XIX secolo.) Interessi: la chiesa cattolica (sic). Alcool: no. Fumo: no. Religione: cattolica (repetita juvant). Eroe: papa Benedetto XVI, e padre Amorth, esorcista.
Questa non può essere stata”, fu l'opinione di Biondi. “È una specie di santa.”
Ha detto che c'era un bicchiere macchiato di rossetto. Che cosa conteneva?”
Vino bianco. Vede: non può essere stata lei: c'è scritto che non beve.”
O almeno non beveva fino a ieri sera. Piuttosto, guardi i titoli del suo blog: cita un discorso di Papa Woytila sulla presenza del maligno, parla di esorcismo, di demoni e del numero della Bestia.”
666”, disse l'ispettore Biondi, e indicò la mia collezione di Dylan Dog. “Quelli li ho letti anch'io.”
Provi a immaginare: una ragazza cattolica, fermamente convinta dell'esistenza del diavolo, si lascia invitare a casa di un nerd conosciuto su MySpace, che probabilmente ritiene innocuo. Accetta un bicchiere di vino bianco, che le va subito alla testa perché non è abituata a bere. Stanno ascoltando una canzone che la ragazza è troppo giovane per avere già sentito. E improvvisamente, mentre lei è in preda ai fumi dell'alcool... il disco si incanta su quella che lei può scambiare per una frase satanica. Teme una trappola del demonio. Afferra un posacenere, colpisce alla cieca e scappa.”
Una frase satanica?” Qualcuno doveva avere spento il giradischi prima dell'arrivo di Biondi, altrimenti, forse, ci sarebbe arrivato da solo.
La canzone che stavano sentendo era un successo di Paul McCartney e Michael Jackson. Il disco si è incantato sul ritornello e ha ripetuto per tutta la notte Say say say... say say say...
Oh, porca vacca”, disse l'ispettore.
Be', il resto lo avrete letto sui giornali. Maria Assunta Queirolo, “Mary” su MySpace, ha confessato l'omicidio. E adesso vi saluto: ho appuntamento con Glenda. Mi fido dei miei giudizi come... cacciatore di canzoni.

©Andrea Carlo Cappi, 2008

Leggi gli altri racconti






viernes, 19 de octubre de 2018

Olim lacus colueram (racconto del venerdì)

A. C. Cappi in una foto di Catilina Sherman
Nota dell'autore: Salve a tutti e benvenuti al racconto del venerdì. Questa settimana recupero il racconto che vinse nel 1997 il concorso Delitto al lago e fu pubblicato in seguito in appendice a un volume di Gialllo & Nero della Hobby & Work, poi nell'antologia Luoghi non comuni e infine nell'antologia horror La sete. Fu il primo del mio ciclo di storie autoconclusive i cui titoli erano mutuati dai Carmina Burana di Carl Orff.
Partecipare a quel concorso comportava qualche problema: i racconti erano anonimi e conoscevo varie persone nella giuria (Tecla Dozio, Carlo Lucarelli, Carlo Oliva...) che già sapevano che avrei partecipato e quindi avrebbero cercato di capire quale fosse il mio, rischiando però di penalizzarlo per non fare favoritismi. Sicché scrissi due racconti: uno perfettamente riconoscibile da tutti come opera mia (che arrivò quarto), e un altro con uno stile "nuovo" rispetto alla mia produzione abituale.
Qualcosa di simile accadde in quello stesso periodo, quando su una rivista stavano per uscire due miei racconti di una pagina, uno tipicamente "mio", l'altro piuttosto diverso. Mi arrivarono le bozze delle due pagine consecutive, in cui ancora non figurava il mio nome. La mia compagna di allora le trovò in giro per casa e lesse i due racconti; poi, quasi in imbarazzo mi disse: "Il tuo racconto è carino, ma quello dell'altro autore è molto più bello."
Buona lettura e buon weekend dal vostro K

OLIM LACUS COLUERAM
Racconto di Andrea Carlo Cappi

La notte è calda e umida. Si sta preparando un temporale. Del resto, le previsioni per il week-end non sono favorevoli, ma non mi importa. Non ho deciso di passare il fine-settimana nella casa al lago per prendere il sole o per fare i bagni; tanto più che mi sono sempre tenuto alla larga da queste acque nerastre in cui le alghe si muovono lentamente, come tentacoli pronti a catturarti e a trascinarti di sotto. Se ho lasciato la città, è piuttosto per stare alla larga dai soliti impegni coi soliti amici, dai soliti "ci vediamo alle sette e mezza per l'aperitivo". Fanculo. Ne ho già abbastanza durante le settimana, di impegni, per dover rispettare orari e appuntamenti anche al sabato e alla domenica.
Così ho preso l'Audi e sono venuto su al lago, fermandomi a mangiare un panino in un posto di cui neanche ho memorizzato il nome, tanto per dare a me stesso una sensazione di smarrimento, di... come dire? Di trovarmi fuori dai soliti posti, dalle solite convenzioni, dall'obbligo quotidiano di sapere sempre quello che hai fatto e quello che stai per fare sennò i colleghi ti fottono e i capi s'incazzano. Fanculo anche a loro. Ho spento il telefonino e penso con malefica soddisfazione alla solita risposta preregistrata della Telecom che si saranno beccate un paio di tipe, cercando di telefonarmi: il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile.
Esatto.
Fuori dal mondo, in questa casa in cui vengo troppo di rado, malgrado sia quella in cui trascorrevo le vacanze estive coi nonni, quando ero piccolo.
Ora è mia.
La mia casa sul lago.
All'esterno fa caldo, ma dentro si sta meglio. Le pareti hanno trattenuto il fresco dell'ultima volta che sono stato qui, a Pasqua, mi pare. O era il 25 aprile? C'era il sole, quello sì, mentre l'estate di quest'anno sembra promettere solo acqua.
Guardo dalla portafinestra. Il lago è una liscia distesa nera. Uno specchio di ardesia. Poche luci lontane, sulla riva, si riflettono sulla superficie. E' uno spettacolo molto bello, ma sono stanco e tiro giù la tapparella.
Ho sonno, vado subito a dormire. Fa quasi freddo, a pensarci bene, e io non ho portato neanche il pigiama. Dormo coi boxer, e basta. Potrei aprire le finestre, ma scommetto che là fuori ci sono legioni di zanzare che aspettano soltanto una mia mossa sbagliata. Fanculo anche a loro. Tengo le finestre chiuse, mi ficco sotto la coperta e non sento più freddo.
Mentre mi sto per addormentare ripenso alla tipa che ho visto al bar, mentre stavo mangiando il panino. Capelli neri, abbronzata, vestito scollato che lascia vedere un bel paio di tette compresse dal wonderbra. Niente male. Io ci ho provato, avevo la sensazione che ci sarebbe stata. Ma poi ha detto che aveva la sua macchina, che doveva andare, e tanti saluti.
Mi ha lasciato con la voglia, la stronza.
Mi assopisco.
Un rumore mi sveglia. Finestre chiuse che scricchiolano al vento, tapparelle che sbatacchiano nelle loro guide. Dev'essere il temporale che si avvicina. Se va avanti così, il week-end sarà una vera goduria. Fanculo.
Mi sto riaddormentando quando sento un altro suono, qualcosa di grosso e pesante che cade. Resto come paralizzato, nel silenzio irreale della casa, ad aspettare il prossimo rumore. Che sia entrato qualcuno? Una serie di pensieri comincia a girarmi freneticamente per la testa. Dopotutto è una casa isolata, in cui non viene nessuno per giorni e giorni. Sarebbe il posto ideale come nascondiglio. Per chiunque. Certo, la porta era chiusa e non portava segni di scasso, ma ci vuol poco per entrare: basta sfilare le chiavi dalla borsetta della donna che viene a fare le pulizie e rimettergliele dentro dopo aver preso il calco. Quella è così scema che non si accorgerebbe di niente. Potrebbe riuscirci chiunque.
Il rumore non arriva. In casa non c'è nessuno.
Certo che non c'è nessuno.
Mi accorgo che sono sudato fradicio. Che imbecille. Sarà venuto da fuori, il rumore.
Ma da dove?
Dal terrazzino, dove appoggiati in un angolo ci sono le pagaie della barchetta a remi. Quello è il loro posto, fin dai tempi di mio nonno. Col vento possono essere cadute. Mi pare ovvio.
Devo cercare di addormentarmi. Fuori si sta scatenando un temporale. Tuoni, pioggia scrosciante. Vento.
A pensarci bene, al terrazzino ci si arriva facilmente, arrampicandosi lungo il muretto. Lo facevo sempre quando ero piccolo. Poi basta scavalcare il parapetto. Non è difficile. Per questo ho fatto mettere i fermi alle tapparelle della portafinestra. Quando sono arrivato li ho sganciati per aprire e guardare fuori, poi non li ho rimessi.
Ho capito, mi alzo.
Vado alla portafinestra, la apro, metto i fermi alla tapparella. Fa freddo e mi si gela addosso il sudore, come tanti piccoli ghiaccioli. Vado in bagno, mi lavo e mi asciugo. Ora mi sento meglio. Mi guardo allo specchio. Non sto male, coi boxer: la palestra sta dando i suoi frutti. Vorrei che fosse qui la tipa del bar di prima, le farei vedere io. Ha perso un'occasione. E sì che le ho anche dato un'altra possibilità. Le ho detto dove sto. La strada non è difficile da seguire e la casa si riconosce facilmente: è l'unica. Non si può sbagliare: c'è l'Audi parcheggiata davanti. Ma è tardi e dubito che abbia deciso di raggiungermi per passare la notte con me.
Torno a letto. Fuori sta ancora diluviando e il vento continua a fare baccano con le tapparelle, le finestre, la porta. Cerco di riaddormentarmi e il pensiero torna di nuovo alla tipa. Eppure sembrava proprio che avesse voglia di prenderlo. Molto strano. Si è lasciata abbordare, mi ha fatto credere che ci stava e poi mi ha dato picche. Ma non subito, mi ha fatto parlare. Si è fatta raccontare chi sono, dove sto, cosa faccio. Io forse ho un po' esagerato nel darmi importanza, ma l'immagine dell'uomo coi soldi e il successo funziona sempre, in questi casi. Ha visto il telefonino ultimo modello che sbucava dalla tasca. Ha visto l'Audi parcheggiata fuori. Si sarà convinta che sono ricco.
Oh, cazzo.
Ma quella mi ha fatto parlare apposta. Mi ha fatto dire dov'è la mia casa sul lago e io le ho detto che è grande, isolata. Penserà chissà cosa: che c'è una cassaforte, che ci sono dei Picasso alle pareti. Quella è andata a raccontare tutto a qualche suo amico che adesso verrà qui per svaligiarmi la casa. Lo so come vanno queste cose: a quella gente non importa se devono ammazzare qualcuno.
Ma io l'ho chiusa bene la porta?
Ho capito, mi alzo.
Vado alla porta, controllo di averla chiusa con tutte le quattro mandate, vedo che ho messo anche il catenaccio. È una porta blindata, cazzo, mica la possono sbattere giù. Fanculo anche ai ladri. Torno a letto e ripenso a quella parola: "fanculo". Ho letto l'altro giorno un articolo su La Repubblica: un noto scrittore che diceva che "fanculo" in italiano non esiste, è una parola inventata dai doppiatori per tradurre l'equivalente fuck you nei film americani. Mio nonno non era un doppiatore e non sapeva l'inglese, ma sparava "fanculo" ogni due parole, anche all'epoca in cui nei film americani non si poteva dire niente di più hard di "poffarbacco".
Ha finito di diluviare, ma continua a scendere una debole pioggia. Mi pare di udire il rumore di una macchina in avvicinamento. Sento le ruote che attraversano la zona fangosa del vialetto d'accesso, e poi la ghiaia davanti all'ingresso.
Ho capito, mi alzo.
Vado alla porta e arrivo in tempo per sentire il campanello che, nel silenzio del dopo-temporale, risuona come le campane di Notre-Dame. E sento una voce. La riconosco: è la tipa del bar, che ha seguito fedelmente le istruzioni e ha trovato la mia casa. Sapevo che non mi voleva bidonare, la passera solitaria. Apro la porta e me la ritrovo davanti, con i capelli e i vestiti bagnati dalla pioggia, ancora più sexy di prima.
«Scusa se ci ho messo tanto. Colpa del temporale. Vedo che mi stavi aspettando», dice, chiudendo la porta alle sue spalle. Seguo il suo sguardo fino ai miei boxer. Non ci vuole molto a capire che ne ho già voglia. Chiudo le quattro mandate e non perdo tempo in chiacchiere. Tanto lo so che quello che lei vuole è l'eccitazione dell'avventura con uno sconosciuto. La spingo contro la parete e la bacio, poi mi stacco da lei e comincio ad aprirle il vestito. Le stringo le tette nel wonderbra, intanto che il vestito ricade sul pavimento. Poi le strappo via il reggiseno e la trascino verso la camera da letto. Indossa un paio di slip a perizoma, trasparenti sul davanti. Da troia, ma mi piace. Le passo le dita lungo la sottile striscia di tela e mi accorgo che è già bagnata.
Mi sfilo i boxer e la spingo sul letto, scostando la sottile striscia dello slip per penetrarla. Lei geme di piacere. Scivolo per un bel po' avanti e indietro, in attesa del momento giusto. Passo la lingua sul capezzolo destro, duro come una nocciola, poi chiudo violentemente i denti con uno scatto.
Urla.
Urlano sempre a questo punto, ma tanto nessuno le può sentire. La casa è isolata e lontana dalla strada principale. Questo è il momento che preferisco: quando lei comincia a capire e gli occhi si spalancano dal terrore, ma non riesce a divincolarsi perché le mie mani le stringono i polsi come una morsa. Così resta lì, sotto di me, rendendosi conto che ogni vano tentativo di liberarsi non fa che accrescere il mio piacere.
Fino a quando la mordo di nuovo, con violenza.
A sangue.
Cerco di farla durare. So che poi devo ucciderla, se voglio raggiungere l'orgasmo, ma mi piace sentirla viva sotto di me ancora per un po'. So anche che, come al solito, prima dell'alba, dovrò fare una gitarella in barca in mezzo al lago, per disfarmi del cadavere, e portare la sua macchina lontano da qui, anche a costo di tornare a casa a piedi. In ogni caso, ci penserò più tardi. Ho ancora tutta la notte per divertirmi.
È bello avere una casa al lago.
Dovrei venirci più spesso.

©Andrea Carlo Cappi, 1997

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viernes, 12 de octubre de 2018

Anche il sole tramonta (racconto)

Andrea Carlo Cappi, fotografia di Francesco G. Lugli


Nota dell'autore: nell'ottobre del 1993, come racconto in "Vita da pulp" nella puntata "E' solo l'inizio", ebbe inizio la parte pubblica della mia carriera di scrittore, con la pubblicazione su Il Giallo Mondadori del racconto Anche il sole tramonta, scritto nel 1991 per il programma RadioDetective di RadioRAI e riapparso una dozzina di anni dopo in un volume ormai introvabile intitolato La settima nota. Ora lo ritrovate qui. Buona lettura dal vostro K



ANCHE IL SOLE TRAMONTA
Racconto di Andrea Carlo Cappi

Ketchum, Idaho, 2  Luglio 1961

Una notte di veglia può offrire qualche ora in più per scrivere, ma quarant’anni di insonnia lasciano troppo tempo per pensare.
Mia cara Mary, avevo già cercato di spiegarti quello che ho in mente di fare nella mia lettera del ventitré aprile, ma in realtà mi restava ancora una cosa da dirti. Anzi, qualcosa da raccontarti, un incontro con una persona misteriosa conosciuta molto tempo fa.
Non è vero, non posso dire di averla veramente conosciuta. Ho passato troppo poco tempo con lei, ma quello che mi ha insegnato mi è rimasto dentro tutta la vita e mi sta ancora consumando in questo momento, in questa notte.
Devo avere già scritto da qualche parte che per riferire eventi a cui si è partecipato è sufficiente annotare alcuni dettagli che servono a riprodurre la stessa emozione, istantanea e violenta, nel lettore, Ma quest’operazione, troppo rapida, impedisce di penetrare nell’essenza degli avvenimenti. Impedisce di studiarli come ho studiato la morte di mio padre o come quello che sto per raccontarti.
Ecco perché non mi sono mai sentito di scrivere questa storia della Parigi degli anni Venti: sarebbe stato come rivelare una parte di me di cui ho sempre avuto timore.

Il  primo incontro con quella persona ebbe luogo mentre era seduto al tavolino di un caffé, dove una cameriera simpatica e accondiscendente di nome Jacqueline mi aveva appena portato una bottiglia di Côte du Rhône con due bicchieri. Il secondo bicchiere era per un italiano, un sedicente aristocratico che aveva passato l’ultima mezz’ora a raccontarmi una lunga storia su una modella di Picasso: sosteneva di avere trascorso un’appassionante settimana con la ragazza maiorchina che apparìva nel dipinto Gli acrobati. Personalmente ero convinto che non fossero mai esistiti né il suo titolo nobiIiare né la modella maiorchina, ma restavo ad ascoltarlo perché il suo modo di parlare era divertente è perché pagava lui la bottiglia di vino.
All’improvviso comparve un uomo che conoscevo, un giovane catalano grassoccio che era venuto a Parigi per diventare pittore: si  stava guardando intorno preoccupato. Quando ci vide, venne verso di noi. “Hola, Ernest. Buonasera, signor conte.”
Hola, Jaume. Cercavi qualcuno?” gli chiesi.
“È da tre giorni che non trovo più Pepe. Mi aveva detto che sarebbe andato a una festa o qualcosa di simile ma poi non l’ho più visto. Ne sapete niente?”
“Pepe?” ripetei, cercando di ricordare chi potesse essere.
“Dev’essere quel ragazzo che va sempre in giro vestito da gitano”, intervenne il conte. 
“Ah, ho capito, quello con una faccia ossuta da andaluso che quando beve canta il flamenco. No, non lo vedo da parecchio”, risposi allora.
“Nemmeno io”, disse il conte. “ Mi spiace di non poterti essere utile.
“Scusate”, sospirò Jaume, allontanandosi sempre più triste. Vidi che si dirigeva verso il  bancone e che fermava Jacqueline, per ripeterle la stessa domanda, ottenendo un’identica risposta.
“Sembra piuttosto inquieto”, mi sussurrò il conte. “Forse quel Pepe gli deve dei soldi. Guarda come si aggira tormentato.”
“Adesso punta verso quella donna”, dissi in tono distratto perché cercavo di ascoltare cosa dicesse.
“Mi aveva detto che sarebbe andato a una festa”, riuscii a sentire. “Tu vai sempre a tutte le feste, conosci tutti...”
La donna si mostrò completamente disinteressata alle parole del catalano e gli voltò le spalle, sbuffando annoiata nell’aria il fumo di una sigaretta.
Fu quella la prima volta che la vidi in volto e ne restai veramente impressionalo. I suoi occhi erano grandi, scuri come i suoi capelli. Le labbra erano ampiamente dilatate da un colore rosso vivo, in forte contrasto con il viso dalla pelle molto chiara. La figura era perfetta, avvolta in un vestito molto stretto fatto apposta per esaltarla. Nel variopinto campionario etnico che era Parigi in quei giorni, mi domandai in quale categoria potesse essere incasellata. Non mi sembrava francese né inglese. Aveva tratti vagamente meridionali, sarebbe potuta essere spagnola o italiana, ma era decisamente alta, più delle donne latine che conoscevo. Forse era una delle tante americane. Non l’avrei mai chiarito, ma quando Jaume tornò a insistere, convinto che lei potesse aiutarlo a trovare l’amico scomparso, seppi almeno il nome della donna.
“Ti  prego, Silvia, tu devi sapere dov'è finito.”
“Non so  niente, Jaume. Lasciami stare.” A quel punto lei sembrò talmente infastidita dal continuo mendicare dei catalano da andarsene senza salutarlo, lasciando sul tavolino un bicchiere ancora quasi pieno di un imprecisato liquido verdastro.
“O l’ha scambiato  per un corteggiatore insistente o sa veramente dove sia finito il suo amico Pepe”, commentai.
“Può darsi che l’abbia nascosto lei”, insinuò il conte, sogghignando. “Forse è una di quelle donne che impazziscono per i toreri e ha preso Pepe per un novillero. A proposito, ho intenzione di dare una festa alla fine della settimana. A casa mia, con torrenti di champagne che scorrono da una stanza all'altra. Perché non vieni anche tu?”
“Ho molti articoli da finire”, mentii. “E poi Hadley deve occuparsi di nostro figlio.”
“Non ti impongo dì portare tua moglie. Anzi, avevo in mente di invitare anche la bella Silvia”, disse il conte, con un altro dei suoi sorrisi malefici. Doveva essersi accorto  che mi sentivo attratto da quella donna prima ancora che io fossi disposto ad ammetterlo con me stesso.
Forse avrei dovuto accettare il suo invito. O forse è per averlo rifiutato che sono sopravvissuto fino a oggi.



Non tornai più in quel caffè per alcuni giorni. Dopotutto non avevo esagerato, parlando con il conte. Avevo davvero “parecchi articoli da finire”, anche se non da scrivere ma da leggere: gli arretrati della prensa taurina, le riviste spagnole di tauromachia a cui mi ero abbonato. Fu così che l’arte della corrida mi distrasse dagli eventi mondani della città, l’ultimo dei quali riguardava proprio il conte e la sua misteriosa morte.
Ignaro di tutto, quando rimisi piede al caffè salutai Jacqueline, la graziosa cameriera dai corti capelli biondi e dagli occhi azzurri, e le chiesi se avesse visto il mio elegante amico italiano.
“Ma lei… non sa ancora niente?”
“Cosa dovrei sapere?”
“Il conte è morto  ieri notte, dopo la festa” mi spiegò lei, con i suoi occhi chiari spalancati.
“ È morto? E cosa diamine gli è capitato?”
“Si è suicidato. Ieri notte ha dato quella bellissima festa a cui ha invitato anche me…”
“Come cameriera?”
“Non proprio. Abbiamo bevuto tutti tantissimo, c’erano tutti quegli interessanti scrittori americani,  c’era anche quel vostro amico spagnolo…”
“Pepe l’andaluso?”
“No, quell’altro, il pittore. Quello che cercava Pepe.”
“E l’ha trovato?”
“No”, protestò lei, forse un po’ offesa perché non  manifestavo sufficiente rispetto per il racconto che lei mi stava proponendo con tanta serietà.
Decisi di fare l’ascoltatore obbediente, anche perché l’argomento mi incuriosiva e mi preoccupava al tempo stesso. “E poi che cos’è successo?” domandai.
“Il pittore ha ritrovato quella bella signora dell’altro giorno, ma lei non gli ha voluto parlare. Poi non lo so cos’è successo, un po’ perché avevo bevuto molto, un po’ perché poi siamo usciti e siamo andati in giro.”
“E il conte?”
“Lui non è venuto; credo che sia rimasto in casa sua. Non lo abbiamo più visto. E poi questa mattina è arrivata la notizia. Il conte lo ha trovato la vecchia donna delle pulizie che doveva mettere in ordine la casa dopo il putiferio di ieri notte. Lui era in sala da pranzo, seduto a tavola, piegato in avanti con un revolver in mano e un buco nella testa.”
“Che cosa ha detto la donna delle pulizie?”
“Non lo so. Cosa doveva dire? Che si è sparato un colpo di pistola.”
“Sì”, feci io, “ma il conte avrà lasciato un biglietto, se si è suicidato. Oppure se ne è andato così, senza salutare?”
“Nessuno ha trovato biglietti. Ma se si è suicidato avrà avuto :i suoi motivi, non crede? O pensa che ci sia dietro qualcosa?”
“Avrà scoperto improvvisamente di avere finito lo champagne”, scherzai. Ma cercavo di prenderla sul ridere solo perché avevo quasi paura di sapere che cosa avesse trascinato il mio amico conte all’altro mondo. Lui che sembrava tanto allegro, così sicuro di sé da farsi beffe di chiunque gli capitasse a tiro. Forse teneva nascosto a tutti qualche male incurabile. Forse, a forza di offrire vino e champagne ai suoi amici, aveva esaurito le sue finanze e alla fine aveva chiuso i conti.
In quel momento il proprietario del locale lanciò un’occhiataccia nella -direzione della cameriera. Poi allo sguardo fece seguire un deciso: “Jacqueline!”
“Pardon”, disse allora la ragazza. “Meglio se torno a lavorare, sennò si arrabbia davvero. Arrivederci.”
Rimasi da solo al tavolino, perplesso. Non avevo nemmeno ordinato.
“Ernest”, mi chiamò una voce.
Mi voltai: “Ah, sei tu Jaume.” Lo salutavo con il suo nome di battesimo in catalano, ricordando quanto gli spagnoli di quella regione fossero affezionati più alla loro lingua locale che al castigliano. Era un concetto che avevo appreso da poco, ma che mi sarebbe stato- di una certa utilità parecchi anni dopo, durante la guerra civile spagnola.
“Hai saputo del conte?” chiese lui. Ormai l’espressione preoccupata gli si era incrostata irrimediabilmente sul viso.
“Me l’ha appena detto Jacqueline.”
“Non è stato un suicidio”, dichiarò lui.
“Come fai a dirlo?”
“Lo so per certo. Prima che la festa finisse, mentre ce ne stavamo andando, ho visto che entrava in sala da pranzo con quella donna con cui parlavo l’altro giorno.
Capii subito di chi stesse parlando. “Silvia?”
“Proprio lei. Sono entrati in sieme in sala da pranzo e si sono chiusi dentro a chiave. Se uno si chiude in una stanza con una donna come lei, pensi che stia per suicidarsi?”
“Io con lei mi chiuderei in un altro genere di stanza.”
“Ebbene, io sono convinto  che lei lo abbia assassinato”, disse con gravità il catalano. “Forse lui sapeva cos’è successo a Pepe.”
“E cos’é successo a Pepe?”
“Non  lo so ancora. Ma voglio assolutamente trovare quella Silvia. Devo farla parlare, devo tirarle fuori quello che sa.”
Annuii. Anche  a me non sarebbe dispiaciuto trovare quella donna, ma non avrei certo perso tempo a -tentare di farle confessare delitti inesistenti. “Se il conte era davvero solo con lei dentro la stanza, forse voleva semplicemente togliersi un’ultima soddisfazione prima -di andarsene.” Potevo capirlo. Poi di sicuro lei se n’era tornata in albergo o a casa o chissà dove, mentre il conte si toglieva la vita.
Questa era la mia convinzione. Ma in seguito mi sarei reso conto che  la versione dei mio esaltato amico catalano era più aderente alla realtà della mia.




Benché il suicidio del conte avesse destato un certo interesse da parte della polizia e una vaga emozione tra gli intellettuali veri e finti che affollavano la città, l’episodio scomparve dalle conversazioni con una rapidità sorprendente. Erano giorni in cui la vita aveva troppa fretta di continuare per potersi soffermare a contemplare un cadavere. La morte stessa non era che un promemoria che invitava a svuotare più bottiglie, leggere più libri e amare più donne nel minor tempo possibile.
Tutti scordarono in fretta e anch’io, a mia volta, lasciai perdere il conte, Silvia e l’inutile ricerca del catalano. Poi, una sera, fui trascinato in un localino dove un paio di ragazzi venuti da New Orleàns stavano spiegando alla Rive Gauche il significato della definizione “jazz caldo”. Il pubblico stava esagerando con i liquori; ma questo non faceva che adeguare l’atmosfera al ritmo della musica. In mezzo alla frenesia del pianoforte e della tromba, percepii una voce che chiamava il mio nome.
“Monsieur Ernest, monsieur Ernest!” diceva, calcando l’accento sulla seconda e di Ernest.
Quasi  non riconoscevo Jacqueline, la cameriera, senza la sua abituale uniforme, vestita invece con un elegante e malizioso abitino francese. Aveva trucco e rossetto, ma questo, anziché farla apparire più vecchia, sottolineava maggiormente la sua -giovane età.
“Bonsoir”, le dissi. “Cosa ci fai in un  posto come questo?” 
“Mi diverto. Sa che stavo pensando proprio a lei, oggi pomeriggio?”
“Davvero?”
“Oh, sì. A lei e a Jaume,  quel pittore che fa sempre tante domande. Si ricorda? Quello che cerca il suo amico scomparso.”
“Sì. È da una decina di giorni che non lo vedo. Da dopo che è morto il  conte, a pensarci bene.”
“Perché non é più venuto al caffè. Jaume ci passava tutti i giorni e ogni volta mi chiedeva del ‘señor Ernesto’. Io gli dicevo che non l’avevo vista. Alla fine ha cominciato dire: ‘È scomparso  anche lui, come tutti gli altri.’ Sarà stato tre giorni fa. Poi non si è fatto più vedere.”
“Ho il sospetto che quel ragazzo stia diventando un po’ fissato: Non si può immaginare che una persona sia scomparsa solo perché per qualche giorno non la incontri.”
“Il conte è scomparso. E per sempre”, obiettò  lei.
“D’accordo, ma lui non è ‘scomparso’. Si è sparato. Chi conosci che sia veramente scomparso negli ultimi tempi?”
“Pepe, il ragazzo andaluso, per cominciare. E  poi Jaume il pittore: non lo vedo da tre giorni, non è a casa sua e aveva detto che stasera sarebbe venuto qui ma non si è visto.”
“E poi?”
“Mmm... Qualche tempo  fa un tedesco che si chiamava Thomas e che diceva di fare lo scrittore mi ha chiesto se volevo uscire con lui, a condizione che portassi anche mio fratello. Io mi sono rifiutata e lui non si è fatto più vivo.”
“Non credo che possa essere messo nella nostra  lista”, osservai.
Così  andò a finire che passammo buona parte della serata a compilare un elenco di personaggi – pittori, scrittori, musicisti, ricchi viziati e nobili decaduti – che da un po’ non avessimo visto in circolazione. Più di quanti pensassimo. Quindi, curiosando tra la gente che era venuta ad ascoltare il jazz, cercammo di stabilire, quanti di questi fossero ancora a Parigi, quanti risultassero ufficialmente tornati ai loro paesi d’origine o partiti per lunghi viaggi e quanti invece mancassero all’appello senza apparente motivazione. Avevo cominciato questo gioco perché mi divertiva assecondare Jacqueline e guardarla mentre correva da un tavolino all’altro facendo domande su questo e su quello, sventolando il nostro elenco come se fosse la lista dei vini della casa.
Alla fine della serata riferimmo  l’uno all’altra le nostre conclusioni, rendendoci conto di avere messo insieme qualcosa di molto interessante: Molti di quelli che se n’erano andati avevano salutato gli amici prima di partire e avevano spedito lettere o cartoline una volta arrivati. Parecchie persone che speravo fossero scomparse erano ancora circolanti ed erano state avvistate di recente. Ma alcuni uomini del nostro elenco :erano effettivamente scomparsi: non avevano salutato nessuno, non avevano scritto a nessuno e nemmeno erano stati trovati cadaveri come i1 conte. Erano semplicemente spariti. E il peggio era che diverse persone ricordavano di averli visti per 1’ultima volta con una donna somigliante a Silvia. Persino Scott e Zelda mi raccontarono una storia del genere riguardo a un loro amico che non vedevano da svariate settimane.
A questo punto cancellai il mio giudizio affrettato di prima e cambiai atteggiamento “Ci sono troppe coincidenze per i miei gusti”, dissi a Jacqueline. “Comincio davvero a credere che ci sia qualcosa di misterioso.”
“Perché non andiamo a dirlo alla polizia?” domandò la ragazza,
“Perché non si può andare alla polizia e raccontare che un pittore pazzo ha smarrito un suo amico e che un branco di artisti senza fissa dimora scompare senza lasciare traccia. Forse le autorità francesi cercherebbero il responsabile per ringraziarlo del favore e per invitarlo a perseverare fino a liberare la città dalla nostra presenza. Sai cosa ci direbbero i poliziotti? Che sono spariti tutti quanti per evitare di pagare conti, affitti, debiti di gioco. E forse é proprio così.”
“E il conte?”
“E il conte si è suicidato. Se questo è quanto hanno concluso le loro indagini, perché dovrebbero ricredersi?”
“E allora cosa possiamo fare?”
“Hai mai letto i racconti di Edgar Allan Poe?” le chiesi.
“Un amico suo?”
“No, lasciamo stare. Voglio dire che noi possiamo compiere delle piccole indagini per nostro conto, guardando dove la polizia non ha pensato di guardare. Se le conclusioni ufficiali non spiegano tutti i nostri misteri, allora dobbiamo trovare un’altra soluzione. E cercare prove che la confermino.”
“Sono pronta. Quando cominciamo?”
“Domattina lavori?”
“No, sono libera. Il mio turno comincia al pomeriggio.”
“Bene; sarebbe opportuno visitare lo studio del nostro amico pittore per cercare qualche indizio, come dicono gli investigatori.”
“Io lo so dov’è lo studio di Jaume. È in rue Jules Verne. Gli ho fatto da modella qualche volta.”
“Fai un bel po’ di cose, mia cara Jacqueline.”
“Faccio quello che posso, caro signor Ernest.”
“Sai anche come entrare nello studio?”
“Non é un problema. La padrona ha le chiavi. Ormai mi conosce e penso che ci lascerà salire. Monsieur Ernest, ma quella donna laggiù… non è per caso…?”
“Dove?”
“Vicino all’uscita. Insieme a un ragazzo alto e biondo.”
“Li vedo. Hai ragione”, dissi, alzandomi cautamente in piedi. “Quella è Silvia. Ascoltami bene: ci vediamo domattina alle dieci in rue Jules Verne. Sii puntuale. lo cerco di raggiungere Silvia e-di farle qualche domanda. A domani.”
Mi feci rapidamente largo tra la folla: Avevo visto Silvia uscire dal locale insieme a un giovanotto che aveva l’aria di chi  si sente anglosassone, protestante, ricco e bello. Insomma, il tipo di americano a cui solitamente mi piace rompere il naso.
Non che lui  abbia fatto il minimo sforzo per farmi cambiare idea.
Appena fuori dal locale, infatti, raggiunsi la coppia e la fermai. “Signorina Silvia”,  le dissi, “chiedo scusa, ma vorrei dirle due parole.”
Silvia si voltò e alla luce del lampione riconobbi nei  suoi occhi la scintilla dell’indignazione che avevo colto la prima volta che la avevo vista. Stranamente, l’espressione cambiò quando lei mi guardò in viso, dandomi la sensazione di essere riconosciuto.
Purtroppo non potemmo discuterne, perché. subito il giovane americano si intromise: “Vattene  via. Chi ti ha chiamato?”
“Ho detto che vorrei dire due parole alla signorina”, gli spiegai, gentilmente.
“Ci sputo sulle tue due parole!” replicò lui. L’alcool lo rendeva particolarmente aggressivo.
“Ci vorranno soltanto due minuti”, dissi io.
“Ci sputo suoi tuoi due minuti. Ti avviso amico: mi chiamo Emery Wilson e sono stato campione di pugilato all'università.”
Per confermare la sua affermazione tirò un destro molto prevedibile nelle vicinanze del mio orecchio sinistro. Ormai mi aveva stancato. Per essere sincero non intendevo colpirlo troppo duramente, ma purtroppo, nel tentativo di evitare il mio pugno, Wilson riuscì a mettere il naso esattamente sulla traiettoria. Avvertii sotto le nocche la scricchiolio di qualcosa che si frantumava e vidi Wilson appoggiarsi al muro con gli occhi che lacrimavano e il naso che chiazzava di sangue la sua fine camicia bianca,
Mi guardai intorno cercando Silvia, ma  mi resi conto che doveva aver approfittato del breve combattimento per scomparire nella notte.
“Sembra che  la nostra amica se ne sia andata”, dissi.
Emery Wilson rispose con un lamento indefinito.
“Pare che nessuna di noi due stasera potrà avere quello che cercava.”
Wilson non mi rispose: Lo aiutai ad alzarsi, ma  lui mi spinse via con un grugnito e tornò barcollando verso il locale da cui eravamo usciti. Forse cercava Silvia, ma lei non era più lì. Il suo primo appuntamento con lei era andato a monte per causa mia, ma forse questo gli salvò la pelle.
Di sicuro seppi che Wilson era ancora vivo qualche mese più tardi, quando mi dissero che era stato messo al tappeto da un certo Luis Buñuel. Pare che l’estemporaneo incontro di pugilato abbia avuto inizio quando Wilson, di fronte ad alcuni disegni di un amico dello spagnolo, ebbe a dichiarare: “Ci sputo su questo Salvador Dalì.”
Una predisposizione naturale all’idiozia.
Intanto io avevo perso Silvia nella notte parigina, ma avevo, appuntamento con Jacqueline per il mattino seguente.



La cameriera dimostrò di essere una ragazza puntuale e anche una discreta investigatrice. Quando arrivai era già davanti alla casa in cui Jaume il pittore abitava e teneva il suo studio. Dopodiché convinse la padrona di casa a darci le chiavi, con il pretesto di lasciare un pacchetto nell’appartamento del catalano.
La donna acconsentì, dicendosi però molto preoccupata, perché il giovane non si vedeva da giorni, non le aveva di volersene andare e ancora le doveva alcuni mesi d’affitto. Del resto anche il ragazzo che condivideva l’appartamento con il pittore era assente da un po’. Tuttavia la padrona di casa era molto orgogliosa, perché Jaume alcune settimane prima le aveva fatto un ritratto, probabilmente sottraendo alla sua effigie una ventina d’anni e una quantità imprecisata di chili.
Lo studio di Jaume era all’ultimo piano ed era ben illuminato al mattino. Una volta entrati, Jacqueline e io ci ripartimmo i compiti: lei armadi e cassetti, io scrivania e incartamenti.
“Ci sono abiti da uomo di due taglie diverse”, mi comunicò lei. 
“Una taglia per Jaume e una per Pepe”, osservai. “La prima sul largo, la seconda sul magro. Quei due vivevano insieme: non c’è da meravigliarsi se. il nostro amico pittore si è preoccupato non vedendo più ricomparire il suo compagno di camera. Se non tornava a casa, o aveva cambiato letto o era sparito.”
“Ma Jaume dove sarà?”
“Non saprei... uhm...”
“Cosa c’è? Qualcosa d’interessante?” domandò Jacqueline.
“Si, ma non per la nostra indagine, credo. È un libretto di poesie firmato Federico García Lorca, con una dedica: :’A Jaume, in ricordo dì quella settimana a Palma del Rio.’”
“Continuiamo a cercare”, mi esortò la ragazza.
“Bene. Siamo nello studio di un pittore. Sarà il caso dì guardare i suoi lavori”, dissi, raggiungendo un tavolo su cui erano ammonticchiate tutte le superfici che Jaume aveva ricoperto di immagini. Cerano esempi di impiego delle tecniche e degli stili più svariati, ma la cosa più sorprendente era un quaderno di schizzi a matita, quasi tutti fatti a memoria e con un’ottima mano. Si trattava di personaggi incontrati da Jaume durante la sua permanenza a Parigi. Scorrendone le pagine trovai me stesso, la Stein, i Fitzgerald. Trovai Pepe, naturalmente, ma anche il conte, Jacqueline e poi...
“Silvia!” esclamammo simultaneamente.
“I ritratti seguenti sono tutti di persone indicate come ‘amico di Silvia’. Ma sono sconosciuti, almeno per me”, dissi.
“Anche per me.”
“Questa no”, osservai invece, estraendo un foglio seminascosto  nella copertina del quaderno.  Era un ritratto a colori a figura intera, inequivocabilmente di JacqueIine. Completamente nuda. “Deliziosa”, mi venne da dire.
La cameriera arrossì, mi rubò il foglio di mano e lo voltò dall’altra parte. “Guardi, c’è scritto qualcosa, dietro.”
“È vero. Dannazione, creda che sia scritto in catalano e la grafia non mi aiuta di certo. C’è la data dell’altro giorno…”
“L’ultima volta che l’ho visto”, notò lei.
Sì, ma temo che non aggiunga  molto a quello che già sappiamo. Mi sembra che ripeta ciò che aveva già detto a te quel pomeriggio.
“E allora?”
“Abbiamo guardato ovunque, senza esito. Non possiamo andare alla polizia senza  prove. E poi hai sentito cosa ci ha detto la padrona di casa: Jaume doveva pagare alcuni mesi di affitto arretrato. Forse gli è convenuto scappare a Barcellona, lasciando qui la sua roba.”
“Tutto qui?” protestò là ragazza, delusa.
“Sarà meglio che ce ne andiamo e lasciamo perdere questa assurda faccenda.”
Lasciammo l’appartamento. Senza farmi vedere, avevo infilato il quaderno sotto la giacca.
Per proteggere la ragazza,  le avevo rivelato solo una parte di quello che, avevo letto. Sul retro del foglio il pittore aveva riassunto le conclusioni delle sue indagini: era convinto non solo che Silvia attirasse gli uomini per ucciderli, ma anche che gli individui definiti come suoi amici fossero complici della trama. Erano tutti presenti alle feste in cui gli scomparsi erano stati visti per l’ultima volta. Feste svoltesi di notte, tra sabato e domenica, dalle quali era puntualmente scomparso qualcuno.
Chi selezionava gli uomini della “generazione perduta” come fossero tori alla vigilia di una corrida?



Avevo messo al sicuro Jacqueline tenendola all’oscuro  delle mie scoperte, anche se per fare questo avevo dovuta deluderla. La verità era che anch’io stavo cominciando a essere ossessionato dall’enigma, come era capitato a Jaume.
Non riuscivo a decidere se dovessi provare a discuterne con qualche poliziotto oppure adden trarmi ancora di più nella mia indagine da dilettante. Di certo, più facevo domande in giro, più le affermazioni scritte dal pittore sembravano sensate.
Un giorno, per strada, vidi una donna che mi parve Silvia. Preoccupato e affascinato al tempo stesso, 1a seguii per una decina di minuti prima di rendermi conto che mi ero sbagliato. Mi stava facendo impazzire, come era capitato al catalano. Anzi, di più, perché io me ne sentivo, violentemente attratto.
Poi, dopo qualche giorno, la soluzione del mistero tanto cercata venne a presentarsi da sola.
Avevo accettato l’invio a una festa. Era un invito di terzo grado, tramite amici di amici. Nemmeno conoscevo il padrone di casa, ma sapevo che il party avrebbe avuto luogo un sabato notte. Pensavo che mi sarebbe stato utile andarci e che forse avrei potuto incontrare qualcuno degli uomini ritratti sul quaderno di Jaume.
Più che una festa, la serata si rivelò essere un assembramento di persone che vagavano per una sala spaziosa con un bicchiere in mano, alla ricerca di una bottiglia per riempirlo. Accettai le regole del gioco e mi inserii nella corrente. Scoprii che chi era riuscito ad adattarsi meglio all’ambiente era quella vecchia spugna irlandese di Jimmy Joyce, che mi prese da parte e, dopo avermi chiesto un’opinione sui suoi ultimi lavori, cominciò a parlare in quel suo modo sconnesso e privo di punteggiatura che in seguito gli avrebbe procurato una certa fama letteraria.
Dopo una buona mezz’ora, Joyce era definitivamente decollato, ma io avevo visto una persona che mi interessava molto di più. E lei aveva visto me. Silvia mi si avvicinò con la stessa espressione che aveva quella sera in strada e con un sorriso mi disse: “La stavamo aspettando. Vuole venire con me,per favore?”
Avevo bevuto parecchio anch’io, ma credo che nemmeno da sobrio avrei opposto resistenza quando lei mi prese gentilmente per un braccio e mi invitò a seguirla in un’altra stanza della casa.
Non si trattava di quello che si può pensare: aveva invece l’aspetto di un saletta da pranzo, con un tavolo a sei posti di cui quattro erano già occupati. Almeno tre degli uomini seduti erano ritratti nel quaderno di Jaume e definiti come “amici di Silvia”. Erano tutti piuttosto giovani. Il più vecchio, un elegante quarantenne che sospettavo fosse il padrone di casa, prese la parola. Aspettavo che mi spiegasse a cosa gli serviva la pistola che aveva in mano.
“Buonasera. Si accomodi. Questa, come vede, è una pistola a tamburo. È scarica, ma ora io metterò un proiettile, uno solo, in una delle camere. Faccio girare il tamburo in modo da non sapere dove si trovi. Questo è il gioco: a turno si appoggia l’arma alla tempia e si preme il grilletto. Siamo in sei, ma solo cinque di noi saranno ancora vivi alla fine della partita.”
Ero quasi ipnotizzato, in parte dall’assenzio che avevo bevuto, in parte dalla bellezza di Silvia, sedutasi al tavolo accanto a me, in parte dal tono della voce dell’uomo. Forse non ero convinto che stesse parlando sul serio. Forse non me ne importava.
Il padrone di casa depose la pistola al centro del tavolo e la fece ruotare su se stessa. Quando si fermò, la canna indicava l’uomo seduto alla mia destra. Questi prese il revolver, se lo appoggiò alla tempia e con calma lasciò scattare il cane. Quindi passò l’arma a me.
La presi in mano; La soppesai, poi, quasi senza rendermi conto di quello che stavo facendo, ripetei la stessa operazione. Premetti il grilletto e il colpo non partì. A  questo punto passai la pistola a Silvia, seduta alla mia sinistra. Lei mi guardò sorridendo, puntò l’arma contro la propria testa e sparò.
Sobbalzai sulla sedia,  mentre il rosso del sangue violentava la sua pelle bianca e faceva scomparire la sua bocca color corallo. Avevo già visto molti uomini morire durante la guerra, eppure la fine di quella donna quasi sconosciuta mi sembrava un evento inaccettabile. Mentre lei si afflosciava sulla sedia, mi sorpresi ad afferrare e tenere stretta la sua mano, nel vano tentativo di trattenere la sua anima un attimo ancora. Era come vedere-distruggere un’opera d’arte in modo irreparabile.
“Perché?” chiesi al padrone di casa, accorgendomi solo in quel momento che al posto di Silvia ci sarei potuto essere io.
“Ha mai pensato”, cominciò lui, “che l’unico momento in cui comprendiamo pienamente il valore dell’esistenza è quello in cui stiamo per perderla? La vita ha senso solo in contrapposizione con la morte, altrimenti è una vita non vissuta ed è impossibile distinguere la differenza. Noi abbiamo trovato il modo di rammentare il valore della sopravvivenza, mettendola in gioco una volta alla settimana. Ci riuniamo a un tavolo in sei e ci rialziamo in cinque. Quello di noi che cade almeno sa di avere vissuto pienamente il tempo che gli è stato concesso. Quelli di noi che sopravvivono sono coscienti di avere a disposizione una settimana di più per approfittare della propria esistenza.”
“E così sono morti anche Pepe l’andaluso e Jaume il catalano. E questo spiega perché il conte sia stato trovate morto con una pistola a tamburo in mano”, commentai. “Ma dove sono finiti i corpi di tutti gli altri?”
“Un nostro amico provvede a portare i cadaveri fuori città, in campagna, e a seppellirli. dignitosamente. Era il conte, solitamente, a  mantenere i contatti con quest’uomo, perciò abbiamo avuto qualche problema la sera in cui lui è morto e siamo stati costretti a lasciare il cadavere in casa sua. Ma ora il problema è nuovamente risolto. Semmai, ci sarà difficile trovare nuovi compagni di gioco: era Silvia che ce li procurava. Ma naturalmente non potevamo negarle la partecipazione alle nostre partite.
Ora sapevo che era vero ciò che Jaume aveva scritto. Capivo che, la notte in cui era morto. il conte, non era solo nella stanza con Silvia ma era entrato per ultimo insieme a lei, dopo tutti gli altri giocatori. La musica e il baccano fatto dagli ospiti delle feste coprivano il fragore degli spari. Ora finalmente sapevo con certezza che fine avessero fatto tutti quegli uomini scomparsi.
Distesi con cura a terra il corpo di Silvia. Un corpo che avevo desiderato e che per qualche minuto mi ero illuso di poter possedere. “La vita in contrapposizione con la morte”, dissi. “E voi la affrontate deliberatamente una volta alla settimana. Chi muore tronca una vita inutile, gli altri hanno una ragione in più per godersi i sette giorni seguenti. Sì, è qualcosa che posso capire: è come una corrida, solo che voi siete toro e matador contemporaneamente.
Era una cosa che potevo capire perché faceva parte di me prima ancora di nascere, la stessa che ha spinto mio padre a schiarirsi il cervello con un colpo di pistola. E a farlo anche con un certo anticipo sul crollo di Wall Street, per non trovare traffico, sulla strada per l’aldilà.

Non parlai mai più con nessuno, nemmeno con Jacqueline, di quanto era avvenuto quella notte. Il corpo e il ricordo di Silvia scomparvero con 1a consueta rapidità e io preferii non incontrare più gli amici che lei aveva lasciato. Non mi giunsero più notizie di altre misteriose sparizioni, forse perché la morte della seduttrice aveva messo realmente in difficoltà i giocatori. Ma anche se non ebbi più a che fare con nessuno di loro, il ricordo di quella serata non mi abbandonò più. E ora è più intenso che mai.
Per anni e anni ho vissuto con l’impegno di spremere a fondo ogni goccia del succo della vita, sia che fosse strisciare sul dorso di una fangosa collina spagnola per strapparla ai franchisti o seguire una stagione di corride con Antonio e Luis Miguel, cercare le tracce di un animale nella foresta o sedermi alla macchina da scrivere con un fiasco di vino italiano, la mattina presto.
Ma ora temo di non avere nessuna impresa da compiere e poco di nuovo da dire. Sto perdendo la capacità di fare tutto quello che ha dato senso alla mia esistenza, compreso scrivere. Fuori dalla finestra la notte è finita e il sole illumina un nuovo mattino. Ma anche il sole impallidisce e tramonta e ormai il mio non può sorgere più. Tanti amici se ne sono già andati, ora persino Gary Cooper non c’è più. Presto vedrò il loro nuovo domicilio.
Ho scritto adesso la mia ultima pagina e penso di avere terminato il mio compito. Quello che per Silvia fu opera del caso quella notte a Parigi, io lo farò ora intenzionalmente. Spero almeno che tu sia in grado di capire e mi auguro che quello che ti ho raccontato possa spiegare meglio ciò che sto per fare.
                                                                                                                                                    Tuo, Ernest.

La mattina del due luglio 1961, pochi giorni prima di compiere sessantadue anni, Ernest Hemingway fu trovato morto dai suoi familiari. Si disse che un colpo era partito accidentalmente mentre lo scrittore stava pulendo uno dei suoi fucili. Non si parlò di alcuna lettera lasciata dal defunto. In ogni caso, la tesi del suicidio non venne mai ufficialmente confermata.



©1991 Andrea Carlo Cappi