Riflessioni di un celebre scrittore ignoto di Andrea Carlo Cappi
Com'è noto, buona parte della mia produzione riguarda la narrativa di spionaggio. Ho toccato più o meno tutti i generi della narrativa popolare: in questi giorni, finalmente, anche il western, seppure in modo trasversale (lo scoprirete, credo, tra agosto e settembre). Ma la spy story è stata la prima scintilla, da quando a sei anni ho visto un paio di film che mi hanno fatto scoprire l'esistenza di quel mondo. Però mi sono reso conto presto che, come in tutti gli argomenti della narrativa "di genere", c'è una bella differenza tra fiction e realtà. Ciò non toglie che talvolta ciò che accade nel mondo reale superi la fantasia.
L'equivoco più diffuso è pensare che lo spionaggio in sé sia solo finzione e che gli agenti segreti non esistano. Il mio approccio è sempre stato diverso: non bisogna pensare che lo spionaggio "vero" sia quello descritto nella maggior parte dei film di James Bond o di Mission: Impossible, prodotti di evasione con elementi molto fantasiosi, quando non esplicitamente improbabili. Ma, a ben vedere, James Bond proviene dai libri di Ian Fleming, che aveva realmente lavorato nello spionaggio, mentre Mission: Impossible, sfrondato "l'impossibile", ha lontane radici in pratiche effettive della CIA e di altri servizi segreti.
Giusto in questi giorni, a proposito di spionaggio "vero", il CNI spagnolo ha realizzato in video una breve spy-story sulla giornata di una propria agente, di cui trovate qui il link. Anche le mie storie non prevedono attrezzature tecnologiche fuori dalla realtà, né fantacomplotti apocalittici. Al tempo stesso tuttavia voglio conservare l'aspetto di azione e suspense che il pubblico si aspetta da un romanzo spionistico. Non ho quindi la pretesa di essere un narratore realistico come John Le Carré, pur considerandolo un maestro. Pure lui ha avuto esperienza diretta di servizi segreti, ma mentre Fleming immaginava le avventure che avrebbe voluto vivere, Le Carré raccontava ciò di cui era stato testimone.
In ogni caso, non si fabbrica un romanzo di spionaggio solo copiando gli stereotipi del cinema. Il problema che mi posi intorno ai tredici-quattordici anni era come scrivere spy story avventurosa ma plausibile, sulla linea di Fleming e di certi autori della collana Segretissimo di Mondadori, a loro volta ex agenti segreti, giornalisti specializzati sull'argomento o, quantomeno, scrittori ben documentati. Decisi quindi di informarmi: dopotutto è proprio dalla necessità di informazioni che nasce lo spionaggio. Copiai il modello di lavoro del giornalista di famiglia, Bartolo Pieggi, fratello di mio zio: raccogliere ritagli di notizie, leggere testi di storia e saggistica sull'argomento. Insomma, studiare.
Ma in più volevo imparare a vagliare le fonti: per esempio, ascoltando le trasmissioni in spagnolo di Radio Praga e confrontando le notizie con quelle che arrivavano dall'Occidente, fino a distinguere le informazioni dalla propaganda di entrambi gli schieramenti. Dubitare di tutto, diventando al tempo stesso un complottista e un anticomplottista: il primo vede trame oscure ovunque, il secondo le rifiuta a priori; se si arriva a una via di mezzo, forse diventa possibile mettere a fuoco solo i complotti veri o probabili. Credo che in fondo sia questo uno dei compiti degli analisti dei servizi segreti: intuire le minacce potenziali, possibilmente prima che siano in atto.
Dopo oltre trent'anni, il mio archivio era così vasto da permettermi di scrivere un volume di saggistica in cui racconto un secolo di clamorose vicende spionistiche realmente accadute. Quando fu pubblicato, nel 2010, la mia competenza venne messa alla prova in un programma tv di Corrado Augias, che già aveva apprezzato il mio romanzo sulla morte di lady Diana Spencer. Nel frattempo avevo cominciato ad aprire armadi pieni di scheletri: per esempio in Nighthade-Babilonia Connection mi ero occupato dell'invasione dell'Iraq, una guerra interamente basata su fake news: l'inesistente coinvolgimento di al-Qaeda con Saddam Hussein e le mitiche armi di distruzione di massa di quest'ultimo.
Se la mia parte narrativa è puramente immaginaria, i riferimenti ai fatti di cronaca o storia recente sono precisi. Il vantaggio è che dalle mie valutazioni non dipende il futuro della politica internazionale: devo solo preparare la base per un romanzo di azione che risulti appassionante ma verosimile per chi legge. Nel contempo, però, posso fornire spunti di riflessione e dubbio: e se le cose fossero andate più o meno come dico io? Le notizie reali che cito non hanno forse le stesse implicazioni inquietanti che indico nei miei romanzi? Il fatto è che a volte le cose vanno davvero come dico io, solo che io le scrivo in anticipo. Sicché, quando immagino uno scenario catastrofico, temo sempre che si realizzi sul serio.
L'altro grosso problema di "saperne troppo" è che diventano fastidiose le notizie molto "orientate", quando non decisamente false, usate per giustificare azioni scellerate come appunto la guerra in Iraq, che ha portato alla destabilizzazione perenne dell'area, alla nascita dell'ISIS e persino a un conflitto USA-Iran nel gennaio 2020 in cui, guarda caso, le uniche vittime furono i passeggeri di un aereo di linea ucraino.
Il discorso vale oggi per certe affermazioni sull'invasione in corso, ultimo drammatico atto di una strategia che ho chiaramente delineato nei miei romanzi più recenti, raccontando guerre ibride, finanziamenti occulti e interferenze politiche. Non è un caso se sempre più persone vengono a chiedermi opinioni sulla situazione: a volte un autore di spionaggio può essere utile per chiarirsi le idee.
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Andrea Carlo Cappi (Milano, 1964) ha esordito sulle pagine de Il Giallo Mondadori nel 1993. Da allora ha pubblicato una sessantina di titoli tra romanzi, raccolte di racconti e saggi, presso alcune delle maggiori case editrici italiane e qualcuna delle peggiori. Editor, traduttore, consulente editoriale, all'occorrenza è anche sceneggiatore, fotografo, illustratore, copywriter (di se stesso) e videomaker.
(Immagine: A. C. Cappi)
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